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Kultur | Il lutto

Ricordo di Paolo Grossi

Il 4 luglio 2022 è mancato il Presidente emerito della Corte costituzionale. L'Europa del diritto piange il suo grande interprete.

Con Paolo Grossi l’Italia perde il maggiore dei suoi giuristi; l’Europa del diritto perde il suo geniale interprete. Un vero signore e un professore, un tipo di accademico di un tipo di università che sembra oggi non esistere più. Nato nel 1933 a Firenze, Paolo Grossi, giurista e storico, ha impresso una salutare scossa alla scienza italiana. No. Così non va. Mi rendo conto, battendo queste prime righe, che rischio di ripetere quel che molte agenzie hanno già diramato poche ore fa, con l’ultimo omaggio al Presidente emerito della Corte Costituzionale e al caposcuola fiorentino, oggi annoverato a buon diritto tra i grandi del secolo passato e di quello presente. Per un simile ritratto non sarei artista degno. Mi piace invece ricordarlo uscire dall’Università Suor Orsola Benincasa, il complesso universitario che sfogliato dal sole si sporge sul Corso Vittorio Emanuele, al cospetto del mare. A Napoli, nel 2008. Fu allora che conobbi di persona il giurista e lo scrittore che tanto avevo letto e apprezzato come il tocco di un artista nei miei spesso insipidi studi universitari. La lezione era finita e lui si avviava rigorosamente a piedi verso il Britannique, dove soleva alloggiare. Dicevo, la lezione era finita, ma, guardate, una lezione del Professor Grossi non finiva per davvero. Era come uno di quei romanzi o di quei film, che, letta l’ultima pagina o scorsi i titoli di coda, ti rendevi conto che tutto era cambiato, che occorreva ripensare ogni cosa da capo. Capivi che certe lezioni, al pari di certi dialoghi, non si interrompono mai e continuano silenziosi nella mente. Lo stesso si può dire dei suoi libri, scritti in uno stile molto lontano dalle terribili nenie che intorpidiscono ogni passione per la scienza e per la vita. Un libro di Grossi si legge come un romanzo. Se non lo avete già fatto, provate. Ma torniamo a Napoli. La lezione, dicevo, era finita. Io, che allora gli facevo da assistente, ricordo bene le scintille che aveva acceso nelle menti e che rifulgevano negli occhi degli ascoltatori. Un miracolo raro (potrei narrarvi la noia di certi accademici, che provocano una giustificata diaspora tra gli studenti!).

Ispiratore di generazioni di giuristi, maestro di maestri, nessuna voce enciclopedica saprà dare esaustivamente conto del suo magistero. Né della sua carica ribelle. Ribelle, ho detto. Ma ribelle contro cosa? Quando alla fine del febbraio 2009 il Presidente Giorgio Napolitano lo nominò giudice alla Consulta, fu un barlume di speranza per l’Italia del diritto, allora spaesata dall’incipiente crisi economica e prima ancora politica. Per l’Italia e per «L’Europa del diritto» (titolo, questo, del libro stampato quello stesso anno, che suscitò l’ammirazione di Napolitano e di molti spiriti liberi che intendevano a fondo, con il cuore prima che con il raziocinio, la lezione europeista grossiana). Grossi non fu né un giurista né un professore “sistemico”. Tutt’altro. Egli impresse una scossa sismica alla scienza del diritto, esortando i giuristi a vincere le loro pigrizie e a coniugare arditamente sguardo retrospettivo (la storia) e studi giuridici. L’esperienza storica serviva infatti a scardinare le tante “mitologie” alla quali la maggioranza dei giuristi è ancora ossequiosamente affezionata. Grossi-storico guardava al passato, perché da questo traeva la luce da gettare sul futuro, senza accontentarsi della superficiale conformazione delle norme giuridiche scritte, valide oggi, ma deprivate di eredità e quindi incapaci di proiettarsi nel futuro. Storia, per lui, significava critica e, specialmente, critica delle convinzioni dominanti, che, aggiungo io, sono le convinzioni della classe dominante. L’invenzione del futuro, per lui, passava da una profonda interpretazione del passato e in questo senso l’Europa del diritto, che in quegli anni napoletani assumeva i tratti attuali del Trattato di Lisbona, poteva essere soltanto realtà «radicale», ossia di radici culturali meritevoli di indagine scientifica. A sua detta il giurista del nuovo millennio si trovava in un «punto» della storia e poteva spiare l’avvenire soltanto acquisendo consapevolezza della «linea», ossia della traiettoria di cui ogni elemento puntiforme fa necessariamente parte. Un messaggio che collideva e collide contro ogni spavalda pretesa di giustificare lo “status quo” - il diritto vigente - sul mero fondamento delle forze prepotentemente schierate nell’oggi. Un messaggio del quale noi tutti siamo ora debitori, se siamo in grado di intenderlo.

Due mesi fa lo incontrai un’ultima volta nella sua abitazione a Firenze. Nel suo elegante studiolo circondato dalla libreria e da onori attestati alle pareti, egli sedeva su una poltrona ai cui piedi giacevano pile di libri. Non era più quel Professore che percorreva imperioso il Corso Vittorio Emanuele, indorato dal sole primaverile. Aveva dismesso la toga di Presidente di una Corte che guidò in anni delicatissimi con audacia e perseveranza, imprimendo al costituzionalismo italiano un’impronta che esso stesso non sapeva di avere inciso nel suo Dna.

Si affidava a quello che chiamava in un ultimo lampo di eleganza linguistica il suo «fido bastone». Il prossimo gennaio avrebbe compiuto 90 anni. Parlammo a lungo. Ricordammo le conversazioni napoletane, quando io ventiseienne mi affacciavo agli studi e lui concludeva il suo magistero da Professore. Anni luminosi, li chiamava. Prima di accompagnarmi alla porta gettò un’occhiata ai libri e alle onorificenze che decoravano la parete del sobrio ma veramente ricco studiolo. «Ormai, mi disse, è un tempo passato». Usciti sul pianerottolo, prima di congedarmi, trovai il coraggio per obbiettare al maestro di studi: «Il passato, dissi, non passa mai per davvero. Lo ha scritto Lei». A quel punto l’ascensore era arrivato, entrai, la conversazione era conclusa, ma, come ogni vera conversazione, non conclude mai.

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Martin Daniel Do., 18.08.2022 - 14:32

Quando nelle sue lezioni parlava di come nel Medioevo più che la titolarità formale di un diritto era il possesso di fatto, espressione sostanziale della vita, a contare come quello di chi lavorava un fondo con il proprio sudore producendo i frutti necessari alla popolazione, allora quel contadino ti pareva di vederlo davanti ai tuoi occhi come zappava la terra sotto un sole impietoso. "Il Grossi", del quale negli anni novanta ebbi la fortuna di seguire le lezioni a Villa Ruspoli a Firenze, trasmetteva il diritto all'interno della sua cornice culturale e sociale rendendolo vivo come pochi. Riusciva a far emergere sia i dettagli che le grandi linee di cambiamento che caratterizzavano un'epoca o un passaggio d'epoca. È da lui che ho imparato quanta circolazione non solo di merci ma anche di persone e di idee c'era nel Medioevo, base di scambio e reciproco arricchimento in tanti ambiti. È lì che trapevala la sua, citata, vocazione europeista. Davvero un grande maestro, del quale dopo decenni se ne ricordano passione per la materia e concisione nell'insegnamento.

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