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La cultura durante il lockdown

Intervista a Simone Arcagni su "Blueprint", l'antologia che racconta le iniziative con cui musei, archivi, editori e associazioni hanno risposto all'emergenza sanitaria.
Blueprint
Foto: https://www.che-fare.com/

A ridosso della primavera del 2020, la pandemia da Coronavirus e le conseguenti restrizioni ci hanno costretti a reinventare buona parte delle nostre attività quotidiane, ripensandole o traducendole online. Ma come ha reagito il mondo della cultura a questa situazione? Se lo è chiesto, tra gli altri, Simone Arcagni, professore associato presso l’Università di Palermo e studioso di cinema, media, nuovi media e tecnologie, che per Einaudi ha pubblicato “Visioni digitali”. Da questa domanda, in collaborazione con cheFare e il Polo del ‘900, è nato “Blueprint”,  “una collezione di modelli, esperimenti e prospettive del meglio in circolazione per trasformare la cultura e renderla aperta, potente e sorprendente: arte, cinema, editoria, musica, teatro e videogiochi ­– un compendio su tutto ciò che è cambiato durante la quarantena per la pandemia di Coronavirus”. Ne abbiamo parlato con il professor Arcagni.

salto.bz: Quando ha iniziato a pensare a questa “antologia di buone pratiche”?

Simone Arcagni: L’idea è nata durante il lockdown, pressappoco a marzo dell’anno scorso. Si stava cominciando a riflettere su cosa sarebbe successo e su come si potesse far fronte a quella situazione di emergenza in ambito culturale – dalla scuola alle biblioteche, dai musei al cinema. Si stava sviluppando un dialogo molto interessante e proficuo a proposito delle quote d’investimento, dell’economia, eccetera; ma mancava una riflessione sulle pratiche. Quello che mi sono chiesto, perciò, è stato: perché non raccogliamo ciò che stanno facendo i musei, le scuole, le case editrici, le gallerie per reagire all’emergenza e per progettarsi in modi nuovi? Ho condiviso questa idea con Bertram Niessen di cheFare e Alessandro Bollo del Polo del ‘900, ed ecco “Blueprint”.

Come ci avete lavorato?

Abbiamo contattato 35 operatrici e operatori culturali di ambiti molto diversi e abbiamo chiesto loro di adottare una pratica di cui avevano letto, che avevano incontrato o provato. Abbiamo guardato soprattutto fuori dall’Italia per una ragione molto semplice: è più facile che le attività locali siano conosciute, mentre raramente lo sono quelle di qualche piccolo museo o archivio all’estero. Ci interessava che a intercettarle fossero persone abituate ad avere le antenne tese rispetto a queste novità, e abbiamo chiesto loro di proporre una semplice scheda: “Di cosa si tratta”, “Perché è fico”, “Chi l’ha fatto” e un link.

Il vostro obiettivo, quindi, era sia teorico che pratico. Da un lato, capire cosa stava succedendo e cosa sarebbe successo nei mesi a seguire; dall’altro, proporre iniziative e idee che si sarebbero potute replicare. È corretto?

Sì, però nel nostro caso la teoria doveva venire dopo. Il primo passo era fare un archivio di pratiche. Vedere chi aveva dato delle risposte al momento emergenziale in ambito culturale. Poi, ovviamente, abbiamo iniziato a tirare alcune somme, le stiamo ancora tirando. A breve inizieremo a fare degli incontri pubblici in cui ne parleremo, anche con persone esterne al progetto. Ma l’obiettivo primario era proporre questo collettore, ragionato e critico, di pratiche.

Il primo passo era fare un archivio di pratiche. Vedere chi aveva dato delle risposte al momento emergenziale in ambito culturale.

Avete finito di raccogliere il materiale durante il primo lockdown e nei mesi successivi avete lavorato alla realizzazione editoriale del volume. Cos’è cambiato, invece, con la cosiddetta “seconda ondata” e, dunque, coi nuovi lockdown?

È una domanda difficile, e preferisco rispondere a titolo personale. Partiamo da una constatazione: i nuovi lockdown sono stati meno stringenti del primo, però i musei sono rimasti comunque chiusi. A essere sincero, sono stato un po’ deluso dalle reazioni a questa seconda fase. Il primo lockdown è stato un fatto eccezionale, un’emergenza inedita. Molte realtà sono rimaste, come tutti noi, basite di fronte a ciò che stava succedendo. Ma che ci saremmo ritrovati per molto tempo in una situazione emergenziale, con alto rischio di chiusura, lo sapevamo tutti. Nonostante questo, siamo arrivati all’autunno con poche idee. La richiesta di fondi e di aiuti è giusta e sacrosanta, ma forse ha un po’ prevalso sul tentativo di ripartire dalle proprie possibilità e dai propri archivi e di ripensarsi su nuove piattaforme.

Che ci saremmo ritrovati per molto tempo in una situazione emergenziale, con alto rischio di chiusura, lo sapevamo tutti. Nonostante questo, siamo arrivati all’autunno con poche idee.

Che riscontro avete avuto?

Alto, molto alto. Abbiamo ricevuto tante risposte e ringraziamenti per questo lavoro. In molti non conoscevano le pratiche che abbiamo raccontato, o ne conoscevano solo alcune. Ora stiamo cercando di capire come proseguire. Stiamo vagliando una serie di opzioni, ma purtroppo non ho ancora niente di definitivo da dire. Certo è che molti operatori culturali hanno manifestato il loro interesse e la loro disponibilità per esserci, se decidessimo di andare avanti con questo lavoro.

Buona parte delle pratiche raccolte in “Blueprint” arriva dall’Europa. Dal “Windmill Road Picture Show”, una rassegna cinematografica in cui i film sono stati trasmessi sui muri di un palazzo a Cork, in Irlanda, a “Barcelona desde casa”, un esperimento di intelligenza collettiva volto a migliorare l’organizzazione e la collaborazione dei cittadini durante la quarantena, per esempio aiutando a creare reti di supporto e mutuo aiuto. Da “Economia – The limited dedition”, un festival online che arriva da Eindhoven, Olanda, in cui “attraverso una serie di talk online, dibattiti, game session, una conferenza accademica e una mostra, ci si interroga sulla natura dell’economia come costrutto sociale e culturale, per sbarazzarsi finalmente dell’idea che questa segua inevitabilmente il suo corso”; a “The Viewphone”, da Lissie, Olanda, grazie a cui chiunque lo desiderasse ha potuto “parlare con il personale del museo (dal direttore a chi si occupa di pulizie, dal bibliotecario alla curatrice) ogni venerdì pomeriggio per tutto il tempo della quarantena. Le conversazioni potevano essere prenotate via mail, prendendo spunto da un’opera d’arte per ampliarsi a temi personali e riconoscibili anche dal destinatario, tale per cui fosse possibile uno scambio di massimo 10 minuti”.

Ma sono soprattutto le pratiche provenienti da molto lontano a ricordare che rispondere a una situazione di emergenza significa anche fare i conti con la realtà economica e sociale in cui ci si trova ad agire. È il caso, per esempio, di “Teach for Uganda”, raccontata da Lorenzo Benussi e grazie alla quale “i docenti hanno erogato lezioni via sms, ovviando all’assenza di connettività dei propri discenti. Inoltre, hanno raggiunto gli studenti più isolati del paese inviandogli workbook cartacei e, in alcuni casi, raggiungendo loro fisicamente per delle lezioni a domicilio.”

 

“Blueprint” è scaricabile gratuitamente ed è stato ideato, progettato e realizzato da Simone Arcagni, Paola Asproni, Alessandro Bollo, Marilù Manta, Federico Nejrotti, Bertram Niessen, Giulia Osnaghi e Celeste Zavarise.