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Ascoltare il dolore

La pandemia esercita su medici, personale sanitario, ma anche sui familiari un peso talvolta insostenibile. La psicoterapeuta Eva Pattis Zoja racconta la sua esperienza.
Eva Pattis Zoja
Foto: Editura Herald

Salto.bz: Eva Pattis Zoja, qual è il background alla luce del quale è nata l'iniziativa “Accogliere le ferite di chi cura”, particolarmente importante nell'affrontare le conseguenze psichiche della pandemia sul personale medico e sanitario, ma non solo?

Eva Pattis Zoja: Questa iniziativa cerca di adattare le esperienze che ho raccolto negli ultimi 15 anni mediante l'allestimento di progetti in varie parti del mondo (Colombia, Argentina, Malesia, Africa, Cina, Ucraina, Palestina), tutti basati sul volontariato, che avevano in primo luogo a che fare con bambini residenti in aree molto disagiate (cfr. www.sandwork.org). Al momento abbiamo a disposizione 150 volontari psicoterapeuti e cerchiamo di fare qualcosa di simile, chiaramente lavorando a distanza, cioè utilizzando il telefono e la messaggistica.

Consultando le prime note esplicative che appaiono nel sito sandwork.org si legge che questo tipo d'intervento è un metodo terapeutico trans-culturale, non verbale, particolarmente rilevante in situazioni in cui la psicoterapia non è disponibile.

Esatto. Per questo possiamo vedere molte analogie con ciò che sta accadendo qui, adesso. Il virus ha creato uno stato di necessità complessivo che grava moltissimo sulla psiche degli individui coinvolti (in primo luogo i malati e i loro congiunti, ma anche il personale medico e sanitario). Queste persone non hanno in genere la possibilità di accedere a dei servizi di assistenza psicoterapeutica, quindi occorreva intervenire per offrire loro una sponda, un primo tentativo di aiuto concreto. Ciò che cambia è per l'appunto la strumentazione di base: non potendo ricorrere ad una metodologia non verbale (quello che altrimenti noi facciamo con i bambini, utilizzando la sabbia e i giochi), abbiamo spostato il focus proprio sulle parole e lo scambio dialogico.

Noi non diamo mai consigli espliciti, sospendiamo completamente il giudizio. Ci limitiamo ad aiutare chi parla a cercare in se stesso una via d'uscita dal dolore.

Chi si rivolge al vostro servizio?

Il servizio è nato in primo luogo pensando di rivolgersi a medici e sanitari, quindi a tutti gli operatori coinvolti direttamente nel contenimento della pandemia. Ma in realtà ci siamo poi accorti che ad averne particolare bisogno erano anche i familiari, chi rimaneva a casa assorbendo in un certo senso le preoccupazioni di chi stava a contatto con i malati ma sostava in un'area di tempo svuotata, che è poi il luogo emotivo in cui si accumulano le ansie maggiori. Non tanto o solo i direttamente traumatizzati, quindi, ma anche chi si muoveva alla periferia del trauma.

 

I dialoghi come avvengono, come si concretizzano?

Al contrario della psicoterapia classica, dove siamo noi ad andare in cerca dei conflitti soggiacenti e taciuti, in questo caso la prima cosa da fare è aprirci all'ascolto, stimolare le risorse individuali che possono contribuire a mettere in atto un processo di auto-guarigione. È esattamente ciò che accade quando medichiamo una ferita fisica. La ferita è lì, evidente, esposta. Allora noi abbiamo il compito di sterilizzarla e di permettere al corpo (in questo caso alla mente) di richiuderla. Noi non diamo mai consigli espliciti, sospendiamo completamente il giudizio. Ci limitiamo ad aiutare chi parla a cercare in se stesso una via d'uscita dal dolore. In genere le sedute si articolano in 4 momenti e avvengono modellandoci sulle esigenze di chi ci contatta.

Essere costretti ad usare mezzi come le telefonate, le videotelefonate o le chat instaura una distanza maggiore?

Ogni modalità comunicativa ha i suoi pregi e i suoi difetti. Il contatto fisico è sempre difficile da sostituire, ma per quanto mi riguarda posso dire che preferisco per esempio le telefonate alla comunicazione che utilizza il video. Al telefono l'ascolto diventa spesso più profondo, più accurato. In video il flusso a volte si blocca, possono esserci effetti disturbanti e avere l'interlocutore, con la sua faccia, così in evidenza, inibisce in qualche modo la spontaneità.

Quali sono le emozioni e i traumi che affliggono in particolare i medici e i sanitari?

Il personale sanitario manifesta soprattutto l'angoscia legata al senso di colpa di poter fare poco, o molto meno di quanto sarebbe necessario. Emergono racconti strazianti, soprattutto legati a esperienze che hanno a che fare con pazienti che soffrono e spesso muoiono in solitudine, senza il conforto dei propri cari. C'è chi non può dimenticare lo sguardo, gli ultimi sguardi dei morenti che non riescono più a respirare. Chi assiste si sente schiacciato dall'impotenza.

La narrazione sull'eroismo dei medici e del personale sanitario costruisce una cornice dentro la quale le esperienze traumatiche non possono essere contenute, perché inibiscono la rivelazione di altre emozioni, come per esempio anche la semplice e concretissima paura di essere contagiati.

Cosa rimpiangono di non poter fare?

Possiamo parlare di un contagio della solitudine. Il paziente muore solo, ma anche il medico è costretto a fronteggiare questa solitudine con la propria solitudine. Spesso ci dicono: non siamo riusciti ad essere davvero vicini ai pazienti come avremmo voluto, non abbiamo potuto dare un'ultima carezza, ci siamo fermati davanti a quegli occhi sbarrati. Non dimentichiamoci che si tratta di personale messo a durissima prova, gravato da turni lunghissimi e costretto ad osservare dei protocolli di sicurezza snervanti. Tutto ciò porta a essere letteralmente imprigionati in molteplici strati di stress. Molti di loro hanno poi difficoltà a staccare, non riescono a dormire, sono visitati da incubi.

Da tutto ciò emerge un quadro di estrema fragilità, che contrasta con la narrazione sugli “eroi nelle trincee del dolore” spesso utilizzata dai media.

Questo infatti è un altro grosso problema. La narrazione sull'eroismo dei medici e del personale sanitario costruisce una cornice dentro la quale le esperienze traumatiche, delle quali abbiamo appena parlato, non possono essere contenute, perché inibiscono la rivelazione di altre emozioni, come per esempio anche la semplice e concretissima paura di essere contagiati. Sono tali paure che, se compresse, alla fine causano i danni maggiori, perché bloccano il naturale processo di elaborazione psichica del dolore (anche e soprattutto del proprio dolore). Quindi noi cerchiamo di spezzare la rigidità della cornice, della narrazione dominante, per far defluire lo stress generato dall'obbligo di confermare le aspettative di “eroismo” in zone che permettono al contrario il recupero di un'immagine più realistica del proprio operato e delle proprie responsabilità.

 

Probabile che la narrazione dei “medici in trincea”, del loro eroismo, sia creato anche per mascherare, o comunque abbia finito col nascondere certe disfunzioni organizzative?

Il primo giorno dell’emergenza la direzione degli ospedali ha radunato tutto il personale e ha detto che nessuna notizia doveva uscire all'esterno. La disorganizzazione è estrema. Turni che cambiano, che vengono comunicati all’ultimo momento. Competenze disponibili ma non impiegate a causa della cattiva organizzazione. Attrezzature spesso inadeguate e incapaci di proteggere. Un grandissimo carico di ore senza nessuna integrazione di stipendio. E poi grandissima incertezza su come trattare i pazienti (che restavano spesso senza avere informazioni su ciò che veniva fatto loro). Si sono avuti anche casi di persone alle quali sono stati sottratti effetti personali (come ad esempio i cellulari) poi andati dispersi. Ciò ha generato rabbia per come i sanitari sono stati trattati dallo stato e dalla protezione civile.

Oltre al senso di colpa quali altri pensieri negativi possono emergere?

Talvolta lo stress prende la via della recriminazione. In un colloquio avvenuto tra uno psichiatra, Roberto Grande, e un rianimatore è emersa per esempio una forma di rancore nei confronti degli anziani, smosso dalla terribile necessità di scegliere a chi salvare la vita. Quella persona accusava implicitamente gli anziani di aver generato un mondo malato, inospitale, e ora lui era costretto a prendersi cura di loro. Il virus sta anche tracciando un solco profondo tra le generazioni, opponendo giovani e vecchi.

Cosa si può dire, come ci si rapporta ad una persona che evidenzia una tale interpretazione dei fatti?

Noi non giudichiamo, come detto. Facciamo solo in modo che emergano tutti i pensieri, tutti i sentimenti possibili: anche quelli più crudeli, ingiusti o sbagliati. Cerchiamo di creare una risonanza emotiva tra chi ascolta e chi si sta aprendo, e la risonanza serve sempre a sgonfiare la rabbia, i sentimenti negativi cominciano ad essere visti anche in modo autocritico.

Il virus sta anche tracciando un solco profondo tra le generazioni, opponendo giovani e vecchi.

Mi interessa tornare al tema più generale del conflitto generazionale, come è possibile in qualche modo agire per sanarlo?

Il conflitto ci dà sempre l'opportunità per ripensare i termini che vengono coinvolti nelle sue dinamiche. Qui potremmo anche assistere al profilarsi uno scenario in cui, reagendo ad un trend consolidatosi nel recente passato – per il quale la vecchiaia in pratica è stata quasi abolita, perché tutti vogliono sentirsi giovani fino a settantacinque anni, spesso omologando i propri comportamenti a quelli di chi ha trenta o perfino quarant'anni di meno –, gli anziani tornano in un certo senso a “fare gli anziani”, quindi permanendo di più a casa, mantenendo maggiormente le distanze...

Ma questa non è un'immagine molto negativa, non porta a una sorta di ghettizzazione?

Solo in apparenza. Perché potremmo anche tornare a considerarli come soggetti speciali, che hanno bisogno di cura e quindi anche di essere maggiormente presi sul serio per quanto riguarda le loro esigenze. Adesso viviamo un po' in una dimensione in cui tutti sono uguali, anche se logicamente è solo una finzione. Tornare a percepire e disegnare maggiormente certe differenze non la vedo necessariamente come una cattiva idea.

L'impatto della crisi legata alla diffusione del virus si sta rivelando violentissimo e lascerà sicuramente tracce molto profonde. Nella sua esperienza aveva mai avuto a che fare con eventi così vasti e traumatici?

Mi trovavo a New York proprio nei giorni dell'attentato alle due torri gemelle, nel settembre del 2001. Vedo molte analogie con quella situazione, la stessa fissità degli aspetti legati alla percezione del tempo, che sembra quasi fermarsi, ma anche a livello di effetti postumi.

Tracce come queste non scompaiono dall'oggi al domani, si incidono in profondità e condizionano a lungo comportamenti e attitudini.

Per esempio?

Uno degli effetti più eclatanti è l'innalzamento del livello medio di atteggiamenti paranoici. Tutti vengono improvvisamente visti come potenziali nemici. Io vivevo vicino a un laghetto, e ricordo che in poco tempo sempre più persone si erano convinte che dei terroristi vi avessero riversato sostanze altamente inquinanti. Anche la diffidenza nei confronti degli stranieri aumenta in modo esponenziale. Prima dell'attentato essere stranieri non costituiva un problema, a New York. Ma subito dopo c'è stato un moto di chiusura, tipico di una comunità ferita che vuole ritirarsi in se stessa. Anche noi, che venivamo dall'Italia, non eravamo più così tanto benvenuti...

Quindi anche pensando al nostro caso, dobbiamo mettere in conto che le tracce di quanto sta avvenendo permarranno molto a lungo?

Sicuramente ci sarà bisogno di una lunga rielaborazione, certo. Tracce come queste non scompaiono dall'oggi al domani, si incidono in profondità e condizionano a lungo comportamenti e attitudini. Per ricostruire occorre tempo, pazienza e ascolto, ascolto degli altri e di noi stessi.

 

Anche alla luce della vostra pratica terapeutica, quali sono i segnali che possono farci intravedere la rinascita, da cosa ci si accorge, per esempio, che una persona traumatizzata sta rifiorendo?

I segnali sono in primo luogo di tipo fisico. Si ritorna a dormire meglio, tutte le funzioni del corpo si riequilibrano. Se avessimo a che fare con incontri vis-a-vis potremmo notarlo anche dallo sguardo. E poi c'è la ripresa della voglia di fare qualcosa, un innalzamento degli aspetti motivazionali, scema l'apatia e si dissolvono i pensieri ricorsivi, ossessivi.

Un'ultima domanda. Nel testo che lei ha redatto per salto.bz, in cui analizzava la sua reazione, da sudtirolese, al diffondersi dell'epidemia, ha attirato l'attenzione su come determinati pregiudizi legati in particolare all'identità dovuta alla provenienza influenzano la percezione delle cose. I pregiudizi, però, vengono associati in genere ad aspetti negativi, che ostruiscono la comprensione. È possibile vederli anche positivamente? In altre parole: c'è qualcosa, nella sua sudtirolesità, che adesso la sta aiutando ad affrontare meglio quanto sta avvenendo in questi giorni?

Questa è una domanda interessante, che mi spinge ad indagare la questione dell'identità in un modo diverso dal solito. Ma forse la chiave è proprio ancora nella pratica dell'ascolto, che sta alla base del particolare approccio psicanalitico da me seguito. Direi che, da sudtirolese, sono maggiormente abituata a confrontarmi con l'altro, perché in Sudtirolo l'esperienza dell'alterità è comune, direi addirittura quotidiana, e coinvolge reciprocamente tutti i gruppi linguistici. Quando ho lasciato Bolzano sentivo magari questo continuo confronto come oppressivo, focalizzandomi sugli aspetti di chiusura che nascono sempre ai margini di una convivenza nata da eventi problematici. Adesso ne sto invece rivalutando le sfumature che consentono di coglierne anche le istanze di apertura, come per esempio una maggiore propensione al dialogo e alla mediazione.