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“Il mostruoso femminile”

Il saggio di Jude Ellison Sady Doyle aiuta a capire da dove deriva la paura delle donne e quali sono le basi su cui continua a poggiare saldo il patriarcato.
Il mostruoso femminile
Foto: TLON/salto.bz

Viviamo tempi in cui alcuni slogan femministi sono comparsi su magliette che gridano l’essere alla moda; in cui la possibilità femminile di raggiungere il potere si confonde con la vittoria di una lotta invece che denunciare la conferma di quel modello dominante fatto su misura dei primi; in cui le streghe – figure emblema di un’oppressione che non ha mai avuto fine – sono diventate un fenomeno commerciale e turistico tanto che, laddove in passato hanno avuto luogo processi e persecuzioni che hanno portato all’esecuzione di decine di donne, si trovano oggi negozi che vendono bambole e altri oggetti raffiguranti streghe.

Viviamo tempi in cui la riscoperta del femminile rischia di essere appannaggio del marketing; in cui “we should all be feminist” è un messaggio mostrato da chi è una rappresentante di un sistema che si riassume in tre semplici parole: produci, consuma, crepa; in cui ci si scandalizza perché Elisabetta Franchi dichiara di assumere donne over quaranta così già sposate e/o divorziate, madri o mai più madri senza pensare che gli uomini hanno da sempre una vita più facile non grazie a una stilista ma grazie a una cultura e a uno Stato che affondano le proprie radici nella società capitalista che continua a fornire un preciso modello di donna socialmente accettata.

In questo contesto che accoglie il pensiero critico solo quando non disturba nessuno e che invoca l’“empowerment femminile” scandalizzandosi davanti alla messa in discussione radicale del patriarcato, un saggio sulla natura selvaggia della femminilità rischia di essere l’ennesimo prodotto che strizza l’occhio a quel femminismo mainstream tanto in voga sui social, invece “Il mostruoso femminile” – scritto da Jude Ellison Sady Doyle e pubblicato in Italia nel 2021 dalle Edizioni Tlon – riesce ad aggiungere nuovi elementi su cui poter riflettere.

 

Il caso Encarnación Bail Romero

 

È notizia di qualche giorno fa il fatto che la Corte Suprema degli Stati Uniti sia intenzionata a limitare il diritto all’aborto: i giudici della corte sembrerebbero orientati a ribaltare la sentenza “Roe v. Wade” che da 49 anni garantisce l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza a livello federale. Per capire come quest’ennesimo affondo legislativo contro il diritto all’aborto sia dettato non dalla paura di “uccidere i bambini” ma dal timore che “siano le donne a prendere le decisioni; non è la morte che vogliono togliere dalle loro mani, è la vita” appare chiaro da una consuetudine americana che ricorda da vicino ciò che avveniva durante gli anni dello schiavismo quando i padroni stupravano le schiave per poi vendere i bambini e arricchirsi. Scrive Doyle che “nel 2018, gli Stati Uniti hanno iniziato a strappare con forza i figli degli immigrati richiedenti asilo alle frontiere, e a sistemarli in strutture separate da quelle dei genitori, a volte dall’altra parte del Paese. Dopo una manifestazione di protesta, la polizia ricevette l’ordine di fermarsi, ma pochi mesi dopo lo Stato, in assoluto silenzio, stava dando in adozione i bambini i cui genitori erano già stati deportati”. Tale pratica, già in atto negli Stati Uniti da anni, vede nelle donne immigrate l’unico bersaglio preso di mira indistintamente da donne e uomini della borghesia americana. Nel 2007, durante un raid del servizio immigrazioni, a Encarnación Bail Romero viene portato via Carlos, detto “Carlitos”. Suo figlio di soli sei mesi viene affidato a una coppia bianca, i Moser, che lo adottano e gli cambiano nome in Jamison. Quando, dopo cinque anni, Romero prova a riavere suo figlio, perde la causa, una sconfitta, questa, che dichiara la morte per lo Stato di Carlitos Romero. Come giustamente nota Doyle, “in questo sistema le donne bianche, come Melinda Moser, ottengono una sorta di potere patriarcale che possono esercitare sulla capacità riproduttiva delle donne con meno privilegi, utilizzando i loro corpi emarginati per creare la famiglia che desiderano”. A questo punto, sarebbe interessante sapere se la giudice Amy Coney Barrett, uno dei membri della Corte Suprema degli Stati Uniti, goda dell’aiuto di una donna nera, latinoamericana o immigrata per la gestione dei suoi sette figli, dato che “le donne a cui viene impedito di crescere i propri figli sono le stesse a cui viene richiesto di crescere i figli della classe dirigente”.

Nella sua operazione di assemblaggio che mette insieme letteratura, film, miti, politica e cronaca nera, Doyle invita ad affrontare la questione di genere a partire dal diverso modo in cui viene giudicato un uomo che uccide rispetto a una donna che uccide: “Se volete comprendere quale sia la situazione attuale in materia di genere, cominciate da qui, dal fatto che venga mostrata più indulgenza per un uomo che ha ucciso una cinquantina di prostitute che per una prostituta che si è difesa contro sette uomini”. La donna omicida – esattamente come la donna che decide di non diventare madre – rappresenta uno degli esempi più lontani da quel modello di donna accogliente, gentile, non propensa alla violenza che non rappresenta un pericolo per la società capitalista e che dunque vuole la società. Leggendo “Il mostruoso femminile” appare chiaro come la narrazione per cui il termine “femminile” equivalga a “correttezza”, “dolcezza”, “mitezza” sia una gabbia nella quale troppo spesso ci si rinchiude volontariamente. La trappola della perfezione non è fatta solo da angeli del focolare, ma anche da esempi di donne di successo, donne imprenditrici, donne che accettano di sottostare a regole fatte su misura dell’uomo bianco. Sarebbe ingenuo e sconveniente auspicare che una qualunque Melinda Moser o una qualunque manager facessero proprio un pensiero “realmente” femminista, ma per coloro che fanno delle streghe non un’immagine su una maglietta ma un esempio da difendere e seguire ricordo l’invito di Jude Ellison Sady Doyle: “Se il villaggio non ci vuole possiamo sempre dirigerci verso i boschi”.