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“Ora sogniamo il podio alle Olimpiadi”

Da Appiano ai Giochi di Tokyo 2020, Raphaela Folie, la “gazzella” dell’Italvolley, si racconta: tra rivincite e ambizioni da medaglia, muri etnici e canzoni da baita.
Raphaela Folie
Foto: Francesco de Simone

Nella storia sportiva della pallavolo italiana c’erano già entrate di diritto, dopo lo straordinario argento agguantato ai mondiali nel 2018; ora nell’olimpo dei grandi bisogna solo fare posto per tutte. Soprattutto per chi ha sete di rivalsa. Domenica scorsa a Catania le “ragazze terribili” dell’Italvolley hanno battuto l’Olanda per 3 set a zero qualificandosi alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Fra le azzurre, a fare la differenza, è stata anche Raphaela Folie, originaria di Missiano (frazione del comune di Appiano), che, tornata a giocare in nazionale dopo l’infortunio al ginocchio che le aveva fatto saltare l’ultimo mondiale, nella partita contro le Orange ha segnato 10 punti, battendo il match point che ha portato al trionfo la squadra allenata da Davide Mazzanti.

La 28enne centrale, di madrelingua tedesca, perfettamente bilingue (ma parla fluentemente anche l’inglese e un po’ di portoghese), vive da 3 anni a Conegliano dove con l’Imoco Volley ha vinto questa stagione il campionato. “Ho vissuto un po’ dappertutto in Italia - racconta -. Quando giocavo a Trento facevo avanti e indietro a Bolzano dove frequentavo il liceo, in una scuola tedesca, dopo mi sono trasferita due anni a Novara, e ancora a Bergamo, poi vicino a Milano e a Modena”. Ma l’Alto Adige ha rilasciato il suo effetto nostalgia molto presto. “Il primo anno che sono andata ad abitare a Novara è stato traumatico perché io la nebbia e le zanzare non le avevo mai viste. Il sole non si è fatto vedere per 3 mesi, chiamavo mia madre al telefono e le chiedevo dove fossi finita. Allora ho cominciato ad apprezzare molto di più la mia terra”.

 

 

salto.bz: Folie, è arrivato il tempo delle rivincite per lei dopo lo stop forzato dell’infortunio. Quest’anno ha vinto lo scudetto con il Conegliano e ora ha centrato anche la qualificazione ai Giochi Olimpici del 2020 con la nazionale, il digiuno è definitivamente finito?

Raphaela Folie: Speriamo. È stato un anno molto lungo per me, soprattutto perché durante la stagione non sono mai riuscita a recuperare del tutto la forma fisica che avevo prima che mi rompessi il ginocchio. Dopo lo scudetto sono andata direttamente in nazionale, ma mi sono dovuta fermare un mese. Ho fatto un grandissimo recupero muscolare, ero in sala pesi tutti i giorni, e poi tornata in nazionale sono riuscita a esprimere di nuovo quello che era il mio gioco prima dell’infortunio. Devo ringraziare anche l’allenatore che ha scombussolato le titolari, dandomi l’opportunità di giocare queste qualificazioni, che era l’obiettivo principale della nazionale per quest’estate. Negli ultimi vent’anni l’Italvolley ha fatto davvero tanto, ma non è mai riuscita a portarsi a casa una medaglia alle Olimpiadi, mi auguro che questo gruppo riesca a farcela.

Prima c’è la sfida dell’Europeo, però.

Coach Mazzanti ci ha concesso questa settimana di riposo, la prossima ci alleniamo a Roma e poi si parte, la competizione inizia il 23 agosto. Abbiamo poco tempo per affinare le ultime cose, ma penso che abbiamo fatto vedere di cosa siamo capaci, abbiamo trovato il nostro ritmo e se andiamo all’Europeo con questo gioco possiamo puntare a una medaglia. 

Dopo la vittoria con l'Olanda siamo andate a festeggiare in un bar, a Catania, aperto 24 ore su 24, e poi abbiamo fatto un tuffo in piscina alle 6 del mattino. Dovevamo scaricare la tensione

Al Preolimpico avete battuto Kenya, Belgio e Olanda senza perdere nemmeno un set, qual è il vostro combustibile?

L’atteggiamento in campo. Esultare con ogni compagna che va a segno, andare oltre l’errore che si può commettere e pensare al prossimo punto. In questo modo il gioco funziona meglio, fare il “compitino”, stando nel proprio, come fanno alcuni, non è bello. Siamo una squadra giovane e ci sta che mentalmente non si riesca sempre a stare concentrate, ma stavolta siamo state tutte bravissime, abbiamo avuto la capacità di tenere la mente fredda nei punti importanti. E non ci aspettavamo di vincere così, anche perché le finali del torneo Volleyball Nations League di qualche settimana fa non sono andate per niente bene e avevamo perso un po’ di fiducia, siamo andate in campo propositive, però, e quando torniamo a fare quello che sappiamo fare bene diventa difficile starci dietro. 

Che cosa ha fatto subito dopo la vittoria con l’Olanda?

Siamo andate in un bar, a Catania, aperto 24 ore su 24, abbiamo festeggiato e poi abbiamo fatto un tuffo in piscina alle 6 del mattino. Dovevamo scaricare la tensione dopo 3 settimane di allenamenti intensivi, eravamo sfinite sia mentalmente che fisicamente.

E ora? Il meritato riposo del campione?

Magari. Sto studiando, appena dopo l’Europeo ho 3 esami da dare, devo darmi da fare. Mi sono iscritta a Scienze dell’educazione l’anno scorso, seguo i corsi online perché con gli allenamenti non è un’opzione frequentare una università normale. 

C’è una squadra che teme più di altre?

L’anno scorso la nazionale ha perso contro la Serbia in finale, che sembrava essere la squadra con più continuità, in effetti, non dovremo sottovalutarla. In ogni caso tra le 5-6 squadre più forti sono i dettagli che fanno la differenza, quindi sia all’Europeo che alle Olimpiadi le carte vincenti sono di chi arriva con la forma fisica migliore e di chi riesce a fare bene nei singoli punti.

Come si è guadagnata il soprannome di “gazzella”?​

Me l’hanno dato in occasione del Mondiale di 5 anni fa i telecronisti Maurizio Colantoni e Andrea Lucchetta, gli stessi che hanno coniato l’hashtag “le ragazze terribili”. A parte il libero e il palleggiatore, le mie compagne sono tutte più alte di me, però riesco a stare lo stesso su quei livelli perché salto veramente tanto. Per fortuna dopo l’infortunio sono riuscita a recuperarlo tutto quel salto, che era la mia prima preoccupazione. Sono più bassa rispetto ai giovani che stanno venendo su adesso, fino a 5-6 anni fa i giocatori erano alti come me, sull'1,85, ma oggi se non sei almeno sopra 1,90 o salti tanto o cambi sport.

Ha un rituale per prepararsi a una gara?

No, sono abbastanza “tedesca” in questo, generalmente sono serena, mi basta ascoltare la mia musica, anche le canzoni tedesche da baita, per caricarmi [ride].

Fino a 5-6 anni fa i giocatori erano alti come me, sull'1,85, ma oggi se non sei almeno sopra 1,90 o salti tanto o cambi sport

Il suo idolo?

Devo dire che non ne ho uno. Pensi che quando arrivai a giocare in serie A il primo anno mi chiamarono in nazionale seniores a fare il primo collegiale e non sapevo nemmeno come si chiamassero le altre giocatrici che erano in squadra da dieci anni. Ero fatta così, vivevo nel mio mondo. 

E come iniziò a giocare a pallavolo?

Cominciai in terza elementare, facevo un sacco di sport allora, fra cui badminton e ping pong, ero iperattiva perciò qualsiasi sport mi piacesse i miei me lo facevano fare purché mi sfogassi altrove. Poi la scuola è diventata sempre più impegnativa e ho deciso di continuare solo con la pallavolo, ma senza convinzione, la praticavo giusto per fare dello sport. 

Quand’è cambiato tutto?

Un mio allenatore di Bolzano, Paolo Pallabazzer, mi mise in testa che appartenevo alla serie A, “salti più di tutti quelli che giocano per lo scudetto”, mi diceva. Avevo 16 anni. Mi fece capire che se ci avessi messo la testa avrei potuto raggiungere alti traguardi e così ci ho provato, gli devo molto. Allora giocavo a Caldaro, in serie C, Paolo mi ha portato in prima squadra. Da quel momento in poi è scattato qualcosa in me. È stato tutto veloce, sono andata a giocare in B2 a Bolzano l’anno dopo, successivamente a Trento per due anni e poi in serie A. Ho cominciato la mia carriera più tardi rispetto a tante mie compagne che già giocavano nelle giovanili, io me ne stavo tranquilla fra i monti finché a un certo punto non mi sono detta “vabbè, è ora di darsi una svegliata”.

Dovevo cantare l’inno d’Italia, e all’inizio per me che sono di madrelingua tedesca è stato un problema. Ero in nazionale juniores, stavo ancora frequentando la scuola, e non è che in quella tedesca te lo insegnano, l'inno.

E una volta lasciati quei monti com’è andata?

Io sono di madrelingua tedesca, a casa si parla tedesco, anche se ormai mi dimentico i termini e quando torno in famiglia è un disastro, mio padre mi incita a parlare la lingua, ci tiene. L’italiano l’ho imparato come i ragazzi di madrelingua italiana apprendono l’inglese a scuola, due ore alla settimana. Quando ho cominciato a giocare nelle squadre di pallavolo l’ho imparato per forza anche perché una volta trasferita a Trento non c’era più nessuno che mi parlasse in tedesco. Poi ho dovuto cantare l’inno d’Italia, e all’inizio quello è stato un problema. Ero in nazionale juniores, stavo ancora frequentando la scuola, e non è che in quella tedesca te lo insegnano, l'inno.

Lei che di muri se ne intende, secondo la sua esperienza sono ancora troppo alti quelli etnici in Alto Adige?

Penso che i tedeschi che non vogliono parlare italiano sbagliano, dall’altra parte mi stupisco quando gli italiani si rivolgono ai tedeschi dicendo la tipica frase “dovete parlare italiano perché siete in Italia” non conoscendo determinati vissuti storici. Ecco, questa ignoranza da una parte e dall’altra ancora oggi mi lascia di stucco. Per fortuna con le generazioni più giovani il discorso cambia. 

 

 

Cosa significa per lei rappresentare l’Italia con la pallavolo?

È il sogno di tutti gli sportivi poter giocare con la maglia azzurra, sono emozioni che non riesci a vivere in un club, e appuntamenti come gli Europei e le Olimpiadi sono il non plus ultra in questo senso. È un sentimento doppio, diviso tra il senso di responsabilità e la gioia mista a orgoglio di poter rappresentare il proprio Paese.

A proposito di responsabilità la nazionale multietnica della pallavolo è considerata ormai un simbolo e ha conquistato tutti, dal presidente Mattarella che ricevendo le azzurre dopo il Mondiale 2018 disse: “Vorrei che l’Italia fosse come voi”, ai tifosi che si incollano alla tv quando gioca l'Italia. 

Figurarsi che dicono anche di me che sono straniera. Ci sono pochi cognomi italiani ormai, in squadra, in tutto il mondo è così ed è una cosa normale. Farci diventare un simbolo aiuta in un momento storico come questo, nel nostro Paese. Detto questo l’amore dei tifosi va alimentato continuamente. L’argento ai Mondiali del 2018 ha dato molto al movimento, da quel momento si è parlato di pallavolo femminile notevolmente di più. Nessuno si aspettava tanto da ragazze così giovani eppure sono riuscite a emozionare il pubblico e a trascinarlo con loro sul podio. Dobbiamo dare alla gente nuove soddisfazioni perché questo innamoramento duri. 

Ci sono pochi cognomi italiani ormai in squadra, in tutto il mondo è così ed è una cosa normale. Farci diventare un simbolo aiuta in un momento storico come questo, nel nostro Paese

Anche perché le donne continuano a essere escluse dallo sport professionistico. Quanto pesa questo buco normativo?

Molto. Noi pallavoliste siamo anche fortunate rispetto, per esempio, alle calciatrici, perché il volley ha un seguito maggiore e più tesserati in tutta Italia. Guadagniamo bene, certo non come i calciatori della serie A, ma a 35 anni, quando smettiamo di giocare, non abbiamo garanzie previdenziali né contrattuali, dobbiamo semplicemente ricominciare da capo.

E lei ce l’ha già un piano B?

Mi sarebbe sempre piaciuto fare la maestra d’asilo, ma ad essere sinceri non so ancora cosa farò, dovrò inventarmi qualcosa. Al momento non so nemmeno dove andrò a vivere, è una vita da vagabonda quella della pallavolista in Italia.