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Cannabis e Covid, “investire in ricerca”

Secondo i primi studi, la cannabis terapeutica avrebbe proprietà antinfiammatorie e immunomodulanti nelle cure per il Covid-19. Pittini e Turco: “Ancora troppi ostacoli”.
medizinisches Cannabis
Foto: upi

Possiamo considerare la cannabis terapeutica potenzialmente utile anche nel trattamento di pazienti Covid-19? A giudicare da alcuni studi preliminari, la risposta sarebbe affermativa. Lo sostengono Roberto Pittini, medico anestesista all'ospedale di Merano ed esperto nella terapia del dolore, coordinatore del comitato scientifico dell'associazione di pazienti Cannabis Social Club di Bolzano, e il farmacologo Fabio Turco, ricercatore di Napoli e caporedattore di Cannabiscienza, portale nazionale di formazione e informazione sulla cannabis terapeutica. Turco sarà ospite di una tavola rotonda online del Cannabis Social Club il prossimo 23 marzo alle ore 19 (qui la pagina dell'evento).

Al momento ci sono ricerche già partite e risultati da pubblicare” spiega Roberto Pittini: “Gli studi in corso hanno punti promettenti. Certo, rispetto ad altre soluzioni come la vaccinazione o gli anticorpi monoclonali, l'argomento cannabis è ovviamente passato in secondo piano. La ricerca si è concentrata su la soluzione, ma una cosa non esclude l'altra. Dobbiamo mettere insieme più ricerche”. Gli fa eco Turco, il quale sottolinea come con il Covid-19 non esista un singolo farmaco efficace, “ma ci sono delle terapie che danno dei risultati positivi. Per questa ragione in particolare il CBD – cannabidiolo, la componente non psicotropa della cannabis – potrebbe essere un aiutante, un coadiuvante di una terapia per forza di cose polifarmaco. La cannabis andrebbe a inserirsi molto bene. Ciò premesso, anche se i primi risultati sono positivi, non si possono ancora trarre conclusioni per il consiglio della cannabis o dei suoi derivati in terapia”.

 

La questione del sistema immunitario

 

Secondo gli esperti, i benefici della cannabis sarebbero soprattutto di natura antinfiammatoria, nell'immunomodulazione, nonché sugli aspetti psicologici “post-traumatici”, quest'ultimi meglio documentati. “Il Covid è una cosa nuova: anche per questioni economiche la ricerca tende a concentrarsi su aspetti più semplici, su singole molecole e non su un fitocomplesso quale è quello della pianta di canapa” rimarca il medico anestesista di Merano.

Attualmente gli studi sull'utilizzo della cannabis per i pazienti Covid sono ancora in una fase preliminare. “Quanto c'è a livello di ricerca scientifica viene soprattutto da dati pre-clinici e studi su animali” spiega il caporedattore di Cannabiscienza: “Già prima della pandemia, si era visto come la cannabis e principalmente i cannabinoidi avessero notevoli effetti antinfiammatori, e questa è la base di partenza per l'utilizzo della cannabis sui pazienti con Covid-19. Per quanto riguarda ricerche specifiche sull'uomo, vi sono cinque o sei trial clinici, la maggior parte ancora in corso, che hanno indagato l'effetto soprattutto del CBD”. Concetto ribadito da Pittini, secondo il quale l'azione antinfiammatoria della cannabis sembra promettente “sulla base di determinati effetti che sono ascrivibili a uno o più dei principi attivi contenuti nella pianta, effetti diversi dai cortisonici, ovvero dagli antinfiammatori non steroidei”.

 

Dal punto di vista psicologico può rappresentare un aiuto a non vedere tutto nero, per riuscire a positivizzare, cosa dimostrata da molti studi – Roberto Pittini

 

Un aspetto interessante, ma a giudizio di Pittini più complesso da ricercare rispetto a quello antinfiammatorio, è l'immunomodulazione. Entrando nel dettaglio, secondo Turco “la ricerca di nuovi trattamenti punta sul trattare le forme più severe di Covid-19, con disfunzioni respiratorie e nei casi più gravi ospedalizzazione. La cannabis potrebbe aiutare ad attenuare il sistema immunitario. Le sindromi, da moderate a gravi, sono prodotte proprio da un'iper-attivazione della risposta immunitaria conseguente alla reazione infiammatoria al virus. Diminuire, rallentare, calmare il sistema immunitario è una strategia consigliata e su questo punto la cannabis potrebbe avere delle ottime potenzialità di applicazione”.

 

Il trattamento post-Covid

 

La malattia, soprattutto per chi ha avuto una degenza, crea degli stress enormi nelle fasi successive: è immaginabile un'applicazione post-Covid della cannabis terapeutica? “In questo caso – risponde Pittini – i dati sono molto più disponibili perché è già utilizzato in certi trattamenti, ad esempio per disturbi post-traumatici. Si parla di eventi stressanti quali possono essere un ricovero in terapia intensiva – per quanto riguarda il Covid – o esperienze di guerra. C'è una certa rigidezza nell'utilizzarlo, ma si parla comunque di una discreta efficacia. D'altronde anche in pazienti malati cronici o gravi, per malattie neurodegenerative congenite o chemioterapie antitumorali, l'effetto psicotropo tende a diminuire il concentrarsi della persona sugli aspetti negativi della vita. Dal punto di vista psicologico può essere sicuramente un aiuto a non vedere tutto nero, per riuscire a positivizzare, cosa dimostrata da molti studi”.

A tal proposito Turco fa però una precisazione: “Per il post-Covid, dipende dalla problematica del paziente. Se parliamo di pazienti in cui il sistema immunitario è stato in realtà molto depresso anche dalle terapie, cercando di spegnere l'infiammazione, in quel caso sarebbe sconsigliato proprio per il suo effetto di rallentamento del sistema immunitario. Se parliamo di altri tipi di problematiche, derivanti ad esempio dalla terapia intensiva, come rigidezza, spossatezza muscolare, andrebbe approfondita la ricerca”.

 

Il discorso della sfera socio-psicologica è complesso, chiosa Turco: “Certo, anche in questo caso la cannabis potrebbe essere d'aiuto”. Secondo Turco bisogna fare dei chiarimenti e delle precisazioni: “La cannabis, essendo un farmaco, non va usata senza indicazioni. Per chi non la utilizza già, può avere dei rischi soprattutto per pazienti con già problematiche psichiatriche. Può far venire a galla psicosi nascoste, soprattutto in giovane età, e quindi pure in questo periodo in cui le persone ricorrono molto all'automedicamento, una corretta informazione sia per vantaggi e svantaggi sarebbe opportuna e necessaria”.

 

Israele capofila, Italia ancora indietro

 

Gli studi citati sono effettuati principalmente in Israele e Canada, “i due paesi che più hanno puntato sulla ricerca, perché storicamente più aperti all'utilizzo terapeutico – e nel caso del Canada anche ricreazionale” sottolinea il ricercatore di Napoli. Al quale si unisce Pittini: “Israele è più avanti negli studi, la produzione e l'applicazione in campo medico della cannabis, in quanto ha isolato per primo il THC e poi ha scoperto il sistema endocannabinoide, negli anni novanta”. In un periodo come questo, nel mezzo di una pandemia con moltissimi pazienti da curare, le risorse sono insufficienti: “Ci sono studiosi che si occupano unicamente della ricerca, però la parte medico-clinica in questo momento aimé ha cose più importanti da fare. La ricerca si concentra su molecole specifiche, perché sono più semplici da studiare ottenendo risultati riproducibili, rispetto al fitocomplesso della cannabis la cui composizione è ogni volta diversa”.

 

Pittini prosegue nel ragionamento: “Ci sono un sacco di ostacoli nel percorso di utilizzo della cannabis in medicina, uno dei principali è il pregiudizio, oltre alla scarsità di informazioni specifiche e alla difficoltà effettiva a fare studi precisi e certi sui fitocomplessi”. Soprattutto in Italia, spiega Turco, “essendo una sostanza ancora inclusa nelle tabelle degli stupefacenti, fare ricerca risulta più complesso”. Secondo il ricercatore, per la cannabis terapeutica ci sono state delle timide aperture nel corso degli anni, “ma la situazione in Italia è sotto gli occhi di tutti e ognuno può trarre le sue conclusioni: c'è ancora molto da fare. La cannabis terapeutica è entrata nell'utilizzo, ma ci sono ancora problematiche, e differenze regione per regione; questa sorta di federalismo della cannabis non giova ai pazienti. Le giunte che non hanno legiferato privano di diritti i pazienti, ad esempio nell'approvigionamento”.

Il legislatore dovrebbe adeguarsi a un concetto diffuso in tutto il mondo: la cannabis è un farmaco – Fabio Turco

Anche per Roberto Pittini negli ultimi anni il pregiudizio si è gradualmente attenuato di fronte all'evidenza: “Se i pazienti mi dicono che stanno meglio con la cannabis, piuttosto che con la morfina – uno dei più potenti e antichi trattamenti, insostituibile con alcuni tipi di dolore, ma che però creare anche problemi accessori... beh, bisogna ascoltare un po' di più i pazienti”. “Ma – conclude Fabio Turco – il vero problema, in realtà generale per l'Italia, è investire nella ricerca. Solo così si può puntare all'innovazione, essere trainanti anziché arrivare dopo: le conoscenze, i gruppi di ricerca e pure le aziende focalizzate ci sono, ma ci vorrebbe un aiuto del legislatore per facilitare questi processi e adeguarli a un concetto diffuso in tutto il mondo: la cannabis è un farmaco”.