Chronik | Violenza giovanile

Da Capo Verde all’Alto Adige

Dalla laurea specialistica in pedagogia interculturale a Verona al dottorato in Pedagogia alla Facoltà di Scienze della Formazione a Bressanone, passando per Capo Verde.
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Foto: ©unibz

 di Arturo Zilli

 

 

È il tragitto peculiare di studio e di vita di Stefania Bortolotti che, prima di vincere le selezioni per il dottorato in unibz, ha lavorato per oltre 10 anni nei centri socio-educativi della città di Praia, a sud dell’isola di Santiago.
Inizialmente con la Fundação Esperança, nell’ambito della pedagogia di comunità e della prevenzione alla violenza giovanile; in seguito, la dottoranda ha insegnato nel corso di Servizio Sociale all’Universidade de Santiago – ISCJS. Recentemente, Bortolotti è stata invitata dal consolato di Capo Verde, a Verona, a coordinare l’evento di presentazione di un libro epistolare sulla vita di Amilcar Cabral, il leader della lotta di liberazione, nel giorno del 43° anniversario dell’indipendenza del Paese africano. A lei abbiamo rivolto alcune domande sul lavoro di ricerca svolto per la tesi di dottorato e sulla sua esperienza di lavoro sociale a Capo Verde.

Su quale tematica si concentra la Sua ricerca?
Sulla criminalità organizzata giovanile nel contesto urbano. Il mio arrivo a Capo Verde è coinciso con un allarme per l’aumento della violenza giovanile. Si tratta di una tematica che, negli ultimi anni, è stata studiata secondo una prospettiva sociologica e antropologica da diversi autori locali e portoghesi. Questi hanno cercato di comprendere dove e perché nasce il fenomeno. Quello che finora mancava era uno studio ed una ricerca sulle pratiche di intervento. Non esistevano tentativi di organizzare e sistematizzare una teoria della prevenzione alla violenza giovanile in un’ottica sistemica che riguardasse gli aspetti politici, sociologici, culturali, psicologici e pedagogici. Io ho agito su questo versante.

Come è stato il Suo incontro con l’Africa?
Non è stato facile. Mi sono dovuta immergere in un mondo culturale e sociale molto diverso dal mio. Per farlo, ho dovuto dapprima cercare di comprendere, distanziarmi dalle idee e dai pregiudizi che avevo sull’Africa e sull’educazione, per imparare e dare dignità a un nuovo modo di vivere. Il passo successivo è stato capire in che modo la mia azione come educatrice potesse essere di aiuto e non diventare un’imposizione e, soprattutto, come guadagnare il rispetto delle comunità in cui lavoravo per poter costruire qualcosa insieme a loro.

Perché, da dottoranda, è ritornata a Capo Verde?
Volevo sviluppare una riflessione pedagogica più ampia. Questo per capire in che modo l’esperienza accumulata sul campo e la fiducia che mi ero conquistata nel settore sociale e accademico a Capo Verde potessero aiutare a trovare soluzioni pratiche al problema della violenza giovanile urbana.


In che modo il dottorato a Bressanone Le ha permesso di raggiungere questo obiettivo?
Mi ha certamente dato una mano a dare visibilità e internazionalizzare i contributi che erano nati in loco e che avevo contribuito a far crescere nel settore della prevenzione della violenza. Sono partita dall’analisi di un caso di studio - la comunità di Achada Grande Frente e l’associazione Pilorinhu - seguendo una prospettiva di empowerment personale e comunitario.

 

Quindi la Sua ricerca ha anche risvolti molto concreti.
La speranza è che la conoscenza e consapevolezza create nel contesto educativo capoverdiano (coinvolto nel processo di ricerca ed analisi) diventino un supporto per la creazione di nuove politiche sociali a favore dell’inclusione sociale a Praia. Durante i tre anni a Bressanone, ho avuto l’opportunità di ricercare e sperimentare il legame indissolubile tra teoria e pratica in pedagogia. A che cosa serve una teoria astratta ed inefficace che non sa ascoltare le pratiche educative? A che cosa serve una pratica che agisce per fare fronte immediato ai problemi senza lumi teorici? Dedicarmi alla ricerca di dottorato, potendo analizzare, dalla posizione di ricercatore, il mio agire pedagogico e riflettere nel gruppo di ricerca comunitario formato da giovani ed educatori comunitari della comunità di Achada Grande Frente, mi ha permesso, non senza difficoltà, di creare questo anello di congiuntura.

 


Per l’Europa una riflessione particolare, forse, va fatta in merito ai figli di immigrati di seconda e terza generazione.
Questi ragazzi vivono spesso una doppia crisi: non si riconoscono nella cultura d’origine di cui i genitori sono portatori e parallelamente rifiutano o sono rifiutati dalla cultura ospitante, da cui si sentono distanti, nonostante di fatto siano nati qui. Per Capo Verde questo discorso non è valido essendo la cultura creola una creazione originale, nata dalla fusione forzata di schiavi provenienti dall’Africa occidentale e dai coloni portoghesi, che dal ’500 avevano trasformato l’arcipelago in un enorme mercato degli schiavi, smistati e preparati per l’attraversata atlantica verso le piantagioni americane. L’eredita coloniale però gioca un importante ruolo nella perpetuazione di una violenza strutturale istituzionale e politica ed una cultura autoritaria delle varie agenzie di socializzazione ed educazione.

Quanto è forte l'attività di prevenzione sull’isola?
Dopo la nascita del fenomeno mediatico, negli anni attorno al 2010, la lotta contro la violenza giovanile è stata molto dibattuta nell’arcipelago atlantico e le azioni intraprese a livello politico sono state esigue e prevalentemente repressive. Negli ultimi dieci anni il numero delle detenzioni è aumentato del 100% soprattutto in riferimento alla popolazione giovanile maschile, tra i 12 e i 30 anni. Nello stesso periodo, la polizia nazionale ha istituto il dipartimento BAC (Brigadas anti-Crime) ossia un settore specializzato per la lotta al crimine con riferimento alle comunità periferiche e ai gruppi giovanili organizzati. La reazione del governo capoverdiano è stata prevalentemente quella di una politica voltata alla difesa e alla penalizzazione in nome della sicurezza, fomentando la criminalizzazione della popolazione giovanile, dei quartieri periferici e della povertà. Esistono svariati tentativi da parte della comunità locale e della società civile capoverdiana di attivarsi per prevenire la violenza e lottare contro l’ingiustizia sociale. Purtroppo questi, nel corso degli ultimi dieci anni, sono stati poco incoraggiati. Non si è investito nelle risorse umane e nella sostenibilità degli interventi che, perlopiù, funzionano su base volontaristica.
 

La violenza giovanile di Capo Verde è diversa da quella europea?
È un problema mondiale. Secondo l’Organizzazione internazionale della salute siamo davanti ad un fenomeno globale, in aumento. Possiamo trovare sia similitudini che differenze tra Europa e Africa ma, a mio avviso, a causare l’insorgere e l’aumento della violenza esercitata dalla popolazione giovanile maschile è la violenza strutturale trasportata da dinamiche globali: la liberalizzazione del mercato, il consumismo, la forte disparità sociale ed economica, la povertà che crea esclusione, l’urbanizzazione e la migrazione massiccia dovuta ai cambiamenti climatici, l’individualismo. Gli stati più fragili, in questo panorama mondiale, non sono ovviamente in grado di rispondere con un welfare inclusivo.

Quanto incide la diversa composizione demografica della popolazione, più giovane in Africa rispetto all’Europa?
L’Africa è un continente giovane, l’Europa ha una crescita demografica molto bassa. A Capo Verde l’età media della popolazione è di 27 anni mentre in l’Italia è di 45. Per questo motivo, i giovani di Capo Verde stanno esercitando una forte pressione sulle strutture sociali ed economiche dello Stato che però non sempre riesce a dare una risposta, a causa delle scarse risorse finanziarie e dell’inefficienza delle sue azioni. In Europa il problema è contrario: le nascite calano costantemente e il welfare sostiene una popolazione sempre più anziana. La solitudine, l’individualismo e la vita frenetica portano ad un isolamento ed un’alienazione del soggetto dalla comunità e dalla vita sociale. Per questo, da un punto di vista psicologico, in Europa la riflessione sulla violenza si concentra soprattutto sulla questione della perdita dell’autorevolezza del mondo adulto, la perdita di contatto con le regole ed i limiti da parte di adolescenti e bambini e la vita parallela sulle reti sociali. Per quanto riguarda la questione del banditismo giovanile, può cambiare il nome ma le caratteristiche principali rimangono le stesse nelle due realtà: la struttura gerarchica, il senso dell’onore e della mascolinità egemone, il tema dell’identità culturale e l’appartenenza territoriale. In Europa, come a Capo Verde, i giovani diventano il capo espiatorio della crisi valoriale della società moderna, disegnati dai media come “maleducati”, “senza futuro” o “criminali violenti” spetta a loro crearsi degli spazi e protagonismo per transitare al mondo adulto, uscendo dall’etichettamento mediatico che li colpisce.
 

 

La Sua ricerca è conosciuta a Capo Verde?
Sono riconosciuta soprattutto nel settore sociale per aver lavorato come coordinatrice pedagogica nella Fundação Esperança, guidata dal primo presidente della Repubblica di Capo Verde, Antonio Mascarenhas Monteiro. La ricerca è conosciuta perché è stata una ricerca partecipata, con il coinvolgimento della comunità di Achada Grande Frente.
 

Cosa farà, una volta ottenuto il dottorato?
Il mio desiderio è tradurre la tesi in portoghese e preparare, insieme all’equipe di ricerca, un vademecum per presentare i risultati ai ministeri e agli organi di competenza capoverdiani. Il mio percorso e la mia responsabilità scientifica ed umana verso Capo Verde non finiscono qui. Spero di continuare ad avere l’opportunità di dare un contributo a quella terra.