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Gesellschaft | Avvenne domani

Un mercante, un botanico e un cinese

Storie vecchie e nuove dei pericoli vicini e lontani.

C’erano un commerciante genovese, un botanico francese e un contadino cinese. No, non è una barzelletta e non fa per niente ridere. Sono le storie che ci possiamo raccontare in questi giorni di sospensione dell’esistenza, mentre dal balcone di casa osserviamo un panorama eguale a quello di una settimana fa ma profondamente diverso per quel senso di paura e di incertezza che circola nell’aria e nell’anima.

E allora tanto vale tornare indietro nel tempo per scoprire che tutto, in un modo o nell’altro è già successo. Il mercante genovese che, nel 1348, tornava a casa dopo la lunga navigazione da un porto del Mar Nero sbarcava assieme alle merci i parassiti portatori di un bacillo, Yersinia Pestis, che avrebbe viaggiato alla stessa velocità delle carovane di altri mercanti o dei cavalli dei messaggeri postali e che avrebbe sterminato una parte consistente della popolazione europea nel giro di pochi mesi.

Il botanico francese che, attorno al 1860, portò con sé per ragioni di studio, dall’America, alcune piante di vite non sapeva che il tempo di navigazione ormai breve permetteva la sopravvivenza, tra le radici, di un minuscolo parassita, Phylloxera Vastatrix, dal quale le piante americane in qualche modo si sapevano difendere, ma che rischiò di sterminare nel giro di qualche anno tutte le viti europee, riducendo in ginocchio una delle produzioni più pregiate del vecchio continente. Ci vollero anni di esperimenti falliti prima di capire che la soluzione poteva venire proprio da quel che aveva creato il problema. Allora la stragrande maggioranza delle viti coltivate in Europa furono innestate sul piede di una vite americana, ma l’importazione massiccia creò un nuovo problema, quello della peronospora, contro la quale fu a  fatica trovato un altro rimedio. La cosiddetta “poltiglia bordolese” dipinse di un azzurro acceso i vigneti di mezza Europa.

La terza storia, quella del contadino cinese, ha un possibile inizio, nel tardo autunno scorso, in un mercato contadino. Il seguito lo stiamo vivendo sulla nostra pelle giorno per giorno e la conclusione ci è ancora ignota, nei tempi e nei modi in cui avverrà, anche se tutti cerchiamo reciprocamente di rassicurarci dicendo che tutto andrà bene.

È sempre successo, dunque. Anche in tempi in cui in teoria gli uomini vivevano ben separati gli uni dagli altri e i viaggi erano un’avventura di anni, se non di decenni, le malattie, quelle che colpiscono l’uomo come quelle degli animali e delle piante si sono sempre mosse, superando i deserti e i mari.

Solo che adesso, come ci insegna la storia che stiamo vivendo, tutto è diventato molto più veloce e imprevedibile. Adesso il mondo è una sorta di flipper nel quale miliardi di palline, che siamo noi o le merci che utilizziamo tutti i giorni per sopravvivenza e per diletto, si muovono vorticosamente.

Adesso che la brutta storia del virus ci ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che per garantirci salute e sicurezza non bastava sbarrare porte e frontiere a qualche centinaio di immigrati, c’è chi sogna un impossibile ritorno ad un passato di autarchia, di frontiere sbarrate, di ronde notturne della salute. Un passato che, come la storia del mercante genovese e quella del botanico francese ci dimostrano ampiamente, non è mai esistito.

Alla maggior facilità possibile di spostare cose e persone abbiamo affidato buona parte del sistema economico e sociale in cui viviamo. Basti pensare, qui da noi in Alto Adige, a come è stato coltivato strenuamente il mito della cosiddetta “raggiungibilità”, presupposto essenziale per lo sviluppo di tutte o quasi tutte le attività che sorreggono l’economia locale, prima tra tutte quella del turismo che, nel giro di mezzo secolo, ha trainato la nostra terra fuori dal sottosviluppo e l’ha proiettata nell’olimpo del benessere.

Quindi salire sulla macchina del tempo sarebbe esercizio del tutto futile. Meglio guardare avanti e cominciare a immaginare come usciremo da questa brutta storia, avendo ben chiaro, innanzitutto, che nulla sarà più come prima. Ci saremo scrollati di dosso, fatalmente, quel senso di sicurezza un po’ arrogante che per esempio ostentavano, parlando mezza voce naturalmente, i santoni del nostro turismo quando facevano i conti di quanti nuovi ospiti avesse procurato l’insicurezza a causa del terrorismo che aveva bloccato regioni lontane. Ancora qualche giorno fa si pretendeva che il presidente Kompatscher marciasse su Berlino per smentire le infamanti accuse sull’immacolato sistema altoatesino. Due giorni dopo, non senza qualche resistenza periferica, abbiamo abbassato le serrande.

Sarebbe bene imparare la lezione anche per presentarci più preparati la prossima volta che tutto questo succederà (perché succederà prima o poi), magari, anche in questo caso, imparando dal passato e attingendo direttamente dalla nostra tradizione e dai nostri valori.

Il riferimento è presto trovato. Nel 1864, a Brunico, fu fondato il primo corpo dei Vigili del fuoco volontari. Era una scelta necessaria per combattere un flagello terribile: quello degli incendi che distruggevano interi centri abitati provocando lutti gravissimi e danni devastanti. Si costruirono caserme, si acquistarono autopompe e macchinari che, tutti speravano, sarebbero rimasti inutilizzati il più possibile. Al momento opportuno, però, dovevano esserci, così come le persone in grado di utilizzarli.

Il virus è il nostro fuoco di oggi.

Dovremo valutare attentamente la necessità di predisporre per tempo le difese da far scattare in caso di emergenza, i meccanismi di allerta, le strutture che devono monitorare la situazione in modo da cogliere i primi segnali di un possibile divampare di queste fiamme che non si vedono, ma che non sono meno letali di quelle che mandavano in cenere, nei secoli passati, i masi altoatesini. Solo che, per quel discorso sul flipper impazzito che abbiamo fatto poco sopra, non basta predisporre le difese a casa nostra.

Occorre che il sistema sia allestito e funzionante in tutto il mondo, perché ormai tutto il mondo è divenuto un’unica comunità saldamente interconnessa. Non dovrebbe essere più possibile che esistano paesi dove il sistema sanitario, ivi compreso quello dell’assistenza sociale, sia ancora a livelli talmente primitivi da impedire una rapida ricognizione dei pericoli che dovessero sorgere oppure, in omaggio al cosiddetto liberismo, sia un privilegio di chi possiede una carta di credito. Perché quello è il brodo di cultura ideale per la propagazione delle malattie che possono colpire anche noi.

I nostalgici delle porte chiuse se ne facciano una ragione. Il motto “aiutiamoli a casa loro” non è buonismo, è egoismo illuminato e intelligente.