Kultur | Salto Weekend

Dimentica di respirare

Salto Preview: La scrittrice bolzanina Kareen De Martin Pinter presenta lunedì 14 maggio alle ore 19.00 alla Ubik di Bolzano il suo nuovo romanzo.
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Foto: Cover Tunué editore

Il corpo si alleggeriva, si frammentava, sembrava volatilizzarsi pezzo dopo pezzo. Prima i piedi, poi le gambe, nelle orecchie il rumore di migliaia di minuscole bolle che scivolavano via. Iniziavo a sentire l’aria pesarmi addosso, mi soffiava in faccia crepandomi le labbra, infilandosi in bocca e asciugando le mucose delle guance, la gola. Masticavo sale. Strinsi il volante e lottai col respiro, anche se sapevo che il primo errore da evitare era proprio quello di lottare. Contare i secondi che passano, farli rimbombare nei polmoni contriti, trasformarli in mulinelli d’aria che poi s’infilano tra le costole e sbattono contro la carne, pungono, mordono. In certi tratti quella striscia d’asfalto scavata nella roccia umida sembrava in bilico sul mare, sostenuta dal vuoto. Qualcosa attirò la mia attenzione, sugli scogli, una luce, forse il riflesso di qualcuno che si tuffava; setacciai veloce con lo sguardo ma non vidi niente. Svuotai i polmoni con espiri sempre più lunghi, profondi, finché sentii che non avevo più bisogno d’inspirare. Allora presi a fare espiri sempre più rapidi, fino a strizzare la cassa toracica. E smisi di respirare. Faceva caldo e la fronte mi s’imperlò di sudore. I frammenti del mio corpo tornarono a me. Rallentai. Arrivato al supermercato, parcheggiai e scesi, coi polmoni ancora immobili. Solo dentro, quando il freddo mi fece tossire fuori l’ultimo gorgoglio di aria, ripresi a respirare.

 

Se Maurizio fosse venuto a sapere che ero in mezzo all’aria condizionata, non so cosa mi avrebbe fatto. Presi poche cose e mi misi in fila, tenendo tutto in mano. Sussultai per un brivido di freddo. Quando sei a questo livello, la tua riuscita ha a che fare con tutto, con il cibo, le ore di sonno, le abitudini igieniche, il caldo, il freddo, la tempra, gli anticorpi, i pensieri, i crampi, un sogno, un ritornello spuntato in mente, all’improvviso, un ricordo. Sapevo che ogni movimento del pensiero era suscettibile di imprimere un’ombra sul mio respiro, e quella volta le immagini esplosero nella mia mente al punto che persi l’equilibrio. Urtai il carrello della persona in fila dietro di me, balbettai delle scuse, allungai una mano per tenermi a qualcosa, ma non c’era niente a cui tenersi. Ero altrove, dentro a un passato che si ricuciva al presente, potevo sentire l’ago del tempo bucarmi la pelle. Da dove usciva quel ricordo? Ero aggrappato a una tovaglia che franava, mi sentii cadere finché tutto il mondo non mi si spense addosso e quando riemersi mi ritrovai dentro alla cucina di quando ero bambino, avrò avuto dieci anni. C’era anche Giovanni, mio fratello, che aveva un anno più di me. Una delle solite cene, la zuppiera in centro tavola, del pane, il salame, l’aria salata che entrava dalla finestra aperta. Nostra madre. Mio padre non l’ho mai conosciuto, sparito quando galleggiavo dentro la pancia di mia madre. Avevo Giovanni, copiavo lui. Da piccoli ci sfidavamo a colpi di record di apnea. In paese non c’era molto da fare e si finiva in mare ogni giorno. Avevo promesso a Giovanni che prima o poi avrei superato il record di Piero. Dovevo solo allenarmi. Piero era il più forte, tornava su lunghi secondi dopo gli altri, tra schizzi e applausi e ululati mossi dalle onde. Si andava anche al largo, per mettere in scena delle vere e proprie gare. A Giovanni non interessava più di tanto e lo dava a vedere. Era bravo senza sforzo. Io invece facevo fatica, ce la dovevo mettere tutta per star dietro a quei due. Quella volta, a tavola, volevo impressionarlo, mi ero fissato di restare due minuti senza respirare. E così smisi di respirare appendendo tutto il mio orgoglio alle lancette dell’orologio. Ogni secondo che passava, sentivo il cuore battere come un tamburo al rallentatore, il suono del rimbombo si dilatava nelle orecchie, pulsava dall’interno come qualcuno che batte per uscire da chissà dove. Un minuto era passato senza troppo accorgermene, tante volte avevo smesso di respirare un minuto. Dopo quei sessanta secondi, però, il mondo aveva iniziato a farsi via via più lontano. Avevo un bicchiere di acqua in mano, non avrei saputo dire perché, me l’ero semplicemente dimenticato lì. Lo lasciai cadere sul tavolo in malo modo. Mia madre mi guardò infastidita. Poi però il fastidio divenne spavento, mi venne accanto, mi scosse, cercò di parlarmi, doveva aver visto i polmoni fermi, l’addome piatto, mi chiese cos’avessi, se era lo stomaco, mi sollevò a qualche centimetro da terra per potermi scuotere meglio. Un fuscello di otto anni, muto e senz’aria. Ventuno, venti... Mio fratello era scattato in piedi, la sedia gli si era rovesciata all’indietro, cercò di scuotermi anche lui, in bilico tra il sospetto che fosse una scommessa o un malore. Delle parole sgraziate mi riportarono lì, al supermercato. Una donna, sulla sessantina arrivò e spinse il carrello davanti a un ragazzo. Disse che c’era prima lei, che stava solo guardando una cosa. Lui le rispose male. Il tono montava. Lei spinse un angolo del carrello nell’anca dell’altro. Sentii sfumare il mio ricordo. Fossi stato io a dover decidere, non avrei avuto dubbi. La donna era arrivata dopo. Quello dietro avrebbe avuto ragione a passarle davanti. In una gara di apnea c’è un giudice, vari profondimetri, regole chiare. Che sanno cosa devi fare, come lo devi fare, cosa è consentito e cosa no. Il ragazzo fece un passo indietro e mi sfiorò. Per qualche istante entrai in contatto con la sua pelle. I pesci, pensai, anche quando nuotano in branco compatto, non si toccano mai. Hanno un organo sensoriale che li tiene alla giusta distanza gli uni dagli altri. Mi guardai la mano, cercai la traccia dell’umido, mi sentivo bagnato. Mi tastai i pantaloni, ma era tutto asciutto. Quando la calma si installò di nuovo nell’attesa, il passato mi riacciuffò. L’onda sbiadita mi avvolse, la fila si appannò e rieccomi, bambino, intorno al tavolo, a cena, la luce grigia e fioca della televisione accesa. Non respiravo. Diciotto, diciassette... Quattro mani che mi scuotevano, potevo sentirle ancora. Vedevo le loro bocche deformarsi, labbra rosse e mollicce sporgersi, arricciarsi, spalancarsi, tirarsi, rientrare, inumidirsi, richiudersi, incresparsi. Ma i rumori erano confusi. Quasi di un altro mondo. Una sequenza alfabetica ululata al rallentatore. L’acqua schizzata dal bicchiere mi aveva bagnato i pantaloni. Fissavo le lancette dell’orologio di fronte al tavolo. Ancora qualche secondo, masticai a fatica nella mente. Più mia madre mi batteva sulla schiena, più mi sentivo in balia delle onde. Tredici, dodici... Guardai mio fratello, era l’unico che potesse capirmi. Otto, sette... Le lancette c’erano quasi, che si spicciassero, non ce la facevo più. Cinque, quattro...

 

Quante volte avrei sgranato il tempo sotto al mare? Tre, due, uno... Due minuti! Mi parve di sentire lo scricchiolare polveroso della lancetta dei minuti quando si mosse. Aprii la bocca, respirai, mangiai l’aria, poi espirai con un soffio lungo, tossii ed esplosi: «Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! Due minuti!». Mio fratello mi regalò un sorriso luminoso, era fiero di me, anche se ancora un po’ spaventato, tanto da arruffarmi i capelli con una manata dosata male. E fu allora che, in mezzo a una tosse che mi spezzava le costole, nostra madre, le labbra serrate fino a diventare violacee, mi mollò uno schiaffo così forte che mi ritrovai a gambe all’aria come la sedia di mio fratello. Sentii la sua voce dire, profonda, gutturale, come provenisse dagli abissi: «Non farmi mai più una cosa del genere!». Ero felice come quando si compie un’impresa storica. Tossii, il ragazzo davanti a me stava finendo di mettere via i suoi prodotti nella borsa e la cassiera mi guardò storto. Dovevo sembrare imbambolato. Presentai in fretta le mie cose, dandomi qualche colpetto sul petto. La tosse si placò, ma mentre pagavo sentii il bruciore della mano di mia madre che mi si propagava sulla guancia. Uscii. Il parcheggio era una fornace, entrai in macchina e ripresi a guidare verso casa. Di tanto in tanto gettavo uno sguardo a quell’immensa massa blu che mi ruminava a fianco. L’ultimo allenamento non era andato bene come speravo e mi aveva lasciato una brutta sensazione, come se il mare avesse voluto dirmi qualcosa.