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“Belle di faccia”

Un libro, un’intervista: Mara Mibelli e Chiara Meloni spiegano come ribellarsi a un mondo grassofobico riappropriandosi senza paura della parola “grasso”.
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Foto: Mara Mibelli e Chiara Meloni

È il 2004 quando la Unilever inizia a promuovere il suo marchio per la cura personale Dove attraverso la campagna “Dove for Real Beauty”, uno slogan, quest’ultimo, che apre la strada alla body positivity mainstream. Prima che il marketing si appropriasse delle tematiche legate alla dignità e al rispetto dei corpi riducendo concetti radicali a semplici hashtag o slogan stampati sulle magliette, quella dei corpi non conformi allo standard era una questione cardine di lotte e movimenti politici. In una giornata dei primi di giugno del 1967, a Central Park (New York) si radunano 500 persone grasse che insieme mangiano, bruciano libri di diete e immagini di modelle: è il Fat In, il primo evento del movimento sociale-politico Fat Acceptance che si batte per includere le donne grasse all’interno dell’immaginario collettivo della donna emancipata. Altre date significative sono il 1969, anno della nascita della NAAFA (National Association to Advance Fat Acceptance) e il 1973 quando il Fat Underground prende forma dopo il tentativo fallito di portare il femminismo all’interno della NAAFA.
Come la body positivity debba essere un movimento politico che abbraccia diverse lotte mettendo in discussione un’intera società grassofobica, patriarcale e propensa a marginalizzare chiunque si allontani dal modello dominante, ce lo spiega “Belle di faccia”, il libro di Chiara Meloni e Mara Mibelli uscito quest’anno per Mondadori. Già dalle prime pagine di questo “manuale” di tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico – così come descritto nel sottotitolo – è possibile capire tre aspetti fondamentali: il primo riguarda l’atteggiamento patologizzante che spesso si ha nei confronti delle persone grasse, il secondo affronta le microaggressioni subite da chi abita un corpo non conforme, il terzo evidenzia come anche la magrezza sia un privilegio.


Quante volte si utilizza l’aggettivo “obeso” senza soffermarsi sul carico di stigma che porta con sé e sul fatto che è un termine medicalizzato? Quante volte si pensa che una persona grassa debba dimagrire per il suo bene, utilizzando quella “retorica sulla salute che sembra voler giustificare qualunque discriminazione e abuso considerandoli ‘a fin di bene’”? Quante volte capita di dire frasi come “Questo vestito mi fa sentire una balena?” o di criticare il nostro corpo davanti a una persona grassa? Quando capita, difficilmente riflettiamo sul fatto che il fat shaming è anche quello rivolto a noi stess*, perché è impossibile slegare il disprezzo verso il nostro grasso da quello verso chi è grass*. Quante volte si fa l’errore di considerare tutt* sulla stessa barca, quando invece ciò che è uguale è il contesto, capitalista e patriarcale, ma non la condizione dato che la nostra società preferisce la magrezza?
“Belle di faccia” mostra come i corpi sono politici, svela la falsità di un sistema che sbandiera una finta inclusività continuando a mettere al centro un solo corpo e cioè “quello rassicurante e non troppo fuori norma della donna bianca, etero, cis e magra o leggermente curvy” e costringe chi legge ad ammettere le proprie ipocrisie in fatto di accettazione del grasso.

salto.bz: Molto spesso si crede che peso e salute vadano a braccetto attuando una sorta di medicalizzazione del corpo non conforme agli standard. Come rispondere all’accusa di essere antiscientifiche/i nel momento in cui si obietta tale binomio?

Chiara Meloni e Mara Mibelli: C’è una cosa fondamentale da chiarire: la fat acceptance è un movimento sociale e politico che promuove l’idea che i corpi grassi siano validi e degni di rispetto e inclusione. Questo significa che lo stato di salute di una persona grassa non dovrebbe importare quando si discute di accesso a diritti fondamentali come l’accessibilità, la salute, il lavoro e la rappresentazione. Detto questo però, grazie alle lotte delle persone grasse si è aperta una breccia anche in ambito medico ovvero l’approccio Health at Every Size ovvero Salute Ad Ogni Taglia. Questo approccio non sostiene che tutte le persone grasse siano sane, anche perché non tutt* possono esserlo per ragioni che possono differire dal peso, ma che la salute dovrebbe essere alla portata di chiunque a prescindere dalla propria taglia. Mentre il fat medical bias non solo mette a rischio la salute delle persone grasse ma le allontana anche dal prendersene cura, deumanizzandole e negandogli la possibilità di ricevere delle diagnosi approfondite e delle cure adeguate.

Leggendo il vostro libro mi sono resa conto di aver spesso accettato la patologizzazione del corpo grasso. Da quando c’è il Covid, le persone grasse sono state ritenute individu* a rischio e l’obesità (uso apposta tale termine) è stata menzionata accanto alle patologie pregresse.
In questo periodo storico dove la salute è un dovere che non lascia spazio ad alcuna obiezione, le persone grasse rischiano un’ulteriore marginalizzazione o una maggiore protezione?

L’attuale emergenza sanitaria data dalla pandemia non ha fatto altro che esacerbare la grassofobia e la stigmatizzazione delle persone grasse, basti pensare a come nei primi mesi di lockdown le persone fossero più preoccupate di un eventuale aumento di peso che di contrarre il virus, come dimostrato dai numerosi meme grassofobici. Il fatto che le persone grasse siano state indicate come categoria a rischio, poi, ha dato adito a polemiche che niente hanno a che fare con la protezione di un gruppo marginalizzato, creando una dicotomia tra la colpevolizzazione delle persone grasse in quanto fragili e il malcontento per il fatto che potessero avere la priorità di accesso ai vaccini.

Il mio rapporto con il corpo è stato negativamente segnato dallo sguardo maschile, che ritengo spesso tossico. Secondo voi ha senso parlare di “sguardo maschile” quando la grassofobia, il maschilismo e il patriarcato sono caratteristiche endemiche di un’intera società?

Il corpo grasso è considerato un peccato da espiare, ma per una donna è una colpa ancora più grande. Viene considerata una perfomance di genere insufficiente perché a una donna viene richiesto di essere pura, modesta, fragile, delicata e queste caratteristiche divergono dall’idea che si ha di un corpo femminile grasso che è invece percepito come volgare, grottesco, la conseguenza dei peccati di gola. Le donne grasse non riescono neanche a beneficiare dell’inutile sessismo benevolo, quello che veniva chiamata una volta cavalleria: non ti cedono il passo nell’entrare in una stanza, non vieni aiutata a portare i pesi perché considerata “una donnona”, e ti vengono negate tutte quelle attenzioni che vengono invece concesse alle donne considerate attraenti allo sguardo maschile.

Nel libro nominate show come “Vite al limite” dove il grasso è “il problema da risolvere”. Il dr Nowzaradan (“Vite al limite”) è diventato un’icona pop tanto che online si trova il suo pupazzo. Quanto è rischiosa questa semplificazione e spettacolarizzazione della questione?

Come abbiamo spiegato nel libro parlando di rappresentazione, la tv verità è uno dei pochi generi che vede un’abbondanza di corpi grassi protagonisti. Il problema, però, è che non li rappresenta come individui ma come sintomi della stessa malattia, come casi umani da osservare e compatire e come monito per non lasciarsi andare. In questo senso show come “Vite al limite” seguono le orme dei freak show e tendono ad amplificare i pregiudizi preesistenti verso le persone grasse.

Attraverso i social vengono pubblicizzati senza sosta prodotti detox, sostituti dei pasti, integratori per la linea. Credete che sia possibile che a lungo andare il cibo venga totalmente privato della sua funzione di godimento? La diet culture ha già forse minato il piacere di mangiare?

In realtà, già prima della nascita della diet culture (che risale ai primi anni del 1990) ci aveva già pensato la religione a dare un valore morale al cibo e al suo consumo. La religione faceva corrispondere il controllo del cibo alla capacità di governare i propri istinti più bassi e animali. La diet culture più che aver minato il piacere del mangiare ha stabilito delle regole e delle gerarchie, trasformato il cibo in qualcosa che le persone devono meritarsi, trasformato lo sport da un’abitudine salutare necessaria per prendersi cura di sé, in una punizione necessaria quando si considera di aver esagerato.

 

Qual è la prima cosa che una persona magra, dopo aver fatto autocritica rispetto a eventuali microaggressioni rivolte a persone con un fisico diverso dal suo e dopo aver preso coscienza del proprio thin privilege, dovrebbe fare per diventare alleata del movimento fat acceptance?

Innanzitutto ascoltare, è molto facile pensare di non essere grassofobic* solo perché non si è mai insultato nessuno, ma la grassofobia è molto più insidiosa ed è necessario ascoltare le esperienze delle persone grasse e informarsi sulle origini dello stigma per iniziare a decostruire ciò che si è sempre pensato dei corpi grassi.

Perché in Italia la fat acceptance fatica a emergere come realtà politica?

Di solito non siamo ottimiste, ma nei pochi anni in cui abbiamo iniziato a parlare di questi temi siamo riuscite ad aprire una conversazione in Italia su grassofobia e stigma, abbiamo visto utilizzare per la prima volta sui media mainstream parole come fat acceptance e grassofobia e anche dal punto di vista editoriale sono stati pubblicati e tradotti alcuni testi che trattano l’argomento. Uno degli ultimi titoli è “Grass*, strategie e pensieri per corpi liberi dalla grassofobia, della fat queer activist” Elisa Manici.

L’atteggiamento rivolto alle persone grasse oscilla tra un’iper responsabilizzazione – se vuoi dimagrire, basta che ti metti a dieta – e una totale deresponsabilizzazione che non concepisce che si possa accettare e apprezzare un corpo non conforme agli standard. Tali situazioni sembrano due facce della stessa medaglia: quali sono i rischi di questo moralismo?

Non chiameremmo “deresponsabilizzazione” il non concepire l’idea che le persone grasse possano accettarsi: proprio perché considerate responsabili della propria condizione, sono ritenute meritevoli di essere denigrate, bullizzate e derise così da costringerle a cambiare con la forza. Sono due condizioni che coesistono e la conseguenza l’una dell’altra.

Quali testi consigliereste per iniziare ad approfondire le questioni che riguardano i corpi non conformi agli standard intesi come corpi politici?

In italiano sicuramente il libro citato poco fa di Elisa Manici. Purtroppo la letteratura nella nostra lingua è veramente scarsa, ma per chi volesse approfondire l’argomento in inglese consigliamo: “You have the right to remain fat” di Virgie Tovar, “What we don’t talk about when we talk about fat” di Aubrey Gordon, “Bodies out of bounds” a cura di Kathleen LeBesco e Jana Evans Braziel, “Fearing the black bodies” di Sabrina Strings.

Abbiamo la possibilità di eliminare tre parole usate con frequenza quando si parla di corpi. La prima direi che non può che essere “obesità”, io aggiungo “peso forma”, voi terminate con…

Sovrappeso. Sopra quale peso? Esiste un peso universale per ogni singolo corpo?