Kultur | Salto Weekend

Don Chisciotte dell'Isola delle Rose

“L’Isola delle Rose” è un bel film, tratto da una storia vera che, come i bei film sanno fare, riesce ad essere uno spunto per qualche riflessione.
Rose
Foto: Wikipedia

In breve, la storia è inserita nel panorama italiano alla fine degli anni 60. Erano gli anni della rivoluzione giovanile, della voce delle minoranze, delle proteste contro le ingiustizie. Erano gli anni in cui la voglia di combattere per la libertà sessuale e per le canne si mischiava con la lotta per la libertà e per un mondo migliore. 
In questo contesto, un ingegnere, Giorgio Rosa, decise di costruire una piattaforma artificiale non troppo distante dalle rive di Rimini, ma distante abbastanza da potersi considerare fuori dalle acque territoriali italiane. Alias, si crea un’isola che può considerarsi come stato indipendente, libero.

L'Incredibile storia dell'Isola Delle Rose | Trailer ufficiale 


Nel film, Giorgio (Elio Germano) è un connubio perfetto tra Don Chisciotte e Leonardo da Vinci: fabbricatore di macchine senza targa, viaggiatore senza patente, cavaliere senza paura che difende con caparbietà la sua patria al Consiglio di Europa di Strasburgo. Innamorato di una sola donna, quella della sua vita: Gabriella (Matilda de Angelis). A lui viene l’idea di costruire un’isola di cemento per dimostrare a se stesso e alla sua cieca ragazza che, se si vuole un mondo migliore, lo si può costruire. Pilastri, cemento e acciaio in mezzo al mare prendono vita e pretendono un riconoscimento giuridico: lingua, valuta, passaporti e francobolli vengono creati ad hoc. I primi cittadini sono un naufrago, un uomo privo di cittadinanza, un buono a nulla figlio di papà e una giovane ragazza incinta di padre ignoto. A seguire, piovono richieste da chi più chi meno ha ragioni per voler vivere in una comunità diversa dalla propria. 
Sono gli outsiders della società i primi a credere in una società migliore. Nel film, la figura della ragazza incinta riporta con semplicità il tema della donna che può decidere cosa fare del proprio corpo senza dover rendere conto a qualcuno, ed ha il diritto di essere accettata per questo. Al tempo, uno scandalo. Lei è un’outsiders, che, proprio per questo, ha contribuito a far crescere un sogno che altrimenti sarebbe rimasto irrealizzabile. E si considerava un’outsider anche la oramai famosissima Amanda Gorman. Nera, figlia di una mamma single, donna-bambina in un mondo dove i bambini fanno i bambini e non chiedono di più, lei chiedeva la sua indipendenza fin da piccola. Chissà quanto quel sentimento l’abbia condotta a scrivere moniti a credere nell’ uguaglianza, nella lotta, nella tenacia, nella libertà: ”the new dran blooms as we free it. For there is always light. If only we’re brave enought to see it. Of only we’re brave enought to be it.” 
Ed è questa luce, non i pilastri di cemento, che è il vero fondamento dell’Isola delle Rose. La luce di chi non si accontenta, di chi non china il capo al potere, di chi non accetta, nella sua ingenuità, di appiattirsi e uniformarsi a quello che viene imposto come normalità. La vera normalità è combattere per quello che si è, indipendentemente dalle costruzioni sociologiche che ci vengono imposte. Il padre di Giorgio, nei punti del film in cui entra in scena, ricerca l’uniformità confondendola con la normalità: l’essere inserito nel sistema implica tranquillità a vita. Questa ode all’uniformarsi che, nelle sfere più alte dell’Italia al di fuori dell’Isola, sfocia nella scena in cui il cardinale Nunziante sbotta “Un C-U-L-O su un giornale! Dimmi se ti pare una cosa normale…”. I siparietti del film che avvengono negli ambienti politici suscitano ristate e richiamano l’atmosfera di pasta-pizza-mandolino/cattiva burocrazia ma cibobbbbuono che etichetta l’italiano all’estero. Ma è proprio il voler sfuggire all’uniformarsi che consente all’isola di essere qualcosa più di un posto dove si muovono i culi, ma un posto di realizzazione della libertà, interiore (l’essere se stessi), esteriore (il poter essere se stessi) e politica (il poterlo essere legalmente in uno stato dove è permesso). 


Questo sogno di libertà che Fichte già sviluppava alla fine del Settecento: la liberà era una scelta consapevole, il presupposto di qualsiasi esistenza individuale e collettiva. E, tra Fiche e il Sessantotto, tra commedia e tragedia, ci sono i tempi nostri, dove il nostro potenziale di libertà si è drasticamente ridotto. Mascherine, coprifuoco, socialità ridotta all’osso sono diventati il nostro vivere quotidiano. L’ultimo Dpcm ha stabilito il colore della regione, i metri consentiti per uscire all’aperto e se è possibile viaggiare in due su una macchina. A rileggere sembra di vivere in una situazione surreale, più surreale di quella che vive Giorgio nel suo Sessantotto. Il collante che unisce le due situazioni è questa sempre più pressante stanchezza verso le costrizioni, verso i limiti, verso le leggi che ci vengono imposte un giorno sì e l’altro pure. 
Laddove Fichte diceva che la libertà costituisce al tempo stesso il fondamento e il fine dell’indagine filosofica, nel nostro contesto la libertà sembra avere un sapore molto, molto più concreto, e anche molto molto più egoista: il poter passeggiare fuori oltre le 9 di sera, per esempio. Laddove Fichte parlava di tensione, di uno Streben per plasmare la nostra storia verso gli ideali di libertà e giustizia (cos’altro, se non l’isola delle Rose?), la nostra tensione verso libertà sembra ridursi all'entusiasmo di poter raggiungere le persone che amiamo, anche a costo di infrangere qualche regola. Oggi c’è, come inevitabile risposta a divieti e limitazioni, una domanda sempre più pressante di libertà che ci rappresentiamo come qualcosa di ancora più basilare del poter ballare su una piattaforma di cemento e poter dire di aver messo piede su di uno stato libero. 
Nel film, e nella realtà, l’isola delle Rose fu concepita come un pericolo politico per il governo italiano, una Cuba nell’Adriatico, e per questo fatta esplodere senza troppe cerimonie. Tuttavia, nel film, come nella realtà, i protagonisti della storia diranno di averci provato, per lo meno, a cambiare il mondo. È la consapevolezza di averci provato che porta lo spettatore a riconciliarsi con l’amara realtà. La domanda che ora si pone è: possiamo riconciliarci con la nostra realtà? In altre parole, cosa stiamo facendo per costruire, in tempi così difficili, un’isola di libertà?