Wirtschaft | Globalizzazione

“Non riporteremo indietro le competenze”

Christian Lechner e le catene del valore globali. L’esempio delle scarpe sportive, la delocalizzazione, la Cina fabbrica del mondo. “Ora è difficile tornare indietro”.
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Christian Lechner - Uni
Foto: Privat

salto.bz: Christian Lechner, il suo articolo sull’argomento è stato pubblicato sulla rivista scientifica Global Strategy Journal. Ma partiamo dall’inizio: cosa sono le catene globali del valore? 

Christian Lechner: Le catene di fornitura o del valore sono quello che una volta si definiva la filiera di produzione. Con il termine si intende tutta la catena di rapporti e attori che interviene in un meccanismo di produzione. Cominciando dall’estrazione della materia prima fino al prodotto finale nel negozio. Pensiamo ad una camicia: c’è il cotone che cresce sulle piante, poi chi fa il filato, chi il tessuto, chi il prodotto vero e proprio, ancora il branding e così via in un percorso che si conclude quando il cliente ha in mano il capo nel negozio. Il concetto ha a che fare con l’organizzazione aziendale. Si parla di integrazione verticale quando diversi pezzi della filiera sono svolti da un’unico attore. Si dice allora che una realtà è fortemente integrata verticalmente, un’impostazione che in passato è stata la norma per molti settori. L’opposto è la filiera verticalmente decentralizzata, in cui ogni attore compie un passaggio della produzione.

 

Cos’è successo negli ultimi anni e cosa sta succedendo ora?

Dico subito che la domanda è sbagliata, anche se è il quesito che si fanno in tanti. Per capire bisogna partire da ciò che dicevano i libri di strategia aziendale degli anni Sessanta e Settanta. In quegli anni il modello era l’impresa integrata. Poi cos’è successo? A partire dagli anni Settanta in poi in alcuni settori, altrove un po’ più tardi, è cominciato un processo di disintegrazione verticale. Cioè le imprese hanno ceduto certe attività che prima facevano in house a dei fornitori. È quello che descriviamo noi nel nostro articolo sulle scarpe sportive.

 

Ci sono degli esempi concreti con i brand più conosciuti?

Noi abbiamo studiato il settore delle scarpe sportive. Gli esempi sono molti. Una realtà come l’Adidas negli anni Settanta faceva tutto in house, in Germania. Lo stesso Asics in Giappone. Loro hanno finito di installare i siti di produzione negli Stati Uniti e Europa a metà degli anni Ottanta. Diadora in Italia produceva in casa fino alla metà degli anni Novanta.

 

Poi è arrivata la globalizzazione, giusto?

Ancora prima è arrivata un’impresa come Nike, nata come importatore della Asics e poi divenuta produttrice in proprio attorno al 1968. Ha cominciato dando l’assemblaggio della scarpa ai fornitori, poi man mano esternalizzando tutta la produzione, a fornitori che sono diventati sempre più bravi e hanno proposto il design, poi il prototyping. Quanto avvenuto nelle scarpe è comune a tantir settori. Nell’automotive, la Bmw produceva l’80% del pezzi negli anni Settanta, oggi siamo al 20%. Questo è importante da capire perché abbiamo un processo di disintegrazione che è generalizzato. Oggi le aziende fanno poco in house.

 

Quindi cosa fanno oggi le imprese realmente: si limitano a tenere il marchio?

Esatto. Alcune curano il brand, fanno ricerca di mercato, le cosiddette core competences. Nel mercato delle scarpe fanno esattamente questo.

 

Quale percentuale raggiunge l’in house nel mercato delle scarpe?

Generalmente è allo zero per cento. Se compriamo una Nike di alta gamma quasi sicuramente è fatta dalla Yue Yuen che è il più grande produttore di scarpe in Cina. Non esiste oggi un produttore di scarpe sportive che realizza i prodotti di alta gamma. Nessun altro a parte questo grandissimo fornitore cinese.

 

Il processo nelle calzature ha anticipato l’apertura globale dei mercati e le successive delocalizzazioni in Asia, è così?

La Nike ha sempre avuto questo modello, fin dagli anni Settanta. Altri come Adidas, Asics e New Balance hanno cominciato a metà dei Novanta. Le italiane poco prima dell’anno Duemila e oggi nessuno produce più nulla, si limitano a tenere il marchio. Anche nella moda è così e il modello vale in tutti i settori.

 

Venendo alla stretta attualità, per diversi analisti il Covid-19 ha dato il colpo di grazia alla globalizzazione spinta degli ultimi anni. Ora, dicono, si inverte la rotta. Lei pensa che le fabbriche torneranno in Occidente?

In tanti si domandano cosa succederà ora. Ebbene, io penso che dal punto di vista delle filiere dei prodotti di consumo come quelli che abbiamo citato non avverrà assolutamente nulla. In altre parole, la situazione non cambierà affatto. Il motivo è che l’outsourcing concluso dagli italiani vent’anni fa è un processo difficilmente reversibile. Prendiamo sempre ad esempio le scarpe. Per vent’anni nessuno ha fatto una calzatura sportiva di alto livello: chi sa fare questo prodotto oggi in Occidente? Nessuno, se per giunta i fornitori in Asia hanno investito in innovazione. Se guardiamo al mercato delle sneaker ci sono i prodotti made in Italy, di Lotto e Diadora, ma cosa fanno? Le scarpe degli anni Novanta, nelle vecchie fabbriche. Non sanno fare altro. Non c’è un produttore di scarpe sportive a parte Vibram che riesce a fare una suola di alta gamma, perché sono sparite le competenze. Ma questo vale per tutti i settori. Se per vent’anni non faccio una cosa, in un mondo che corre sempre di più, come posso pensare d’un tratto di riportarmela a casa?

 

Si parla però del decoupling, la separazione dell’economia degli Stati Uniti da quella cinese. Le spinte politiche in tal senso sono molto forti: secondo lei l’obiettivo non è raggiungibile?

È impossibile, perché quando io faccio outsourcing, di qualsiasi cosa, succede che in primo luogo devo insegnare ad un fornitore cosa fare secondo il mio standard. Quindi io controllo il processo, ma questo controllo durerà, mettiamo, cinque anni, comunque un tempo limitato. Poi a un certo punto avrò l’illusione di controllarlo, di avere le competenze, ma in realtà non le avrò più, perché gli altri magari sono andati avanti, hanno innovato e investito. È proprio quello che è successo e ora è difficile tornare indietro.

 

Questo cosa vuol dire, nei prossimi anni?

Nei settori abbastanza maturi sarà quasi impossibile riportare la produzione qui. Bisogna per forza puntare su settori nuovi. Noi pensiamo ai fornitori cinesi come piccole realtà, ma non è vero nulla. Pensiamo agli iPhone, chi li realizza? La Foxconn, in Cina, per conto di Apple che produce zero.

Supplier evolution in global value chains | © YouTube/Strategic Management Society

 

Lo scontro però almeno a livello politico tra Usa e Cina si sta acuendo, non riuscirà questo processo di rilocalizzazione?

Non ci sono le competenze. La Apple ha investito molto nei microprocessori, per vari motivi ma soprattutto perché aveva bisogno di mantenere un potere di negoziazione con Foxconn. Se guardiamo ai fatturati, quest’ultima è la numero due nel 2017 nel settore degli smartphone, con 130 miliardi di dollari, preceduta da Apple con 160 miliardi. Quindi è un’impresa enorme. La Samsung per la telefonia ha un giro d’affari di 85 miliardi. Sono colossi. La Yue Yuen nel 2017 aveva un fatturato di 8,5 miliardi, superiore sebbene di poco a quello dell’Adidas e inferiore solo alla Nike con 18 miliardi. Negli elettrodomestici i primi tre operatori sono cinesi, la quarta è Whirlpool. Abbiamo fornitori che sono giganteschi e che hanno investito in innovazione. È un’illusione dunque pensare di poter riportare a casa le competenze.

 

Che rischi abbiamo di fronte come Italia e Europa?

Dalla nostra ricerca è emersa una cosa interessante. Se prendiamo alcuni marchi italiani di taglia media, ad esempio Fila, sono stati tutti comprati da loro ex fornitori. Marchi minori o di media dimensione magari sono entrati in crisi e poi sono stati acquisiti. La lista di brand italiani comprati da realtà estere negli ultimi anni è impressionante. Se mi chiedono cosa succederà a breve con gli strascichi del Covid la risposta è questa: non solo non ci sarà un rientro di competenze esternalizzate, ma avremo una crisi delle aziende nazionali, che alla fine verranno comprate dall’estero.

 

Siamo a tal punto che un giorno cinesi o indiani decidessero di non vedere più i prodotti ad europei e statunitensi non avremmo più scarpe, è così?

Più o meno, avremmo quelle vecchio stile che si è continuato a fabbricare. Se la Foxconn decidesse di non realizzare più iPhone non avremmo appunto più iPhone. Avremmo una carenza di prodotti tecnologici di cui abbiamo ora ampia disponibilità. Le competenze sono in mano a loro, Huawei, Xiaomi e via dicendo. Senza la Yue Yuen la Nike non saprebbe neanche dove andare. Le imprese non si sono rese conto della perdita di competenze a lungo termine perché erano focalizzate sulla concorrenza, sul cambiamento dei sistemi di produzione, l’ecommerce.

 

Sul profitto?

Non soltanto, perché se lei deve vendere un prodotto guarda in primo luogo ai concorrenti. Le preoccupazioni erano prima la grande concentrazione nei canali di distribuzione, con grossisti sempre più grandi, poi è arrivato l’ecommerce. Si è persa di vista tutta la filiera, anche perché si trattava di un processo lento ma inesorabile. Se io per vent’anni non parlo più una lingua straniera che conosco, alla fine finirò per perderla.

 

Quindi cosa dobbiamo fare per riempire di significato il tema dell’innovazione?

Ci sono tante nicchie, tanto spazio per l’innovazione. Intelligenza artificiale, robotica, tecnologie ambientali, riconversione verde dell’economia: non possiamo perdere questo treno.