Kultur | Filosofia

La scena del gusto

A pranzo con Nicola Perullo, filosofo che ha sviluppato un'originale (e laica) riflessione sull'imprevedibile densità delle nostre esperienze enogastronomiche.

Siamo soliti pensare che il gusto sia una proprietà – individuale o collettiva – instabile e quindi un po' misteriosa. Oppure, al contrario, qualcosa di misurabile, mediante l'applicazione di una grammatica sensoriale ad alta precisione tautologica. In mezzo a questi due estremi, vale a dire quello dell'indeterminatezza assertiva (non so perché questa cosa mi piace, ma dico che mi piace) e della ridondanza asfittica (è bello ciò che è bello eccetera), si distende in realtà il campo vastissimo ed inesplorato di tutto quello che accade (o per meglio dire ci accade) quando mangiamo una pietanza o beviamo un vino. Si tratta, propriamente, del campo indagato da una filosofia laica del gusto, declinato in epistenologia quando si parla del bere, che praticamente coincide (dentro, ma soprattutto fuori dall'accademia che ne veicola i contenuti) con le ricerche inaugurate qualche anno fa da Nicola Perullo, studioso e narratore di “esperienze enogastronomiche” (senza però rischiare di farsi imbalsamare nella categoria dell'esperto).

Abbiamo pranzato con Nicola Perullo nel giardino dell'Hotel Laurin, scandendo la conversazione con quattro portate congegnate appositamente dallo chef Manuel Astuto e suggellate da un dessert al cucchiaio disegnato da René Unterhauser. La questione dibattuta ha ruotato per l'appunto su quella definizione di “laicità”, in un certo senso dissonante considerando tutta la parodia del genuino o del solenne che si è depositata come una polvere stantia sul grande teatro del cibo. “Per chiarire cosa intendo con la mia nozione di gastronomia laica sono solito citare Pablo Picasso, il quale diceva che per cominciare a dipingere, cioè per imprimere il primo colpo di colore o tracciare la linea che determinerà la nascita di una nuova opera, occorre in un certo senso dimenticarsi tutto. Anch'io, analogamente, dico che quando portiamo alla bocca un cibo o l'orlo di un bicchiere nel quale scintilla un vino è necessario sospendere il sapere che ne anticipa la sensazione”. E questa intermittenza del sapere (visto che un sapere, necessariamente, non potrà mai essere abolito del tutto e si riformerà invariabilmente con il procedere dell'esperienza) è dunque la spaziatura che consente all'esperienza di essere rimessa a se stessa, al tratto imprevedibile che fonda una nuova narrazione, gesto creativo e imponderabile, vero e proprio discrimine tra tutto il prima e tutto il dopo che circonda la nostra esistenza.

Il gusto, in questa prospettiva, diventa così la scena, l'intera scena del suo accadere. Una scena nella quale gli attori dovranno muoversi in modo libero, senza costrizione o paura di sbagliare (qui vengono in mente quelle fotografie che giudichiamo “errate” perché magari abbiamo scordato di togliere all'ultimo momento il dito dall'obiettivo, non considerando che ciò testimonia anche la nostra traccia sull'immagine, come una firma legata al contesto, esistono persino ricerche iconografiche che hanno tentato di documentare un tale aspetto involontario nella storia della fotografia). Perullo ci invita a non avere paura, a non temere la prova dell'incontro con un vino: “Anche per quanto riguarda l'epistenologia, che in un certo senso applica e approfondisce i principi della laicità gastronomica, la cultura intesa come possesso non deve funzionare da meccanismo inibitorio. Ai protocolli schematici, con i quali i degustatori professionali cercano di fissare o stabilizzare l'entità di un vino, io sostituisco una poliedricità di pratiche interpretative che ne rilancino la vitalità: beviamo e poi magari facciamo un disegno, intessiamo una conversazione che prima, prima di bere quel particolare vino, sarebbe stata impensabile, oppure ci mettiamo a camminare. Il degustatore professionale passa da un vino all'altro e li sputa tutti, io invece dico: concentriamoci su una sola bottiglia, ma lasciamo che il suo contenuto ci attraversi, ci modifichi, ci vivifichi”.

Nonostante l'apparente esoterismo di tali acquisizioni (Epistenologia, libro sciamanico, si ama o si odia, senza mezze misure), Perullo sta riscuotendo molto successo e da marzo (quando il volume è uscito) viaggia da un capo all'altro del Paese organizzando presentazioni/dimostrazioni che cambiano di volta in volta, cercando in primo luogo la sintonia con un pubblico piacevolmente stupito dal rimescolamento delle categorie usuali con le quali viene affrontato il tema del mangiare e del bere. In provincia di Bolzano tornerà peraltro già alla fine di settembre (per la precisione il 21, 22, 23) per partecipare ad una “Cena oltranzista” progettata dal compositore Luciano Chessa nell'ambito della rassegna Transart. “Insieme ad un piccolo gruppo di invitati mi troverò in un castello sul lago di Monticolo – Perullo anticipa l'evento – e praticheremo diverse attitudini al cibo, compreso un digiuno di due giorni, seguito però da un sontuoso banchetto, mentre saremo costantemente filmati e trasmessi live”. Si tratterà di un'altra scena del gusto, estrema, oltranzista per l'appunto, quindi distante dalla via mediana e relazionale della laicità proposta da Perullo, il quale però non si sottrae al confronto, in nome di una curiosità errabonda e spiazzante (anche riguardo alle proprie stesse acquisizioni). In nome del gusto e della sua esperienza.