Gesellschaft | #metoo

Senza dissenso fu assoluzione

Il dibattito sul consenso nei casi di violenza sessuale riporta alla luce una (brutta) sentenza del Tribunale di Bolzano del giugno 1982 che fece molto discutere.
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Foto: Città di Bolzano

I dati parlano chiaro. 170 donne vittime di violenza fisica o psicologica si sono rivolte nel 2016 a uno dei servizi della “Rete dei servizi contro la violenza di genere della città di Bolzano: al Centro d'ascolto antiviolenza gestito dall'associazione “Gea”, alla Casa Alloggi Protetti, al presidio di pubblica sicurezza della Questura oppure all'associazione “la Strada/der Weg”. I numeri indicano un rilevante aumento rispetto agli anni precedenti: nel 2015 erano 135. Di queste, la maggior parte (48%) convive in casa con la persona maltrattante ed è di cittadinanza italiana (52,4%). Sono donne di tutte le età, che subiscono perlopiù (81%) forme di violenza domestica che si manifesta nell'ambito delle relazioni di intimità. Il coniuge o il fidanzato, ossia il partner attuale della donna, risulta in oltre la metà dei casi (58%) responsabile dei maltrattamenti, mentre circa un atto violento su cinque è responsabilità dell'ex-partner (19%). Come negli anni scorsi, gli autori delle violenze sono in stragrande maggioranza italiani, quasi il 60%. Quasi la metà (47,5%) delle donne accolte dai servizi della rete di Bolzano ha inoltrato una denuncia relativa alla violenza subita.

La questione del consenso

Secondo un rapporto dell'ISTAT, in Alto Adige il 49% delle donne dai 14 ai 65 anni ha subito molestie o ricatti sessuali sul lavoro nel corso della vita, ben sopra la media nazionale. Ma solo grazie alle denunce del #metoo, la lotta alla violenza di genere sta avendo risalto mediatico; in Italia, a seguito di alcuni casi di violenza sessuale, si è tornati a parlare della questione del consenso. Lo scorso settembre, due studentesse americane hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri a Firenze: nel corso dell'interrogatorio durato più di 12 ore avvenuto durante l’incidente probatorio a novembre, gli avvocati difensori dei due militari hanno posto 250 domande a ciascuna ragazza, molte delle quali censurate dal giudice Mario Profeta perché degradanti o lesive della dignità delle donne che avevano denunciato lo stupro. “Lei trova sexy gli uomini che indossano una divisa?” è tra le domande choc ritenute inammissibili dal giudice.

Come scrive Giulia Siviero su il Post, “negli anni alcune sentenze e legislazioni si sono evolute sulla base del principio che un rapporto sessuale richieda l’esplicito consenso di tutte le persone coinvolte, e che non sia necessaria la violenza o la forza per parlare di reati sessuali”. Una lenta evoluzione: negli anni Ottanta, i reati di violenza sessuale erano ancora classificati dal “codice Rocco” fascista come “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”. Solo nel 1981 sarà abrogata la rilevanza penale del “delitto d’onore” e venne abolito il “matrimonio riparatore”. E solo nel 1996 la legge italiana classificò la violenza sessuale come crimine contro la persona. In questo quadro si può leggere una sentenza del Tribunale di Bolzano del 30 giugno 1982, cui fa spesso riferimento chi si occupa di violenza di genere. La si ritrova sui giornali, nelle pubblicazioni degli studi di genere, oppure citata qualche anno fa dal consigliere provinciale verde Riccardo Dello Sbarba in un dibattito in aula.

Bolzano, 1982: una sentenza discutibile

Si tratta della sentenza di assoluzione di due uomini sudtirolesi, entrambi accusati di violenza sessuale. Essa stabilì che usare le maniere forti per un “primo approccio” era una forma di corteggiamento che non costituiva una violenza vera e propria. A comportare l'assoluzione degli imputati fu, insomma, il dubbio sul dissenso della donna che aveva subito lo stupro. Il grado di violenza – ovvero l'impiego o meno di una certa energia fisica contro la persona offesa – rappresentava una condizione imprescindibile per l'allora giurisprudenza, alla luce dell'articolo 519 del codice penale (“Della violenza carnale”) poi abrogato. Non bastava insomma la “naturale ritrosia femminile” - così si esprimevano i tribunali dell'epoca. Da un anno il delitto d'onore era stato eliminato dal Codice penale, ma venivano ancora pronunciate sentenze di questo tipo. La stessa forma mentis della difesa dei due carabinieri prende esempio da questa cultura.

Ma veniamo al caso nello specifico. La vigilia di Natale del 1980 una donna della Val Pusteria, S.M, sporse denuncia per stupro contro due uomini del posto, R.R. e H.V.: i due pusteresi le avevano dato un passaggio in macchina – lei stessa chiese loro di essere riaccompagnata a casa dopo averli incontrati in un locale notturno a Campo Tures – quando, poco prima di raggiungere destinazione, la violentarono con la minaccia di lasciarla sola e nuda per strada. I due imputati furono assolti “con formula dubitativa”. Nessun dubbio poteva sorgere, scrisse la sentenza di assoluzione, riguardo alla “sussistenza degli estremi materiali dei contestati reati, dovendosi attribuire pieno credito alle precise e circostanziate accuse formulate a carico dei due imputati dalla parte lesa”. “La versione resa dalla medesima – proseguivano i giudici – risulta attendibile, ricca di particolari, (…) priva di contraddizioni e incongruenze” e la donna in udienza “è apparsa serena, scevra di risentimenti e obbiettiva nell'esposizione dei fatti”. I “dubbi” dei magistrati giungono però di fronte a una presunta involontarietà dello stupro, ovvero al “legittimo dubbio che gli imputati non si siano resi conto del dissenso” della donna ad avere un rapporto sessuale.

“La donna vuole essere conquistata”

L'inconsapevolezza dei due pusteresi sarebbe stata provata dal fatto che la giovane non ha opposto particolare resistenza (“pensando che sarebbe stata inutile” si era subito slacciata i pantaloni, dichiarò di fronte ai giudici) ed è “rimasta passiva, non ha respinto gli imputati, non ha reagito né gridato né tentato di scappare”. La minaccia di lasciarla denudata lungo la strada, pur menomando “la libertà psichica” della vittima, per i giudici non sarebbe stata sufficiente a giustificarne la passività: la distanza le avrebbe consentito di raggiungere la sua abitazione a piedi – in pieno inverno in un paesino della Val Pusteria, naturalmente. Ma il passaggio più controverso della sentenza che ritroviamo nei manuali di diritto e studi di genere è il seguente:

è tuttora convinzione assai diffusa, soprattutto tra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, che la donna vuole essere conquistata anche con maniere rudi (...) e non disdegna qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte del corteggiatore, (...) per crearsi una sorta di alibi che possa giustificare il suo cedimento ai desideri dell’uomo.

Dal canto suo, secondo i giudici, “il maschio ha spesso la presunzione di essere desiderato” da ogni donna che gli mostra un qualche interesse e non respinge con decisione le “galanterie”: l'eventuale resistenza della donna non sarebbe interpretata come una manifestazione di dissenso, bensì come “espressione di quel senso di pudore di chi non vuole essere considerata di facili costumi”.

La critica del giurista

Una storia che purtroppo ne ricorda moltissime altre. Un paio d'anni dopo, nel 1984, la rivista giuridica “Giurisprudenza di merito” pubblicò una serie di intelligenti considerazioni sul tema della violenza carnale, a firma di Luigi Domenico Cerqua, che riserva parole dure per la sentenza bolzanina. Scomparso nel 2013, presidente della quinta sezione della Corte d'Appello di Milano e docente di diritto penale, il giurista maceratese non condivideva “l'orientamento della dottrina e della giurisprudenza, perché in tema di violenza carnale mostrano di non essersi liberate da una tradizione millenaria, rivelando una concezione dei rapporti sessuali ambigua e pervasa da profondo arcaismo”. Secondo Cerqua, a tale critica non sfugge la sentenza in oggetto: “La violenza carnale, secondo un insidioso ed erroneo convincimento tipico di una certa mentalità, è associata all'idea del piacere sessuale piuttosto che a quella dell'aggressione compiuta da una persona nei confronti di un'altra”.

Si traspone così la responsabilità dall'aggressore alla vittima, che avrebbe provocato l'aggressione “magari dimostrandosi disponibile ad un invito, una compagnia, un ballo o un passaggio in auto”. Ma la violenza sessuale è il reato del quale spesso “l'autore si sente innocente e la vittima prova vergogna, perché l'atto sessuale viene inteso come la conclusione normale per un certo atteggiamento tenuto dalla donna” o come una specie di “ricompensa” per un'assunzione, promozione, ecc.: “I miti, le credenze erronee e le vecchie idee tardano a morire, nonostante sia scientificamente dimostrato che la violenza carnale soddisfi in via primaria bisogni di carattere non sessuale”, per ragioni di ritorsione e di compensazione, ovvero il “bisogno di dominio (potenza) più che di desiderio (sessualità)”.

!Non si deve confondere la collaborazione prestata da una persona terrorizzata con il suo libero consenso

Le conclusioni di Cerqua sono chiarissime: “Pur in presenza di un atteggiamento seduttivo, se il rapporto sessuale avviene senza il pieno e chiaro consenso della donna, ci sarà pur sempre un'aggressione alla sua libertà sessuale e quindi violenza carnale”. “L'uomo ha il dovere di assicurarsi che la donna acconsenta effettivamente e sino in fondo ad un rapporto di natura sessuale” conclude il docente maceratese, secondo sui “con la costrizione, di qualunque grado e intensità ed in qualunque modo esercitata, si coarta la libertà sessuale della donna”. Libertà ancora troppo spesso negata.