forsizia
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Gesellschaft | restare a casa

La lezione del virus

Bello sarebbe stato procrastinare fino all’infinito i nostri sogni di irrevocabile progresso. E invece ora dobbiamo fare i conti con cose che finora ci erano sconosciute.

La città è spettrale. Il giallo della forsizia esplode qua e là, contrasta con l’inverno degli spiriti, con la paura dipinta sui rari volti che si incontrano per strada, con l’incertezza. La primavera avanza. Al pari del virus. No, noi non sapevamo cosa fosse un bollettino di guerra, quello che giunge alle 18 di ogni giorno e che attendiamo con il fiato sospeso. Noi non sapevamo cosa significasse contare i morti così come si sgrana un rosario. Non conoscevamo nemmeno il terrore, quello vero. Credevamo ciecamente in un progresso senza fine o sosta, come se la storia soggiacesse a una ineludibile legge fisica. La crescita, il benessere, l’insensata corsa al profitto e ad altre vanità. E da un giorno all’altro, tutto è svanito, tutto è cambiato.    
Un grande filosofo, Giuseppe Capograssi, era convinto che l’umanità procedesse di caduta in caduta, catastrofe dopo catastrofe, pianto dopo pianto, «per multas tribolationes». Egli era convinto che la Provvidenza avesse predisposto per gli uomini una «favilla di umanità», capace di risollevarci da ogni sfacelo.
In una delle sue ultime opere, l’«Introduzione alla vita etica» (1953), Capograssi scriveva che disperare significava sperare. Proprio disperando, noi speriamo. Proprio nel buio della «desolazione» ci rendiamo conto che «la storia è umanità» e non già «materia sorda e opaca»; intravediamo, alla fine del cammino «la città di Dio», la «magna civitas» che attende un’umanità germinata in un unico parto.

Così, ci siamo ricordati che al suo cospetto un italiano è uguale a un cinese, a un americano, a un iraniano, a un africano.

La città spettrale che vediamo in questi giorni non è disabitata. Dietro le finestre, serrata, continua a vivere. Confinata in casa, si scopre priva di confine, improvvisamente affratellata con una città più grande, una «magna civitas»: il virus non ha attaccato una popolazione “nazionale”, ma l’intero genere umano.
Così, ci siamo ricordati che al suo cospetto un italiano è uguale a un cinese, a un americano, a un iraniano, a un africano. Uguale a un profugo, uno di quelli che fino a ieri alcuni di noi avrebbero lasciato morire in mare.
Bello sarebbe stato, se non avessimo avuto bisogno della pedagogia del virus per ricordarci questa lezione, bello sarebbe stato procrastinare fino all’infinito i nostri sogni di irrevocabile progresso. E invece ora dobbiamo fare i conti con cose che fino a due settimane fa ci erano sconosciute, cose di cui solo alcuni anziani conservano remota memoria. Cose che rimandano all’ultima catastrofe bellica, che ci sembrava neve di ieri.
Cose che contraddicono punto per punto l’agio di una ultima, moribonda «belle époque»: sotto la sua bellezza covava il germe della decomposizione.

La città è in fiore.
Il sole primaverile scalda le piazze deserte, sfoglia le vetrate dei negozi, delle case, delle chiese.
Dura poco. Il tempo di fare la spesa, di comprare il giornale, di andare al lavoro, per chi deve. Poi, la clausura. L’attesa delle notizie. Guardiamo soprattutto alla Francia, alla Germania e alla Spagna. Speriamo che ciò che è accaduto in Italia non accada lì, che altrove il virus sarà meno aggressivo, mite. Speriamo che laddove ristoranti e negozi non sono stati chiusi immediatamente, come nella vicina Austria, si siano fatti bene i calcoli. Speriamo che le ragioni del profitto e dell’economia non abbiano indotto alcuni governi europei a tardare illusoriamente il coprifuoco. Speriamo che davvero la Mitteleuropa non abbia la sorte che è toccata a noi. Molto del nostro futuro dipende da quel che accadrà nei prossimi giorni in Germania e in Francia, molto delle nostre vite sarà profetizzato dall’andamento di quelle curve, terribilmente impennate sui grafici che ogni giorno seguiamo con apprensione.
L’incertezza regna sovrana e rende le nostre attese più dure.

Dobbiamo ricordare a noi stessi che le emergenze non durano.

Tra le righe dei giornali, una fonte governativa prevede il picco dell’epidemia italiana per il 18 di marzo. Tra pochi giorni. E ancora: prevede l’affievolirsi della catastrofe per il mese di aprile. Se questo fosse vero, se una volta tanto ci fosse dato di affidarci al potere dispensatore del pronostico, se volessimo confidare nella buona sorte, dopo quel giorno ci sarà tutto un mondo da ricostruire, vittime da piangere e molti eroi da ringraziare: medici, infermieri, inservienti, cassiere, edicolanti, operai, conducenti di bus. Eroi.
Fino ad allora occorre seguire quel che dicono i decreti governativi e, prima ancora, quel che questi non dicono. Restare umani.
Restare a casa, sì, ma per restare umani.
Restare a casa, ma senza dimenticarci di restare - anche e soprattutto - umani. Non farci complici del nemico silenzioso e invisibile che ci miete, ma neppure schiavi dell’emergenza. Dobbiamo ricordare a noi stessi che le emergenze non durano. Confidare che l’impegno e il buon senso di ognuno avranno la meglio sul nemico. Confidare nella provvidenza, ma solo a patto di collaborare attivamente con essa. Ricordarci infine che il principio di umanità è ciò che ci rende davvero più grandi del più piccolo dei virus.
A Capograssi piaceva molto il filosofo francese Blaise Pascal. «L’uomo non è che una canna - diceva Pascal - la più debole della natura. Ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui. L’universo invece non ne sa niente».
Così come niente sa Covid-19.