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Quello che vidi in piazza Tiananmen

Ilaria Maria Sala ha appena pubblicato un piccolo libro che ripercorre la storica primavera cinese del 1989. Il volume sarà presentato domani (17 giugno) a Bolzano.
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Foto: commons.wikimedia.org

A 30 anni dai tragici eventi che ebbero luogo a Pechino, Ilaria Maria Sala – scrittrice e giornalista per Quartz, The New York Times, Hong Kong Free Press – presenterà domani (17 giugno) a Bolzano il suo ultimo libro libro "Pechino 1989" (ed. Una Città, in collaborazione con la Fondazione Alexander Langer Stiftung). Un reportage fotografico redatto proprio in base agli appunti e alle fotografie che lei, allora giovanissima, riuscì a raccogliere nei tre mesi cruciali contrassegnati dalle imponenti, e purtroppo inutili, dimostrazioni di piazza. Nell'intervista che ci ha rilasciato il ricordo di quei giorni e la difficoltà (ma anche lo stimolo) di esercitare la professione di reporter vivendo in una cultura così distante dalla nostra.

 

Salto.bz: Nell'introduzione al libro lei racconta di essere arrivata a Pechino nell'agosto del 1988, quindi un anno prima della celebre protesta che noi generalmente leghiamo al nome della piazza Tiananmen. Si è resa conto subito di essere per così dire al cospetto di una delle più imponenti manifestazioni di quello che i filosofi chiamano lo “spirito del tempo”?

Ilaria Maria Sala: Le manifestazioni sono cominciate in Aprile, e naturalmente no, non mi immaginavo che sarebbero potute diventare quello che diventarono. La Cina era per me un posto ancora tutto da leggere, e all'epoca, agli inizi del periodo delle riforme economiche, era ancora più diversa dal resto del mondo. La modernizzazione in parte ci ha avvicinati, ma le differenze superficiali che sembrano scomparse nascondono comunque una cultura che non va avvicinata senza la determinazione di capire.

I tempi e i modi della Cina del 1989 erano molto diversi da quelli dell'Ungheria del 1956

Quali erano le principali rivendicazioni degli studenti? Era qualcosa di assimilabile alla rivolta ungherese del 1956 (cioè di una contestazione ancora interna al disegno complessivo socialista), oppure vi erano anche istanze di profonda critica del sistema comunista in quanto tale?

I tempi e i modi della Cina del 1989 erano molto diversi da quelli dell'Ungheria del 1956. In primo luogo perché in Cina non esisteva la sensazione di essere sotto un potere politico esterno, o una forza esterna che dettasse comunque legge. Le istanze di critica del sistema comunista esistevano ed erano forti, ma si concentravano in particolare sul metodo del Partito Comunista Cinese di affrontare le riforme e sulla legittimità del Partito Comunista a comandare. Chi aveva stabilito che i capi dovessero essere loro? Chi avrebbe deciso la successione? Perché tanta corruzione e tanto nepotismo? Per quale motivo tutte le istituzioni che si rifacevano "al popolo" nel nome impedivano alla popolazione di far parte delle decisioni che venivano prese?

 

Ci fu un momento in cui la situazione avrebbe potuto non precipitare verso la repressione?

La repressione era evitabile ad ogni momento. Non c'è mai, nella storia, un momento in cui l'unica possibilità è sparare contro studenti disarmati. Le istanze della protesta possono essere accantonate anche senza darla "vinta" ai manifestanti, ma posticipando certe cose, oppure facendo concessioni del tutto minime. Per esempio gli studenti avevano chiesto, con forza, che venissero ritirati gli editoriali rabbiosi del quotidiano del Popolo del 26 aprile: quello era un gesto piccolo, fattibile, bastava cambiare l'aggettivo dato alle proteste, non usando il termine "disordini" ma sottolineandone la componente patriottica, e le cose si sarebbero probabilmente calmate.

Le foto contenute nel libro non mostrano gli episodi più cruenti, i feriti, i morti. Ciò corrisponde ad una scelta editoriale precisa?  

Sì, si tratta di una scelta editoriale. Per me prima di tutto. Le immagini sanguinose non sono mai lontane dalla mia mente, e non voglio ricordare quel momento di gioia, di speranza, di possibilità insanguinandolo con quanto è avvenuto dopo.

I fatti del 1989 sono sottoposti a censura totale

Ha avuto comunque difficoltà a portare fuori dalla Cina quelle immagini? Gli “stranieri” potevano (e tuttora possono) usufruire di una maggiore libertà di azione?

Le immagini sono rimaste nascoste nella mia stanza all'università in Cina e quando sono tornata erano ancora tutte lì, noi studenti stranieri eravamo sicuramente visti come meno "pericolosi". Quando sono tornata a Pechino nella tarda estate del 1989 le ho messe via e riportate in Italia, per tenerle al sicuro.

Come sono stati elaborati dalla coscienza collettiva cinese i fatti del 1989? Si è pervenuti ad un processo di relativa storicizzazione oppure prevale ancora il tabù politico?

I fatti del 1989 sono sottoposti a censura totale. Molti sanno, sopratutto quelli che ne sono stati testimoni oculari, ma non possono parlarne. Ogni commemorazione è rischiosa. Quello che il governo vuole far passare è che non sia accaduto nulla, soprattutto rivolgendosi a chi è sufficientemente lontano dai fatti per poterne essere persuaso. Si tenta però anche di far passare l'idea che la repressione fosse "necessaria" per garantire l'attuale "prosperità e armonia sociale". Si tratta di ciniche sciocchezze, e infatti chi, malgrado tutta la censura e tutta la propaganda, riesce comunque a mantenere un pensiero critico cercherà di informarsi, magari su Internet o chiedendo a persone di cui pensa di potersi fidare. Ma nulla di pubblico è consentito, perché si può davvero correre il rischio di lunghi anni di prigionia. A livello nazionale, dunque, è chiaro che questo fa parte dei dolorosi buchi di memoria imposti con cui prima o poi la Cina dovrà fare i conti.

 

Perché ha poi deciso di continuare ad occuparsi di quei luoghi, andandoci addirittura a vivere? Che cosa la attrae della Cina, dell'Asia in generale? Cosa la lega a quei luoghi?

Prima del massacro di Tiananmen ero affascinata dalla complessità del luogo in cui mi trovavo: la lingua, la letteratura, la storia, le tradizioni sociali, la religione popolare, la politica ossessiva, il modo delle persone di rapportarsi gli uni agli altri, le dinamiche interpersonali. E la diversità rispetto a quello che conoscevo, dato che per l'appunto questi erano i miei primi passi in Asia. Poi, il trauma di quello che ho visto mi tiene ancora avvinta a queste realtà: non necessariamente a Pechino (vivo ora a Hong Kong, un luogo che amo ed ammiro profondamente), ma certe esperienze hanno fatto di me una persona molto più attenta alle dinamiche dittatoriali e legate ai sollevamenti di piazza di quanto non accadrebbe se vivessi in un'altra regione della terra.

L'immagine più comune (e quindi superficiale) della Cina che si ha in Occidente è quella di una società in cui convivono fenomeni apparentemente contraddittori: forte dinamismo economico e rigidità istituzionale.

Non c'è un modo semplice per descrivere la Cina. È un paese immenso, con un'enorme varietà interna e popolazioni molto dissimili fra loro. Tutte accomunate però da un Partito Comunista che ha un'ossessione per il controllo che va ben oltre a quello che possiamo immaginare. Parlare di “rigidità istituzionale” è un eufemismo se pensiamo che oggi la Cina è l'unico paese al mondo che tiene nei campi di rieducazione più di un milione di persone, per il solo crimine di essere parte di un gruppo etnico che non vuole essere assimilato al resto della cultura nazionale. Come noto, il Tibet vive da decenni in una situazione di repressione totale. Il resto della Cina percepisce questa condizione come se si trattasse di un dettaglio: quindi città costiere come Shanghai, Pechino stessa, megalopoli futuristiche come Chongqing, sono tutti luoghi dove vigono altre priorità. Si fa shopping, si cucina, si fa anche cultura come se nulla di questo orrore esistesse. Preservare se stessi e le proprie ambizioni è una scelta che molti fanno scacciando dalla mente quello che altri sono costretti a pagare pur facendo parte del medesimo Paese.

Ogni volta che ricordo quei giorni rivedo gli sguardi pieni di ottimismo e speranza di chi marciava nei cortei (…) Sguardi che non ho mai più rivisto a Pechino

Nel libro scrive: “Ogni volta che ricordo quei giorni rivedo gli sguardi pieni di ottimismo e speranza di chi marciava nei cortei (…) Sguardi che non ho mai più rivisto a Pechino”. Ad Hong Kong, città in cui lei risiede, però, ci sono forti movimenti di contestazione, penso per esempio all'attivismo di Claudia Mo. Non ravvede una speranza simile a quella che ha osservato 30 anni fa?

La situazione fra Hong Kong e la Cina non è comparabile. Non si tratta, oggi, di speranza, ma di disperazione: una lotta all'ultima forza contro il nuovo colonialismo di Pechino e contro una classe politica locale che cerca in tutti i modi di comprare Pechino e schiacciare gli hongkonghesi. Una classica situazione in cui le elite si lasciano asservire al potere nella speranza di trarne vantaggi personali e di classe. Hong Kong lotta per mantenere le sue libertà e le sue specificità, per potersi sviluppare senza doversi incamminare per la grigia via della sottomissione al Partito. Hong Kong lotta per mantenere la sua lingua, per restare la città più cosmopolita del mondo. Tutte cose che Pechino detesta, perseverando nella sua decisione di mantenere in piedi la "cinesità" codificata dal Partito. Hong Kong dimostra che essere cinesi vuol dire far parte di una civilizzazione, non di un Paese, e che la cultura cinese si può esprimere in mille modi diversi, certo non solo in quelli inventati dal Partito. Oggi è possibile dirsi cinesi e moderni, senza per questo essere costretti a ripetere infantilmente di "amare il Partito". Hong Kong dimostra che il pensiero critico è la maggior garanzia che abbiamo di restare davvero umani, ed evolvere.

Quali sono le qualità che deve possedere un/una cronista che opera in regioni così profondamente distanti dalla nostra cultura?

Le qualità sono tante a seconda anche del tipo di lavoro che si vuole fare. È necessario essere coraggiosi, determinati davanti alle porte chiuse in faccia da chi dichiara di non avere tempo per parlare con i giornalisti. Ma bisogna anche essere rigorosi nel riportare i fatti, dotarsi degli strumenti necessari per fare bene il proprio lavoro. Questo vuol dire imparare le lingue e leggere molto, sia giornali che libri. Parlare con molte persone e cercare ogni giorno di imparare e verificare quello che si è imparato. In Italia siamo malati di geopolitica, e amiamo scrivere di grandi movimenti e alleanze fra nazioni seduti nei nostri salotti. Credo sia una delle forme di giornalismo più inutili che esistano. Per analizzare bisogna avere una conoscenza reale dei luoghi, dei linguaggi, e della storia. E non cercare scorciatoie sensazionalistiche.