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“Io, chef, insegno cucina in carcere”

Marco Cristeli lavora con i detenuti a Bolzano: “Il momento più bello? Un ragazzo africano fa il risotto alla milanese e mi abbraccia. Autostima, l’ingrediente migliore”.
Marco Cristeli, chef
Foto: M. Cristeli

La cucina come autostima e riscatto. È la “materia” - fatta non solo di acqua, farina e altro, ma anche di convinzione in se stessi, espiazione, speranza - che insegna Marco Cristeli. Altoatesino di Bolzano, cuoco e istruttore di 45 anni, con una lunga esperienza nella ristorazione organizzata, nella gestione dei locali e in particolare nella formazione, Cristeli è uno che ama le sfide. Come sa esserlo l’insegnamento in un contesto diverso e difficile quale il carcere. Dal 2017 lo chef ha preso in mano il testimone per i corsi che si svolgono - ultimamente con le limitazioni dovute al Covid - all’interno della casa circondariale del capoluogo altoatesino, con il sostegno della direzione della struttura e il contributo dell’ufficio formazione professionale della Provincia. “Quando me l’hanno chiesto - racconta - ho pensato: perché no, perché non mettermi alla prova? Lì dentro non sono lo chef, sono Marco, umano ma sempre professionale. Perché loro, i miei studenti, che io non giudico, quando escono devono essere sicuri di quello che sanno fare, visto che come detenuti partono svantaggiati. Il momento più bello? Un ragazzo del Centro Africa che prepara gli gnocchi di patate, o il risotto alla milanese, e mi abbraccia: perché ha ricominciato a credere in se stesso”.

salto.bz: Marco Cristeli, quale è il suo percorso professionale che l’ha portata a fare, tra i diversi impegni, il cuoco-formatore in carcere?

Marco Cristeli: il mio percorso professionale nasce dalla scuola alberghiera Cesare Ritz a Merano e dal diploma nel 1994 a Milano Marittima, perché all’epoca la maturità non era riconosciuta in Alto Adige. Già durante gli anni di studi avevo fatto le stagioni d’estate, poi dopo la fine della scuola e una parentesi da carabiniere nell’anno di leva ho iniziato a lavorare. Dal ’96 sono rimasto come responsabile per la parte ristorativa della società Plose Group, che si occupava di aree di servizio sull’A22. Nel ’99 ho preso un ristorante a Bolzano, in via Andreas Hofer, che si chiamava la Locanda e in seguito ha cambiato vari nomi. Ancora, nel 2000 ho iniziato a fare formazione, facevo già i corsi, un po’ alla locanda e un po’ in sedi esterne, per pizzaioli.

Quando me l’hanno chiesto ho pensato: perché non mettermi alla prova? Lì dentro non sono lo chef, sono Marco: umano ma sempre professionale

Lo spazio dedicato alla formazione è cresciuto negli anni?

In effetti, nel 2002, quando ho lasciato la Locanda, mi sono dedicato solo all’insegnamento e nei vari settori, cucina, pizzeria e sala. Nel 2004 sono stato assunto come ispettore per Arma ristorazione, fino al 2010, nel frattempo ho sempre tenuto i corsi la sera. Nel 2010 ho preso un locale in centro, il Caffè Seltz, in via Dottor Streiter, fino al 2017, ma anche in quel periodo ho sempre seguito i corsi. Il percorso nel carcere è iniziato proprio quando stavo lasciando il caffè. Per meglio svolgere l’attività formativa ho fondato la F&B, Food&Beverage service, che si occupa di assistenza alle aziende nel mondo della ristorazione, cucina, sala, bar e pizzeria. Accanto a ciò, svolgo le attività di cooking experience per Miele Italia, l’azienda che produce elettrodomestici e ha la sede italiana ad Appiano. Facciamo formazione per le cotture con i forni a vapore, su tutte le nuove modalità di cottura nel mondo del casalingo.

Si può definirla cuoco-istruttore.

Direi di sì, è quello che faccio.

 

 

Veniamo al carcere: come si è accostato ai corsi di cucina che a Bolzano sono una realtà consolidata all’interno alla struttura?

Quando sono arrivato i corsi c’erano già da diversi anni, almeno un decennio. Gli istruttori dell’epoca mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto provare. Ho accettato. Perché no, ho pensato, mi piace mettermi alla prova, e inoltre avevo già lavorato con ragazzi con problemi alla scuola alberghiera. È stato interessantissimo. L’utente finale non è visto come il detenuto, ma unicamente come il partecipante al corso. Io non giudico mai il motivo per cui è lì. Sta facendo un percorso nel quale cerco di dargli il più possibile. Come istruttore, da un lato porto dentro le mura la vita esterna, quello che succede fuori, dall’altra cerco di insegnare quello che in un futuro, all’uscita dalla reclusione, potrà servire per mettersi alla prova. È vero che il mondo della ristorazione è forse uno dei più facili. Almeno in entrata ci sono tante possibilità: puoi partire dall’aiuto cucina, cameriere, aiuto pizzaiolo, addetto al buffet, lavapiatti. La quantità di lavoro non spaventa certo coloro che hanno l’esperienza del carcere e sono abituati a “soffrire”. A spaventarli è invece quello che l’opinione pubblica pensa di loro nel momento in cui escono.

La formazione diventa importantissima per il reinserimento?

È così. La difficoltà per loro è: vengo, mi impegno, imparo, esco e vengo visto come un ex detenuto. L’importante è quindi formarli nel miglior modo possibile in base alle loro esigenze. Inoltre, il fattore psicologico è importantissimo in un contesto del genere. I corsi di cucina sono un’occasione per staccare dalla quotidianità, dallo scontare la pena quale essa sia. Il fattore umano è cruciale.

Come si svolgono le lezioni?

Le lezioni avvengono in base alle esigenze della pubblica sicurezza, nella cucina del carcere, in piccoli gruppi differenti di circa 6-7 persone per ciascun modulo di circa 30 ore. L’epidemia di coronavirus ha inciso nel senso che per un po’ siamo stati bloccati, poi abbiamo ripreso tenendo conto delle limitazioni che possono cambiare in base alle decisioni governative. Le precauzioni naturalmente sono doverose per tutelare una comunità chiusa come il carcere. Tornando alle lezioni, solitamente i detenuti vengono due, tre, quattro volte in settimana, nel momento del mezzogiorno, nell’arco di un anno scolastico.

L’identikit dei suoi studenti?

L’utente finale è solitamente un detenuto che ha una pena medio-lunga, che gli permette di poter seguire il corso. La composizione rispecchia la popolazione interna del carcere. Ai corsi c’è sempre un 75-80% di extracomunitari, moltissimi dal Nordafrica, nell’ultimo periodo c’è stata un’affluenza in crescita dal centr’Africa, ancora tanto Est Europa, Paesi come Romania, Albania, Cecenia. Italiani, di tutte le regioni, ce ne sono, ma dipende dal periodo. E solitamente sono pochi gli altoatesini, dato che essendo Bolzano una casa circondariale, dunque riservata a pene minori rispetto alle strutture di alta sicurezza, chi ha la casa ottiene in genere la detenzione domiciliare. Riguardo all’età media, è piuttosto bassa. Ci sono tantissimi giovani, di 20-22-25 anni. Purtroppo quasi tutti coloro che hanno reati legati allo spaccio sono ragazzi.

I miei studenti, che io non giudico, quando escono devono essere sicuri di quello che sanno fare, visto che come detenuti partono svantaggiati. Avanti, senza paura

C’è una tensione particolare nelle lezioni per via dell’ambiente in cui si svolgono?

Ai corsi non ci sono mai problemi. Per i detenuti sono infatti qualcosa in più, qualcosa di diverso che possono fare e se ci fossero incidenti ci rimetterebbero in prima persona. Come insegnante devi senz’altro essere bravo a gestire il gruppo. Sei tu da solo con più persone. Devi evitare conflitti e devi essere te stesso. Lì dentro io sono Marco, non lo chef. Per loro il rapporto umano che si crea è fondamentale. C’ho messo tanto a impararlo.

Una sfida in più per un insegnante?

Certamente. I rapporti che si creano hanno bisogno di un tempo più lungo per instaurarsi. Non è come un corso nella vita normale, per l’utente cosiddetto normale. Lì dentro avverti la frustrazione, il momento in cui arriva la lettera sbagliata, una notizia che ti cambia la vita come può essere una condanna di 8, 10 mesi, un anno, due anni in più. È un tempo della vita ‘in più’ che noi diamo per scontato perché siamo sempre all’aria aperta e andiamo dove vogliamo.

La cucina: dalla A alla Z?

Insegno tutto il percorso formativo per quanto riguarda la cucina, dalle basi in su. Si parte dalla pasta fatta in casa, dalla preparazione di tutti i piatti di pasta, i risotti, le minestre, le salse, e mano a mano che rimangono si va avanti e ci si specializza. Chi partecipa deve risultare pronto per affrontare un lavoro esterno, venendo esaminato da coloro che lo vedranno purtroppo come un ex detenuto. Dunque, devi essere sicuro di quello che fai perché parti svantaggiato rispetto a una persona che ha le tue stesse capacità. Prima devi superare quello scalino a livello psicologico, ma nello stesso tempo devi arrivare preparato. Si pretende dunque qualcosa, a differenza di un corso esterno che può interessare di meno, oppure di un corso a scuola in cui i ragazzi sono coinvolti ma anche no. Come insegnante non puoi prenderli in giro. Devi essere una persona che riesce a stare nel gruppo, senza far emergere conflitti, ma portando professionalità. Questo è fondamentale.

Qual è il livello massimo che si raggiunge?

Un conto è saper cucinare un piatto di pasta, un altro riuscire a fare un piatto completo, con gli accostamenti, capire ciò che fai, dosare gli equilibri. Se rimani impari a saperti gestire, a saperti presentare in un posto di lavoro e dire: dammi gli ingredienti e io riesco a portare una ricetta alla fine. Che tu debba preparare pasta, riso, gnocchi, vitello, manzo, pesce, devi saper entrare in una cucina ed essere a tuo agio. Non avere paura.

 

 

La cucina del carcere è equipaggiata?

Lavoriamo nella cucina dove cucinano per i detenuti, poi io ho portato l’attrezzatura della mia società, i forni, le cotture a vapore, la nuova concezione di cucina che i partecipanti troveranno quando escono. Vapore, sottovuoto, cotture a bassa temperatura, più sane e più buone, ciò che va di moda adesso.

I detenuti con le loro diverse provenienze geografiche portano anche le ricette che conoscono?

Assolutamente sì. Tu devi dare tanto spazio alla loro cultura. Nello stesso momento in cui loro sono obbligati a imparare le regole della nostra cucina, della cucina italiana che assieme a quella francese fa da base alla cultura gastronomica internazionale, è importante che nel 2020 o 2021 loro sappiamo valorizzare anche la loro tradizione. Non è che una tradizione diversa dalla nostra, come si pensava una volta, è sbagliata, al contrario arricchisce.

Che piatti propongono?

Ricette che magari non hanno un nome specifico, che rispecchiano le abitudini e anche l’economicità visto che i tanti detenuti non hanno a disposizione un grosso budget per gli acquisti personali in carcere. Ad esempio, l’Est cucina tanta carne e zuppe, l’Africa riso, pollo, gallina. Chiaro che se avessero la possibilità farebbero agnello, capretto. Tanti non hanno la possibilità di fare una spesa decente. Ecco l’importanza di saper cucinare con poco, di saper riconoscere gli ingredienti e utilizzarli al meglio: un valore aggiunto.

Il momento più bello per lei?

Momenti bellissimi dentro la casa circondariale ce ne sono stati molti. Vedere un ragazzo del Centro Africa che non ha mai mangiato gli gnocchi e riesce a preparare degli gnocchi di patate fatti a regola d’arte, o un risotto alla milanese, è bellissimo. È una soddisfazione quando ti abbracciano e ti dicono grazie. Grazie di avermi insegnato qualcosa di importante, di avermi fatto passare un periodo bello. Vedi che iniziano a riprendere un po’ di fiducia in se stessi. Noi siamo una goccia nel mare, ma grazie alla direttrice, al comandante delle guardie, si è creato un gruppo coeso, anche con il contributo dell’ufficio formazione professionale della Provincia di Bolzano che finanzia le attività.

Il carcere non è sempre muri vecchi e abbandono, gli operatori fanno un lavoro straordinario. La sfida successiva? Seguire chi esce e non ha casa

Il carcere non è sempre muri vecchi e abbandono?

Tutt’altro. L’opinione pubblica pensa che perché un muro è rotto il detenuto venga trattato male. Non è così. La struttura è quello che è, ma in quell’edificio riuscire a fare quello che facciamo è un grande risultato. Grazie alla squadra che si è creata, alla direttrice Nuzzaci che fa di tutto e anche di più, e alla dottoressa Pacher della Provincia.

C’è una storia personale che l’ha colpita in particolare?

Io non posso, come gli altri operatori, tenere contatti con loro o mantenerli dopo, per un’esigenza di tutela. Posso solo dire che tanti ragazzi giovani una volta che escono dal cancello sono sulla strada. Quello sarebbe importante, anche se difficile. Lo step successivo rispetto a quanto già si fa, ovvero riuscire a seguire chi non ha un approdo, una casa. Il problema grande è sempre quello: tu che esci dal cancello, hai capito che hai sbagliato, ed è un riscatto, oppure pensi che hai sbagliato ma non hai altra via e pensi che sia più facile rifarlo? Questa è la sfida.