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Una morte che fa vergogna

In “La paura ferisce come un coltello arrugginito” Scomazzon rielabora il lutto della madre ammalata di Aids.
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Foto: salto books/nottetempo

Delicatezza e tristezza. Sono questi i termini che utilizzerei se dovessi descrivere in due parole La paura ferisce come un coltello arrugginito, l’opera prima di Giulia Scomazzon edito da Nottetempo. Al centro del memoir la scrittrice vicentina pone la figura della madre, o meglio il ricordo della figura di Roberta morta di Aids nel 1995 quando Scomazzon aveva otto anni. In un continuo spostamento tra il piano privato e quello pubblico, si assiste alla fatica – talvolta impossibilità – di mettere insieme i frammenti di memoria che, come un puzzle, dovrebbero ricomporre la storia nella sua interezza. La difficoltà nel ricostruire il passato sembra duplice: da una parte c’è il tempo che tiranno rimuove le immagini dell’infanzia, dall’altra c’è lo stigma di una madre morta a causa di un’infezione conseguente all’utilizzo di eroina assunta per via iniettiva.

Se in una società, come quella italiana, che mette ancora al centro la famiglia tradizionale – come si è visto, non si sfugge alla stretta del termine “congiunto” – non avere la mamma è una mancanza complessa da gestire perché elimina un intero immaginario fatto di espressioni come “la mamma è sempre la mamma”, essere orfani di madre a causa dell’Aids rischia di portare con sé un carico di vergogna inesauribile. Sebbene ancora oggi sia una malattia che incorpora la paura del contagio (oramai nullo in presenza della giusta terapia), in passato l’Aids era sinonimo di condotta di vita inopportuna. Con una sigla si segnalavano – e condannavano – abitudini amorose e di consumo di stupefacenti e, di conseguenza, si attribuiva a chi assumeva questi comportamenti la cifra di persone di dubbia moralità. In questo repertorio fittizio che associa le dipendenze alla delinquenza, essere madre è a dir poco ossimorico, eppure negli anni Ottanta e Novanta l’eroina era una sostanza molto comune e senza confini di genere e di classe: “L’Aids è un modo strano di morire per una mamma che lavora in fabbrica e prepara dolci nei fine settimana. Qui ‘strano’ non sta per ‘bizzarro’ o per ‘statisticamente improbabile’, ma piuttosto per ‘straniante’. Da un punto di vista statistico, la morte per Aids di una giovane adulta veneta nella prima metà degli anni Novanta non ha nulla di intrinsecamente anomalo, dato che l’Aids all’epoca era la seconda causa di morte tra le donne trentenni della regione e la prima tra i coetanei maschi”.

Nel racconto della sua esperienza Scomazzon mostra una bravura non scontata: evita qualsiasi forma di vittimismo. La commozione che si prova leggendo il suo memoir è legata alla disponibilità dell’autrice di descrivere la malattia di Roberta, il rapporto con il padre e quello con la nonna tutrice. Questa generosità è una conseguenza del fatto che le pagine di La paura ferisce come un coltello arrugginito sono piene di domande: Scomazzon non sempre narra una storia, ma si interroga sulla sua storia. Da lettori si accompagna la scrittrice in un processo di rimembranze, rimozioni, ricostruzioni e da questa struttura fatta di equilibri emozionali talvolta molto precari si condivide tutto il peso del lutto materno nell’economia di una vita. Per alcuni versi si può dire che siano presenti due poli che tendono le fila della narrazione, perché se da una parte c’è il dolore personale, dall’altra c’è l’oggettività dei fatti. È difficile non rimanere colpiti dal vissuto di Scomazzon, ma il taglio della sua scrittura, il modo in cui riesce a rendere i lettori partecipi di avvenimenti che la coinvolgono in prima persona, la sua capacità di non mettere su carta un Io troppo ingombrante, permettono di amalgamare privato e pubblico, il dentro e il fuori. Senza protagonismo, né autocommiserazione, Scomazzon cerca di risaldare i ricordi spezzati di un’infanzia segnata dalla morte precoce della madre e, a distanza di quasi trent’anni, torna a fare i conti con un lutto che le fa ricoprire il ruolo di figlia sebbene orfana. Forse è proprio questo incastro tra presente e passato e dunque tra lo stato di donna di una Scomazzon che scrive e quello di bambina di una Scomazzon che ricorda a restituire un’amara delicatezza a La paura ferisce come un coltello arrugginito.

Da lettori si accompagna la scrittrice in un processo di rimembranze, rimozioni, ricostruzioni e da questa struttura fatta di equilibri emozionali talvolta molto precari si condivide tutto il peso del lutto materno nell’economia di una vita.

Scomazzon scrive: “Quello che posso e devo fare è cercare di vederla per com’è stata veramente: consumatrice di eroina, operaia, malata di Aids, madre amorevole. Nessuno, a parte me, può e vuole sforzarsi di tenere assieme le due metà di Roberta e forse è per questo, perché è spezzata a metà, che la sua immagine si è dissolta troppo in fretta per diventare una memoria utile a riempire il vuoto del mio lutto, del lutto di mio padre e di mio zio”. Con una penna asciutta e disposta a mostrare fragilità e lati oscuri, Giulia Scomazzon riesce a pieno nel suo intento di scrivere qualcosa su sua madre.