Gesellschaft | Salto Afternoon

Sexy Moon

Cinquant'anni fa l'impresa di Armstrong, Aldrin e Collins: l'uomo posò il piede sulla luna e forse toccò il vertice dei suoi sogni moderni.
L'impronta del piede di Armstrong
Foto: commons.wikimedia.org

I really believe that if the political leaders of the world could see their planet from a distance of, let's say 100,000 miles, their outlook would be fundamentally changed. The all-important border would be invisible, that noisy argument suddenly silenced” (Michael Collins)

Gli occhi che si alzano a guardare il cielo di notte sono due gocce nere, profonde e curiose come l'oceano. In esse l'universo si specchia, e la luna vi accede, seducente, come l'astro al quale porre domande fondamentali. Per riprendere un bel testo di Antonio Prete, che a sua volta ne commenta l'assidua presenza nell'opera del più selenico di tutti i poeti, Giacomo Leopardi, la luna è “insieme sfinge e compagna, porta dell’assoluta alterità e confidente, soglia della lontananza ed emblema di una prossimità cosmologica, figura di un domandare sul senso dell’esistenza e sull’enigma dell’universo”. Questo sia prima che dopo il 1969, anche se tra il prima e il dopo, appunto, interviene la cesura dello sbarco sulla luna, del quale si celebra in questi giorni il cinquantesimo anniversario.

 

Della storia che ha portato a compiere quel “piccolo passo per (un) uomo, ma un grande balzo per l'umanità” (Neil Armstrong) sappiamo quasi tutto e proprio a ridosso della ricorrenza sono usciti molti libri che ne illustrano i dettagli. Io mi sono affidato alla competente e puntuale guida di Piero Bianucci, del quale l'editore Giunti ha recentemente pubblicato il volume “Camminare sulla luna. Come ci siamo arrivati e come ci torneremo”. Da qui traggo il senso di un'impresa che fu, in effetti, strepitosa e del tutto degna di essere seguita, allora, con il fiato sospeso in ogni luogo della terra. Esistono aspetti contingenti, dei quali molto si è anche parlato, che collocano l'obiettivo della Nasa nel contesto storico della guerra fredda, quindi nella cornice del confronto per la supremazia spaziale delle due super-potenze di allora, gli Usa e l'Urss. Esiste ovviamente la dimensione più specificamente tecnica e scientifica, che pone questioni e sviluppi ancora attuali. Ma esistono anche motivazioni antropologiche, slegate dalla cronaca di quegli anni, come ha riassunto molto bene Primo Levi in un commento espresso a caldo: “Alla base di tutti i possibili motivi del viaggio nello spazio, si intravede un archetipo; sotto l'intrico del calcolo, sta forse oscura obbedienza a un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppo ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane, dopo l'ultima metamorfosi, a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su un territorio vasto quanto è possibile”.

 

Si potrebbe allora tentare di sintetizzare quanto accaduto come il picco di un'attrazione fatale per la modernità, manifestatasi in quella campata di anni che, a partire dalle osservazioni astronomiche di Galileo Galilei e poi, in modalità sempre più estese, dalla seconda rivoluzione industriale e dalla nascita del positivismo, evolve il progetto di concepire ogni ambito della vita come il piano inclinato di desideri illimitanti. Prova di forza e del limite, dunque, che poi genererà però un repentino rinculo (anche se non un vero e proprio crollo) di speranze, e il rattrappirsi della stessa idea di futuro (o l'evaporazione del futuro, una volta datane per acquisita la conquista, tema sul quale varrebbe la pena riflettere più a fondo). C'è un'immagine che illustra perfettamente il raggiungimento di questo picco e il suo successivo sfocamento. Durante la missione Apollo 8 – il primo vero viaggio interplanetario compiuto alla fine di dicembre del 1968 da Frank Borman, James Lovell e William Anders, che, fra gli altri, avevano il compito di fotografare per poi selezionare diversi siti di allunaggio – a un certo punto i tre astronauti vedono spuntare la Terra al di là del bordo della Luna. “Guardate che spettacolo!”, esclama Anders. Nel viaggio verso il futuro, che regalerà la contemplazione della “magnifica desolazione” (Michael Collins) di un'apparenza “grigia, senza colori, come una lavagna sbiancata da una cancellatura di gesso” o una “spiaggia sporca”, ecco che lo sguardo commosso dei tre rimbalza, forse già con una sfumatura di inconfessabile e post-moderna nostalgia, sul bellissimo pianeta dal quale proveniamo.

 

Se la luna esprime, ha sempre espresso questa attrazione per vastità alle quali l'uomo guarda per evadere dalla propria dimensione limitata, e se in fin dei conti tutte le attuali ricerche sembrano concentrarsi ancora sul tentativo di ritagliare uno spazio di vivibilità fuori dai confini dell'atmosfera terrestre (secondo le previsioni più ottimistiche, tra venti anni un equipaggio umano potrebbe volare verso Marte), oggi nessuna idea di futuro può liberarsi dall'agnizione malinconica che qualsiasi fuga in avanti sempre produce al termine del suo slancio: l'ipotesi di una vita oltre quella conosciuta sulla terra ha anche molto a che fare con la distruzione delle condizioni di permanenza della nostra specie nell'ambiente che ne ha costituito l'orizzonte di possibilità. Dopo aver romantizzato l'idea di futuro, nascondendo il sogno di ciò che volevamo trovare sotto la candida sottoveste della luna, la scoperta di questa nostra solitudine siderale, già sporcata di fango ghiacciato e di regolite, annuncia adesso una romantizzazione au contraire nel bisogno di salvare ciò che non potremmo comunque mai smettere di essere. L'immagine della terra vista dalla luna scattata da Apollo 8 ne richiama allora un'altra, quella nota come Pale Blue Dot, prodotta nella primavera del 1990 dalla navicella Voyager. Fotografava la terra da una distanza di sei miliardi di chilometri, ridotta perciò ad un quasi impercettibile puntino azzurro. Carl Sagan, che di quell'operazione documentale fu il regista, ha scritto: “Non c'è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l'uno dell'altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto”.

Apollo 11: The Complete Descent