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8 secondi

Il volume di Lisa Iotti, giornalista per “Presadiretta”, ha analizzato effetti e modalità della iperconnessione praticata da molte persone ormai, anche causa Covid
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Foto: il saggiatore

Chi non salta su immediatamente per prendere in mano lo smartphone e guardare subito chi ha scritto il messaggio, quando sente il “bip” stabilito come suono di arrivo per le comunicazioni online? Quanto è un semplice riflesso e quanto invece un segno di dipendenza questo atteggiamento che ormai segna, se non persino determina, il fluire delle nostre giornate in ogni genere di quotidianità che stiamo vivendo, che sia di lavoro, di svago o – per alcuni – persino di notte? Lisa Iotti, giornalista e autrice di docu-fiction per RaiTre e Sky, nonché collaboratrice come inviata del programma televisivo di inchiesta “Presa-diretta”, ha trasformato il suo contributo per la puntata “Iperconnessi” in un volume molto interessante intitolato curiosamente “8 secondi”. Perché sono esattamente otto secondi, scrive a un certo punto, che ognuno di noi permane su una pagina internet o qualsiasi altro dispositivo elettronico. Per qualche secondo in più non c’è tempo in un’era in cui la nostra vita è scandita dal tempo digitale iperveloce. Non c’è più tempo per parlare, parlarsi, sedersi, leggere, vivere (vien da dire), in quanto siamo tutti diventati schiavi di un dispositivo che come un despota ci comanda: lo smartphone. L’autrice se n’è accorta soprattutto quando si era recata a un ritiro yoga in cui avrebbe dovuto fare a meno del suo prezioso smartphone. Lei – per motivi di lavoro, scrive – lo aveva fatto comunque entrare di sotterfugio, volendo davvero farne un uso soltanto per quello scopo o per motivi urgenti di famiglia, ma poi, accortasi che già la prima sera durante la cena le erano venute a mancare le centinaia di brevi conversazioni con persone amiche e non, si era resa conto che c’era qualcosa che non andava… E ha deciso di andare alla ricerca di fonti autorevoli per scoprire cosa c’è dietro a questo nostro essere comandati da un oggetto che si fa quasi s/oggetto richiamando tanta attenzione in ognuno e ognuna di noi. 

 

Ha incontrato tanti esperti e ricercatori viaggiando in lungo e in largo sul pianeta, per raccogliere molte davvero interessanti e a volte persino imbarazzanti informazioni, quando – causa Covid – il libro si era dovuto fermare. Ossia la sua andata in stampa, un fatto di cui Lisa Iotti era quasi contenta a quel punto perché “uscire con più di duecento pagine di critica a smartphone e pc nel preciso momento storico in cui tutti – causa lockdown – sopravvivono in pratica grazie a smartphone e pc, sarebbe stata una bizzarra scelta di marketing”, ha scritto infatti nella breve introduzione dal titolo “Post-Covid”. Le sembrava “un capzioso esercizio di stile” discorrere sugli effetti della iperconnessione e della lettura di caratteri elettronici sul nostro cervello (quando oggi, un anno e mezzo dopo, si sa che gli effetti sono parzialmente disastrosi soprattutto su molti giovani tra i 14 e i 20 anni, essendo proprio loro i maggiormente colpiti dalla pandemia a colpi di iperconnessione dato che le lezioni nelle scuole superiori si erano svolte per lo più online; e secondo uno psichiatra che lavora nel reparto di psichiatria giovanile nell’ospedale di Ravenna il rapporto annuale riguardo ai giovani con disagi psichici farà un notevole balzo in avanti nel 2020/21 perché chi già aveva problemi con la propria corporeità prima (niente di più facile nell’età adolescenziale), dopo essersi ritrovato sempre in formato online e quindi nel mondo virtuale dicasi “immateriale” e cioè “non corporeo” soffre maggiormente nei momenti in cui ha dovuto, deve o dovrà tornare alla dimensione concreta della vita, mostrando (anche il proprio corpo che spesso viene vissuto come un qualcosa di troppo o di estraneo dopo aver vissato ore e ore unicamente nel cervello proprio e in quello degli altri) tornando a scuola in presenza, ad esempio. Viene in mente ancora una volta il bellissimo volume del filosofo francese Jean Baudrillard, “L’altro da sé”, in cui descrive le difficoltà già nella vita cosiddetta normale a “incontrare” l’altro, un corpo che incontra un altro corpo, per scoprire quell’ “essere altro da sé”…
Di fatto il libro “8 secondi” è poi uscito nel dicembre 2020, passando purtroppo un po’ in sordina, quando invece merita una grande attenzione. I vari risultati delle ricerche schiaffati in faccia al lettore sono perturbanti a volte. Ad esempio: lo sapevate che leggere un testo a mo’ di scrolling sul monitor è come leggere su un foglio di carta saltellando in continuazione perché stressa non soltanto il nervo ottico ma anche l’intero cervello a dei livelli stratosferici? E che l’attitudine compulsiva di andare a controllare il numero di like ricevuti per un post su Facebook assomiglia alla stessa per cui un drogato va alla ricerca della dose quotidiana di eroina o di qualche altra cosa?


Ma oltre a questi dati che forse sono i più noti, l’autrice si interroga anche – e interroga i rispettivi esperti o le rispettive esperte (molte sono le donne che fanno ricerche in questo campo) – quanto sapere rimane nella nostra mente e nella nostra memoria di tutte quelle informazioni che ingoiamo a mo’ di fast food giorno per giorno, ora per ora, se non minuto per minuto… Pochissimo, purtroppo, in quanto le si potrebbe paragonare a quella “marmellata di segni” di cui parla(va) Umberto Eco nei suoi libri di semiotica, perché non approfondire nulla equivale a farsi una visione molto superficiale dove ogni dato è pari a quello successivo, senza alcuna distinzione e tanto meno elaborazione critica, e il cervello non riesce a trattenere (quasi) nulla, tranne i tantissimi stimoli nervosi. Motivo per cui si diventa sempre più nervosi, sempre più aggressivi, e non sapendone l’origine, bisogna andare (spesso quasi per forza…) alla ricerca di un capro espiatorio che poi mediamente è la prima persona che incontriamo: l’autista che ci taglia la strada (o noi lo percepiamo come tale), un interlocutore che non condivide la nostra opinione, o alla peggio in serata i propri familiari, con cui risulta (forse) più facile scaricare il barile di nervosità accumulata nel giro di una giornata a suon di urla, schiaffi e/o altre violenze comprese…


“Ormai sono diventata una specie di esperta dell’ossessione da smartphone”, – leggiamo in quarta di copertina del volume, le cui immagini grafiche sono cellulari che emettono una luce gialla che cattura l’attenzione delle figure umane che li tengono in mano – ,“le riconosco, quelle persone, quando cercano qualcosa nella borsetta o nella tasca della giacca e fanno scivolare il pollice sullo schermo per assicurarsi la loro dose di dopamina. Lo so, perché lo faccio anche io, sempre.”
A pagina 221 leggiamo: “Passiamo la maggior parte del nostro tempo dietro a degli schermi, convinti di tessere relazioni, e ci dimentichiamo che le parole non sono solo successioni di lettere, ma azioni: schermo viene dal germanico skirm, ‘scudo, protezione’. Viviamo riparati – schermati – dietro i nostri carapaci argentati, in un gigantesco fast food sociale, e neanche ci rendiamo conto.”

 

Lisa Iotti procede in modo dinamico nel suo excursus denunciando inoltre che coloro che hanno inventato questa dipendenza e gli algoritmi che la regolano a ritmo sfrenato sono gli stessi che vietano ai loro figli l’uso di dispositivi elettronici, a partire da Bill Gates fino a tutti i grandi progettisti e manager della Silicon Valley passando anche per Steve Jobs, l’inventore della famiglia Apple. E lo fa senza diventare però un’apostola contraria, anzi, lei descrive con grande auto-ironia i momenti in cui lei stessa si è esposta ad esercizi e sperimentazioni condotti dai diversi ricercatori interpellati, perché a sua volta è “sempre prevenuta verso quegli apostoli del cambiamento che arringano contro smartphone e social per poi confessare di non aver mai usato altro che un vecchio Nokia e di non aver mai visto una story di Instagram”. Come dire: come si fa a parlare di analisi di un fenomeno, quando quello stesso fenomeno non lo si conosce? Certo, nell’usare i social, le nuove modalità di comunicazione online, come Zoom, Teams o quant’altro, va sempre tenuto conto del loro “uso”, per l’appunto, in quanto non possiamo accusare un semplice mezzo di dominarci, quando di fatto dovremmo essere noi coloro che lo domina!

E cito. parafrasando ancora una volta alcune parole di Umberto Eco, quello che lui parecchi anni fa disse e scrisse a proposito della televisione, un altro mezzo tecnologico che era stato per tanto tempo additato come distruttore della vita familiare nonché del sapere perché troppo volgarizzante e dominatore: il televisore è un elettrodomestico e come tale va usato, il resto è fuffa…