Gesellschaft | Da Bari alla Pusteria

Quando Monguelfo accolse gli albanesi

25 anni fa lo sbarco della nave “Vlora”. Quello stesso anno il comune pusterese ospitò duecento profughi dall'Albania (che trovarono lavoro). Un esempio per Laives?

Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”: chissà se queste parole di John Fitzgerald Kennedy risuonarono beffarde nella mente del sindaco di Bari Enrico Dalfino quando, in un agosto decisamente più caldo che quest'anno, si ritrovò ad affrontare il primo grande sbarco di migranti nella storia repubblicana italiana. Ventimila cittadini albanesi – grazie alla sola forza del passaparola, e senza curarsi in alcun modo dei rischi – assalirono una barca ormeggiata nel porto di Durazzo e salparono alla volta di Brindisi con il miraggio di un'altra vita in Italia; le autorità italiane li dirottarono però verso Bari, dove la nave Vlora (dal nome della città di Valona) attraccò la mattina dell'8 agosto 1991. Anche il ballerino Kledi Kadiu, reso celebre dai programmi televisivi di Maria De Filippi, era a bordo della Vlora. Kledi lo racconta, assieme ad altri compagni di viaggio, nel bellissimo documentario La nave dolce di Daniele Vicari, vincitore del premio della critica al Festival del Cinema di Venezia nel 2012: “Solo a pensarci ho ancora sete, finii per bere acqua salata e andai fuori di testa perché la sete aumentò”. I naviganti salutavano festanti gli elicotteri, inneggiando all'Italia, ma l'euforia collettiva sulla nave lasciò spazio alla folla inferocita sul molo, scatenata dalla prolungata segregazione. La decisione del governo di stipare i profughi nel fatiscente Stadio della Vittoria – il San Nicola di Bari era stato da poco inaugurato per i mondiali di Italia '90 – fu contestata dal sindaco Dalfino, che riteneva fosse meglio allestire un campo della protezione civile sulla banchina del porto. Come ricorda lo scrittore Alessandro Leogrande in un recente editoriale sul Corriere del Mezzogiorno, l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga attaccò in conferenza stampa a Bari il primo cittadino democristiano: “Non ringrazio il comune di Bari, né tanto meno ringrazio il sindaco le cui dichiarazioni sono semplicemente da irresponsabile. Mi dispiace che questa città, così generosa, abbia un siffatto sindaco. Mi auguro che abbia la decenza di chiedere scusa alle autorità di governo, se no sarà mia cura chiedere al governo la sua sospensione”. Dalfino rispose a tono al presidente picconatore: “Esprimere diversi punti di vista mi pare non sia vietato, un sindaco non è un sepolcro imbiancato”.

“La vicenda dello sbarco a Bari fu molto complicata” racconta la poetessa e scrittrice bolzanina Gentiana Minga, vicedirettrice di Enmigrinta e blogger di salto.bz. “Ho il ricordo nostalgico di un'amica. Frequentava l'università, ma un paio di giorni prima della fuga mi avvisò della sua decisione di partire. Non volevo crederci, tanto che il pomeriggio del fatidico giorno, andai a chiamarla da sotto il balcone di casa. Da noi si usava così, non dava fastidio a nessuno. Uscì sua mamma, mi fece capire che lei se ne era andata, era sulla nave. Giorni dopo avremmo saputo dalla tv italiana com'era andata. La mia amica mi raccontò la sua storia incredibile, di come fosse riuscita a salire sulla nave arrampicandosi su una corda, di come aveva visto mamme con bambini arrampicarsi come lei, e di chi non ce la fece. E raccontò dello stadio di Bari, lasciati senza acqua, senza pane, senza niente, con una banda di criminali che gestiva tutto. Il cibo veniva gettato dagli elicotteri e la microcriminalità pretendeva ogni pezzo di pane in cambio di favori. La mia amica si salvò grazie alla buona conoscenza della lingua italiana. Per caso conobbe una giornalista che voleva intervistare le persone lì dentro. Si offrì come traduttrice, e diventarono grandi amiche”. Il desiderio di fuggire, Gentiana Minga lo sentì solo nel 1997. “Diedi le dimissioni alla scuola media di Durazzo, dove insegnavo, e preparai vestiti e documenti. La nave era mercantile, mio padre ne era il capitano. Avvicinandosi alle acque territoriali italiane, dovetti nascondermi dentro l'armadietto nella sua stanza e rimasi là dentro, al buio, finché mio padre avvisò che oramai la guardia costiera non c'era più... La strada era libera. Sbarcammo a Gallipoli, mi infilai in macchina, sentendomi libera e triste. Per la prima volta percepii la tristezza del fuggitivo in cerca della libertà”.

Nell'agosto 1991 ci fu la seconda ondata migratoria albanese – spiega Armand Caku dell'associazione Arbëria – L'Italia decise (ministro degli esteri italiano era il socialista Gianni De Michelis) di mettere un limite e riportare indietro tutti i 20mila profughi della Vlora, perlopiù in aereo: tranne qualche centinaio, fuggito tra uno spostamento e l'altro dal porto allo stadio di Bari, il 99% fece ritorno in Albania. Lì non c'era un governo che controllasse il paese, l'informazione era limitata e controllata, fu un periodo di grande instabilità. Io facevo il servizio militare vicino al confine con la Grecia, altrimenti sarei salito pure io. Quando si seppe come andarono le cose, pensai mi fosse andata bene. Un mio conoscente riuscì a scappare, aiutato da un amico all'esterno dello stadio, dopo un paio d'anni in Italia ottenne i documenti. Fu un'esperienza terribile, le persone prelevate con i bus cercavano di scappare, il cibo gettato dall'elicottero all'interno del campo: un miracolo che non sia scappato il morto. Quando si aprì la possibilità di uscire, solo chi non aveva nulla da perdere ebbe il coraggio di partire: i giovani, l'età del “me ne vado e basta”, e chi aveva una certa età. Mediamente, gli emigrati del 1991 avevano un basso livello di scolarizzazione e una ridotta aspettativa di vita, si aspettavano chissà cosa e se toccava loro lavorare in agricoltura o da lavapiatti, magari tornavano indietro. Si scappava clandestinamente, con documenti falsi, imbarcandosi sui cosiddetti “barconi”. Però io sono venuto in Italia tra l'agosto e il settembre 1992, non faccio parte degli arrivi massicci con i barconi. Arrivai con documenti falsi dalla Grecia, dove lavoravo da qualche mese, a bordo di un traghetto gremito di tremila turisti. Dopo alcuni mesi in giro per l'Italia, giunsi quasi subito in Alto Adige”.

Monguelfo, la Vlora sudtirolese

L'inasprimento delle politiche migratorie avvenne però solo a partire dal marzo 1991. I primissimi profughi albanesi entrarono invece muniti di visti temporanei d'espatrio, e furono distribuiti in tutta l'Italia “assegnati” alle varie regioni. L'Alto Adige fece la sua parte, mettendo a disposizione la caserma “Cesare Battisti” di Welsberg/Monguelfo in Val Pusteria, tra 1991 e 1992 ricovero temporaneo per circa duecento cittadini albanesi. Fu la prima volta che il Sudtirolo si confrontò con il tema dell'immigrazione. La caserma – allora già dismessa, oggi demolita – si trovava poco fuori l'abitato, in direzione San Candido. Era un complesso molto ampio, benché inadeguato a ospitare una tale massa di persone.

“Arrivato lì facevi i documenti”, sottolinea Caku, “dopodiché eri libero di uscire dal campo e cercare lavoro o un'altra sistemazione. A quei tempi trovare lavoro in Alto Adige non era un problema: nel giro di pochi mesi, massimo un anno, quasi tutti si sistemarono, molti a Bolzano, una buona parte anche nei dintorni, si pensi alla forte comunità albanese a Brunico. Tritan Myftiu è stato tra i primi a uscire dal campo, in meno di un mese trovò lavoro. I primi albanesi in Sudtirolo rappresentarono una base che diede una mano a chi arrivò dopo. Ma ci fu anche chi tornò a casa: tra i primi arrivati, la percentuale di rientro è abbastanza alta, tra il 20% e il 30%. Qualcuno magari s'aspettava chissà cosa, e salì sulle navi in maniera del tutto istintiva: vedo navi che partono e ci salgo sopra anch'io”.

Alessandro Urzì, oggi consigliere provinciale di Alto Adige nel cuore, a quei tempi lavorava come giornalista alla tv locale Video Bolzano 33 e seguì in prima persona il “caso” Monguelfo. “Ho un ricordo molto vivo di grande commozione, e ancora oggi sono provato dalle storie personali che si raccoglievano allora. Fu la prima ondata migratoria albanese in Italia, in massima parte costituita da persone fuggite – nel pieno della fase di transizione rivoluzionaria per la liberazione dell'Albania – dal rischio di persecuzioni del regime comunista in dissolvimento. Un'ondata umanitaria fatta da uomini che avevano partecipato ai movimenti di restaurazione della democrazia, ma anche da nuclei familiari che cercavano la possibilità di un riscatto in Italia, oltre a ricongiungersi tra loro. Ricordo lo straordinario moto di solidarietà che si innescò a livello provinciale e comunale, dopo l'iniziale diffidenza, come lo sforzo della Croce Rossa che mise in piedi un centro di smistamento di indumenti, e l'impegno di Tritan Myftiu. Il Commissariato del governo collaborò con gli enti locali, e il Comune fu pronto nell'affrontare questo tipo di emergenza. Il sindaco di Monguelfo Josef Pahl (fratello dell'ex-consigliere regionale della SVP Franz Pahl, ndr) si spese moltissimo per superare la diffidenza, nell'unico comune altoatesino scelto per ospitare i profughi. Erano catapultati in un mondo mai visto, il comunismo albanese era integrale e impenetrabile, le aspettative verso l'Italia enormi. E arrivando in treno dalla Puglia avevano il terrore di essere riportati via terra in Albania attraverso la rotta balcanica. Ricordo i profughi accalcati nei vagoni a Fortezza, e un cordone di polizia tutt'attorno. Un agente della questura bolzanina era calabrese arbëreshë, per farsi comprendere parlava un albanese medievale. Le condizioni della caserma erano precarie, furono allestite grandi camerate, stanzoni in cui si cercava di mantenere la privacy tra diversi ricongiungimenti familiari, mense interne. Fu offerta l'opportunità di uscire dalla caserma, nessuno venne recluso, bensì “smistato” sul territorio, e la solidarietà di tantissimi si tradusse in posti di lavoro, vitto e alloggio. Forte fu la richiesta affinché i profughi non restassero concentrati a Monguelfo, ma fossero assorbiti dal territorio. Molti rimasero a Monguelfo e in Pusteria, altri a Bolzano”.

Il sindaco di Monguelfo si spese moltissimo per superare la diffidenza

E Laives?

Secondo il consigliere del centrodestra altoatesino “allora non c'erano le criticità che stiamo vivendo oggi, il fenomeno della migrazione non era un fenomeno diffuso. Oggi i numeri sono spaventosi e fuori controllo, ci sono sbarchi quotidiani di persone da ogni parte del mondo, e così aumenta la percezione d'insicurezza e le paure, sentimenti spontanei non accompagnati dalla ragione. La risposta delle istituzioni non è adeguata a garantire l'integrazione sociale: l'immigrazione va gestita, il primo a pagarne il prezzo è chi ha retroterra migratorio, non più estraneo e oramai parte integrante della società. La sinistra di governo, invece, coltiva tutto quel ribollio di ansie e preoccupazioni che nascono dal basso. La polemica più recente, giustamente accesa come riflessione dal sindaco di Laives Christian Bianchi, riguarda la mancanza di una strategia nazionale e provinciale. I Comuni non hanno certezze: se lo Stato o la Provincia mandano un contingente di profughi, servono atti conseguenti. Due migranti per ogni comune sarebbe, ad esempio, una soluzione nel loro stesso interesse – come delle comunità che li accolgono. La regola è non concentrare ed evitare focolai d'infezione sociale da chi s'abitua all'inattività. Monguelfo non è rimasta dieci anni ferma come un monumento”. Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese: a questo punto, se lo domanderà pure Christian Bianchi?