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Educazione alla sconfitta

Ovvero come declinare la parola "Heimat" in italiano.
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Si tratta di un libro molto bello. Anche se per ora, per motivi che spiegherò un po’ più avanti, non posso rivelarne l’autore, il titolo o la casa editrice. Chi l’ha scritto ci conduce, con la leggerezza dei grandi romanzieri, a vedere la terra dalla doppia denominazione: Alto Adige-Südtirol con gli occhi del personaggio principale, che in questa terra – che però non gli apparterrà mai veramente, dato che il protagonista è di lingua italiana e la sua esistenza in questo lembo d’Italia, perché politicamente siamo in Italia, è dovuta a un irriducibile sopruso storico – in questa terra insomma è nato nei primi anni del secondo dopoguerra. Se il protagonista la volesse chiamare «Heimat», sarebbe anche questo un abuso perché la stessa lingua, come la terra, non gli appartiene.  

I genitori erano arrivati in Alto Adige, come tanti altri italiani nel periodo a ridosso della guerra, sull’onda della Storia, quella con la esse maiuscola, ma questo libro sembra non occuparsene, e restituisce invece la visione di un universo fatto di poche vie cittadine, la chiesa parrocchiale e il percorso quotidiano per raggiungere la scuola del nostro piccolo protagonista, cresciuto in un quartiere prevalentemente italiano del capoluogo.

E anche il lettore mastica via via parole in una lingua nuova assieme al nostro scolaro che impara presto a chiamare anche «Milch» il latte, quello che negli anni Cinquanta si andava a comprare ancora portando la bottiglia da casa, e pare di vedere, leggendo le pagine del libro in cui rivive l’infanzia del protagonista, il gesto della lattaia che immergeva il grosso mestolo con le tacche nel contenitore d’alluminio per travasare il liquido bianco nella bottiglia. I giochi invece non avevano nome, si giocavano e basta in cortile o per strada, e per strada c’erano ancora tanti cani e gatti randagi da raccogliere, rifocillare e poi lasciare andare, perché mica si potevano tenere tutti.

I conflitti, quelli grossi e importanti che la Storia, sempre con la esse maiuscola, scarica addosso alle persone, che tenaci invece tessono la tela dei loro giorni, le loro piccole storie, fatte di gesti quotidiani, di fatiche, di incontri e di scoperte, quelli non avevano posto nelle giornate del personaggio di questo libro.

Il tedesco, la lingua e le tradizioni che assimila vivendo a Bolzano, che più tardi impara a chiamare anche Bozen, sono solo una scoperta in più per il piccolo protagonista, diventano un ulteriore tassello della sua identità, irrinunciabili come il profumo dei biscotti al burro che nel periodo dell’Avvento invade la casa dell’amica d’infanzia col cognome tedesco, o l’albero di Natale addobbato accanto al presepio, o anche l’abitudine ai sentieri in montagna, se è per quello.

Con lo stesso valore dei viaggi intrapresi ritualmente, più volte all’anno, insieme alla sua famiglia, per andare a trovare i parenti nel paese d’origine dei suoi genitori. Là era la campagna, l’orizzonte piatto, i filari di vite che delimitavano i singoli campi, il respiro della pianura ad avvolgerlo e conquistarlo. Ma anche la parlata dialettale dei cugini, i cibi e il vino novello, che metteva allegria quando scendevano per le festività di Ognissanti, a incuriosirlo e che, come le pietre antiche, le aggraziate proporzioni architettoniche della cittadina tipicamente italiana dove erano nati i suoi genitori, andavano a costruire, insieme alla sonnolenza vischiosa di certi pomeriggi estivi, quest’altra sua identità.

Il bilinguismo, la doppia identità, da spiegare ogni volta a chi in Italia confonde l’Alto Adige con il Trentino, forse perché le lezioni di storia troppo spesso si sono fermate all’Irredentismo, e un secolo intero, quello in cui capita di vivere al protagonista, viene ignorato, sono acquisizioni lente e finiscono per permeare l’esistenza del personaggio e così anche il racconto. La Storia vi si insinua infine alla maniera che ci si aspetta in un grande romanzo, riconducendola alle piccole cose, all’esperienza dei singoli personaggi.

La Storia si riappropria così degli individui che compaiono in questo racconto, ne determina la psicologia oltre che la biografia, insieme al vano errare, negli anni a venire, del protagonista alla ricerca di una traduzione per quel tassello mancante, per quella parola ambita: «Heimat».

Le peregrinazioni, o evoluzioni, successive del protagonista di questo libro, nell’Europa unita che va a formarsi con la colonna sonora comune della musica rock in sottofondo, nei decenni che seguono all’esperienza fondamentale dell’infanzia nel microcosmo bolzanino, paiono in conclusione un’educazione alla sconfitta, a una mancanza incolmabile. A qualcosa che forse solo un’altra singolare parola, rubata anch’essa al lessico di quell’altra lingua imparata a scuola fin dalla seconda elementare, riesce a evocare. Ecco, l’esistenza del nostro personaggio, accompagnata da quel senso di estraneità che il protagonista del libro non riuscirà mai a scrollarsi di dosso, si risolve in un avvicinarsi a comprendere, a vivere quel «Sehnsucht» tedesco, come uno struggimento, profondo e irriducibile al pari di un numero primo.

È in fondo come camminare su un ponte che non esiste. Perché l’Alto Adige-Südtirol non è un ponte, checché se ne dica, ma una terra con una storia radicata e una più recente, discussa all’infinito, ma non ancora risolta.

Di questo, di tutto questo tratta questo libro, o meglio tratterebbe.

Il condizionale si fa d’obbligo, perché il fulcro e il motivo di questo testo anomalo, scritto per Il Cristallo, che ha solo le vesti di una recensione, ed è invece un’utopia, è che il libro di cui vorrebbe parlare, il romanzo in questione non è ancora stato scritto. Nella pur vivace produzione letteraria, anche italiana, locale, un romanzo epico sulla nostra storia ancora manca. Di qui l’impossibilità di citarne l’autore o l’editore. Forse un titolo si potrebbe trovare, volendo. La voglia sì, la necessità di scriverlo, avendo parlato con diversi autori altoatesini di lingua italiana, è certa, posso assicurarlo.

Se è vero che la letteratura crea appartenenza, cosa che io credo, allora se esistesse un vero romanzo italiano sulla nostra breve memoria di questa terra, potremmo forse, noi italiani della prima generazione, in questa terra sentirci davvero un po’ a casa. Qui e altrove.

[da IL CRISTALLO LV/LVII - OTTOBRE 2014]  

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Lucia Munaro Mi., 25.02.2015 - 19:50

Antwort auf von Stefano

In Italienisch sagt und schreibt man "Storia con la s maiuscola", um den allgemeinen Begriff von den "storie quotidiane dei singoli individui" zu unterscheiden. Man verwendet den Ausdruck, um von den großen historischen Erreignissen zu sprechen. Darüber habe ich diesen schönen Satz gefunden: "le cose importanti che succedono nel mondo, come le onde di un sasso gettato in un lago, arrivano poco a poco anche nella vita delle persone comuni"

Mi., 25.02.2015 - 19:50 Permalink