Kultur | Filosofia

Bellezza e dolore

"Il dolore è una di quelle chiavi che servono ad aprire non solo i segreti dell'animo ma il mondo stesso" (E. Jünger). Riflessioni sul significato del dolore.

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Angel of Grief
Foto: blogspot.com

“Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei” scrisse Ernst Jünger.

Abbello, vorrei dire io, possiamo anche saltare la parte del dolore per capire chi siamo.

O forse no. Gli dò una chance e gli regalo il mio tempo, a questo Jünger, per due semplici motivi. Il primo: ultimamente sto soffrendo in modo particolarmente intenso. Il secondo: nei suoi libri ha predetto la catastrofica distruzione del nostro pianeta e della nostra umanità da cui è possibile salvarsi solo attraverso il dolore. Il richiamo a questo quadro storico di pandemia globale e agli infiniti problemi ambientali è piuttosto evidente. Mi chiedo cosa sia questo dolore così salvifico, così fruttuoso per noi stessi e per la nostra evoluzione. Penso a Nietzsche. Il pazzo, l’incomprensibile Nietzsche. Chi altro, se non lui, può essermi d’aiuto? Andiamo con ordine.

Nel suo libro più famoso La Nascita della Tragedia, ci sono due tipi di uomini: l’uno razionale, logico, pratico. L’altro intuitivo, emozionale.

Il primo guarda la realtà come un artista, come un esteta. Sono le poesie di D’Annunzio, e i libri di Oscar Wilde. Sono le forme di Dalì, i colori di Mirò, le linee di Mondrian. È il salto di Nureyev e il tiro da tre di Luca Dončić. È la formula della relatività. È armonia, è misura. È calibro di parole, di bianchi e neri, di buoni e cattivi. La realtà è bella, è acqua cristallina che puoi bere con le mani a coppa e non stancartene mai. È il calore della persona che amiamo, la sicurezza della nostra famiglia, la routine del nostro vivere, il nostro piatto preferito. La nostra mente è allenata a ricordare quello che vogliamo perché dimenticare significa dover ogni volta ricreare, costruire qualcosa, ed è faticoso, è doloroso. Nella praticità del nostro vivere, i cambiamenti non sono ben voluti. La bellezza è stabile, e l’esteta ha un solo fine: liberarsi dal dolore con tutto sé stesso. La musica, oh, quale ottimo e ancestrale rimedio alla solitudine. L’amicizia, ottima cura per ogni pianto. Il viaggiare, ottima soluzione per la noia. Non si vuole la verità: si vuole la bellezza, la voglia di ridere, di correre, di combattere. Si cerca una spiegazione al dolore (La religione cattolica, ad esempio, spiega il dolore dicendo che l’uomo è colpevole da quando Eva mangiò la mela). 

L’altro uomo è quello intuitivo. La sua realtà è teoretica, lavora per immagini, per astrazioni, per metafore. È la curiosità di un bambino che osserva l’arcobaleno e si chiede se c’è un tesoro alla fine, è la morte di Mufasa, è la pelle contro pelle, e il capriccio di un incidente che può cambiarti la vita. È la capacità di piangere ascoltando Wagner e di sentirsi persi leggendo Schopenhauer. È qualcosa che “suscita pietà e terrore” diceva Aristotele. E’ quel continuo non accontentarsi, non accettarsi, non smettere di sentirsi inquieti. E’ la passione, il rapimento estetico, è dolore. E l’uomo intuitivo soffre. Ah se soffre. Soffre violentemente. Piange la propria vita, piange la propria morte. I singhiozzi scuotono il suo petto al pensiero della sua vulnerabilità. Si sente spaventato, e deluso. Molto deluso. Si chiede che senso abbia questa vita consumista, questo lavorare per comprare un’acqua imbottigliata e non fresca di fonte. E vive fino in fondo questo mondo imperfetto, scendendo almeno un milione di scale nel buio più profondo del suo dolore, della sua inquietudine, senza chiedersi il perché del suo dolore, ma accettandolo e rifiutando la bellezza. Direi per colazione pane e depressione insomma. 

Il punto è che la vita non è altro che un equilibrio tra i due uomini, tra bellezza e dolore, tra la sicurezza delle proprie abitudini e lo stravolgimento di un abbandono. Colui che sa gustare la vita, il sapiente (sapio in latino significa gusto) è colui che sa far risuonare tutta la vita, con le sfumature dell’estetica e le influenze dell’intuizione. Ecco qui. In questa definizione di vita trovo la spiegazione del valore del dolore: un dolore critico, un dolore che sradica il nostro pensiero stabile. Un dolore che chiede di non accontentarsi, di non fermarsi all’acqua cristallina, ma di interrogarsi più a fondo, di essere più curiosi, più affamati.

Forse questa “ermeneutica del dolore” è necessaria, per me, per te che leggi, e per tutta la società che, secondo Jünger, è critica verso sé stessa solo abbracciando il dolore.