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“I miei 11 mesi fuori dall’Alto Adige”

Da Frangarto a Tokyo, ritratto di un giovane studente appassionato del Giappone, pronto a cercare fortuna all’estero. “Voglio conoscere tutto quello che mi fa crescere”.
Simone Cidoni
Foto: Simone Cidoni

Non chiamatelo “cervello in fuga”. Simone Cidoni, 18 anni, lo dice chiaramente: “Me ne voglio andare dall’Italia semplicemente perché qui ho passato un quarto della mia vita e mi sembra uno spreco non andare a vedere cosa c’è là fuori”. Studente all’ultimo anno del liceo in lingua tedesca di scienze applicate di via Fago a Bolzano, Simone ha trascorso 11 mesi a Tokyo e con il Giappone è stato subito colpo di fulmine. Nel Sol levante ha frequentato l’intero anno scolastico 2018-2019, la quarta superiore, grazie al progetto Intercultura che offre appunto la possibilità ai ragazzi fra i 15 e i 17 anni di fare un’esperienza di studio all’estero. Una variopinta palestra culturale che scopre nuovi orizzonti formicolanti di occasioni. E per il giovane altoatesino, ormai già avvezzo a pensare in termini “globali”, vale il vecchio detto “sky is the limit”.  

 

salto.bz: Cidoni, quando è atterrato in Giappone, dall’altra parte del mondo, qual è stato il primo impatto con un paese così diverso da quello in cui è nato e vissuto finora?

Simone Cidoni: Non era la mia prima volta in Giappone, avevo già trascorso un paio di settimane di vacanza nel Paese e in più avevamo ospitato in famiglia un ragazzo giapponese anni fa, insomma diciamo che non partivo proprio da zero. Conoscevo la scuola tipica giapponese, che a differenza della nostra include diversi indirizzi, nella mia ad esempio c’erano sia quello scientifico, sia il linguistico sia l’economico. A scuola è richiesta l’uniforme e anche una grande formalità con i professori anche se nel mio istituto, la Waseda High school, ho trovato un ambiente molto più aperto e meno affettato. E poi anche mia madre ai suoi tempi, nell’85, aveva trascorso un anno all’estero con Intercultura, alle Hawaii, quindi sapevo a grandi linee cosa mi aspettava.

Ed è stato in effetti come se lo aspettava?

Anche meglio. A colpirmi è stato prima di tutto l’ordine. Tokyo è una città caotica ma i giapponesi appaiono sempre calmi e organizzati, nonché molto rispettosi. Credo che l’alto tassi di suicidi nel Paese sia dovuto proprio alla grande mole di stress a cui si sottopongono, i giapponesi hanno questa tendenza a non dare mai la colpa a nessuno, anzi si prendono quella degli altri, se sbaglia il gruppo è il singolo che se ne assume la responsabilità. 

E con la lingua com’è andata?

Mi ci sono subito appassionato, il giapponese ha migliaia di ideogrammi e tre diversi tipi di alfabeti: hiragana, katakana e kanji. Le materie a scuola erano naturalmente tutte in lingua quindi ho dovuto imparare in fretta.

 

 

 

Momenti di sconforto ce ne sono stati?

Devo dire che ero molto preso dalla quotidianità, ho quasi alzato un muro con gli amici italiani, con i miei genitori che all’inizio sentivo appena una volta al mese. Il motivo è che volevo immergermi completamente in questo “nuovo mondo” e non avere, come dire, una “doppia vita”. Era da molto tempo che volevo fare questa esperienza ed ero preparato all’idea di stare un anno da solo. Ci sono stati però un paio di momenti difficili. Uno a Natale, quando ho sentito la mancanza dell’Italia perché la festività lì è vissuta in un modo completamente diverso dal nostro. Natale, perlomeno a Tokyo, è stare con gli amici e mangiare pollo fritto al fast food. A marzo invece ho avuto l’unico vero crollo, mi trovavo in uno dei quartieri più grandi di Tokyo, a Shinjuku, e ho avuto un forte attacco di panico. Shinjuku è un posto gigantesco, confusionario, pieno di gente, e per me, che ero abituato a Frangarto con i suoi 700 abitanti, è stato abbastanza scioccante.

La sua giornata tipo a Tokyo?

Mi alzavo alle 5 ogni mattina per andare a correre, perché è l’unico momento della giornata in cui a Tokyo non c’è nessuno in giro. Dalle 8.30 fino alle 15 avevo lezione a scuola, alla Waseda high school, dalle 16 alle 19 si facevano attività di club, ognuno sceglieva la propria, sportiva o didattica. La mia classe era molto “internazionale”, tanti dei miei compagni erano già stati all’estero, stavano per andarci o ci volevano andare. Erano insomma tutti interessati a conoscere una nuova cultura, la vedono come un’opportunità. Io ero l’unico italiano.

Shinjuku è un posto gigantesco, confusionario, pieno di gente, e per me, che ero abituato a Frangarto con i suoi 700 abitanti, è stato abbastanza scioccante

Con tutto il bagaglio dei classici stereotipi del caso?

In Giappone in verità i soliti luoghi comuni sugli italiani non li ho notati, le persone erano piuttosto esperte sulla storia e la politica nostrana.

In famiglia com’è stato accolto?

La coppia che ha deciso di ospitarmi aveva perso il figlio in un incidente qualche anno prima. Erano persone comprensibilmente più chiuse rispetto alle altre famiglie, avevano più difficoltà a legarsi con gli studenti dal momento che questi restavano con loro solo un anno e poi se ne tornavano a casa. 

Cosa faceva insieme ai suoi coetanei nipponici nel tempo libero?

Qui ci vuole: quello del karaoke non è uno stereotipo, ma è effettivamente una delle attività preferite dei giapponesi. Ci sono karaoke che costano dai 20 ai 500 euro per mezz’ora. Noi andavamo a quelli che venivano 50 centesimi. Si affitta una sala, sullo schermo scorrono i testi delle canzoni, e si sta lì ore e ore, in compagnia, ma c’è anche chi in questi posti ci va per studiare, prende la stanza e si mette sui libri. Sono molto frequentati anche i game center e gli “snake cafè”, dove bere il proprio drink circondato da serpenti che, pagando un piccolo sovraprezzo, si possono anche prendere tra le mani. Ci sono anche i cafè con i conigli, i gufi, e così via, un’idea bizzarra, ma molto particolare.  

 

 

Noto è il peso che i giapponesi mettono nei loro gesti, pensiamo solo a tutto il rituale della preparazione del tè, farsi “impregnare” da una cultura così peculiare l’ha cambiata?

Io voglio conoscere tutto quello che mi fa crescere. Pensi che a proposito della tradizione del tè ho seguito sull’argomento 5 lezioni in tutto l’anno e l’insegnante che ne studiava l’arte da oltre 30 anni, per molte ore al giorno, ci diceva che non sapeva ancora davvero nulla di come si prepara questa bevanda. Ci raccontava che la sua di insegnante, che lavorava il tè da 80 anni, prima di morire, a 95, disse che in tutti quegli anni aveva solo cominciato a capire qualcosa del tè, e cioè di che colore era fatto. Vede, c’è un detto giapponese, “10 persone 10 colori”, che vuol dire che nel mondo ciascuno è unico e irripetibile e quindi diverso dall’altro, e io credo che il senso stesso del progetto Intercultura sia proprio questo e cioè cercare di percepire e comprendere un’altra cultura. Nello specifico della ritualità giapponese di esempi ne ho visti molti.

Ce ne faccia qualcuno.

La mia famiglia ospitante ogni mese, per il weekend, mi portava a scoprire un posto nuovo. Sono stato a Toyama, una città famosa in tutto il Giappone per il suo pesce che viene pescato e servito subito e prima di mangiarlo si recita una preghiera perché l’animale ha sofferto. Poi c’è il riso che per i giapponesi è sacro, in ogni chicco c'è Dio e non lo sciupano mai. Il vapore che sale dalla ciotola è lo spirito del riso. Bisogna stare attenti a infilare correttamente le bacchette nella ciotola, messe in un certo modo infatti possono simboleggiare la morte, perché ricordano i bastoncini di incenso che si bruciano durante i funerali. A tavola ci sono tante regole da seguire. Essendo italiano ero scusato in quanto straniero se non eseguivo tutto alla perfezione, ma è comunque un segno di rispetto dare il massimo di sé anche in queste piccole cose, anche perché in quel momento sono parte della famiglia che mi ospita e se faccio degli errori metto in imbarazzo i miei “genitori giapponesi” perché il messaggio che passa è che loro non sono stati capaci di educarmi a dovere.

Per i giapponesi il riso è sacro, in ogni chicco c'è Dio e non lo sciupano mai

Per lei che da altoatesino, studente peraltro di una scuola di lingua tedesca, è abituato a sperimentare quotidianamente la convivenza tra diversi gruppi linguistici, com’è stato collaudare la “variante giapponese”?

Bisogna adeguarsi a un tipo differente di comunicazione, la nostra è molto diretta, la loro piuttosto indiretta, in particolare nell’esprimere il proprio stato d’animo. Ricordo poi che il primo giorno di scuola dovevo presentarmi su un palco davanti a tutta la scuola, mi era stato detto che avrei potuto farlo in inglese ma era sottinteso che avrei dovuto parlare in giapponese. Lo spirito di adattamento al modus vivendi del posto in cui ci si trova è la chiave di tutto.

 

 

Sembra che questi 11 mesi siano stati solo un inizio.

Sì, in Giappone intendo tornarci, voglio tentare di entrare alla prestigiosa Waseda University School of International Liberal Studies, che è improntata sul multiculturalismo. È un ateneo interdisciplinare e potendo scegliere le materie da studiare i focus su cui vorrei concentrarmi sono management, economia e comunicazione. 

Ho vissuto in Italia un quarto della mia vita e mi sembra uno spreco non andare a vedere cosa c’è là fuori. Parlo anche a nome degli altri ragazzi di Intercultura quando dico che tutti noi ci sentiamo cittadini del mondo

Perché vuole andare via dall’Italia?

Banalmente perché ho vissuto qui un quarto della mia vita e mi sembra uno spreco non andare a vedere cosa c’è là fuori. 

È più spinto dalla curiosità che da una reale necessità?

La mia necessità è quella di mantenere quella curiosità di esplorare altre culture. Di sfuggire alla monotonia della quotidianità. So già infatti che una volta finita l’università non resterò in Giappone. Parlo anche a nome degli altri ragazzi di Intercultura quando dico che tutti noi ci sentiamo cittadini del mondo. Non sono il mio nome e cognome o la mia nazionalità a forgiare la mia identità, io sono quello che sono, fuori da certe gabbie e barriere, ciò che mi guida è la libertà e la scelta di poter evolvere, cambiare. 

 

 

C’è una generazione che consegna ai suoi figli un futuro di gran lunga peggiore di quello lasciatogli in eredità dai loro padri, il movimento Fridays for future e le battaglie di Greta Thunberg hanno smosso anche lei?

Riguardo Greta è sconfortante vedere come si parli più del personaggio rispetto al messaggio che diffonde che spesso viene relegato in secondo piano. Non ho partecipato alle manifestazioni di FFF a Bolzano semplicemente perché non ne ho avuto occasione, ma non è protestare che cambierà le cose (anche se è giusto farlo), quanto piuttosto prendere coscienza delle proprie azioni. Usare bottiglie riutilizzabili, prendere l’autobus al posto dell’automobile, evitare, quando possibile, di prendere l’aereo. Ma non basta. Un volo intercontinentale emette in CO2 più di quanto viene prodotto da un automobilista in un intero anno, l’impatto ecologico scegliendo di non usare l’aereo è evidentemente altissimo, ma nel quadro d’insieme c’è anche l’aspetto economico da considerare. Se l’aereo costa meno del treno quante persone sceglieranno l’ambiente al posto del portafoglio? Ecco perché è lo Stato che deve intervenire, dando alle persone le possibilità di fare la giusta scelta.  

Un’affermazione che richiama un altro interrogativo: il destino dei giovani non dovrebbe essere in cima all’agenda dei governi?

Non veniamo ascoltati tanto quanto vorremmo. Tanti ragazzi hanno parlato all’Onu davanti a tutto il mondo, con delle argomentazioni forti, non sono esattamente degli sprovveduti. Se poi vogliamo fare degli esempi più “in scala” penso alla mia scuola, dove noi studenti abbiamo detto no agli spostamenti in aereo per i viaggi di maturità o in generale per quelli scolastici, abbiamo fatto togliere le macchinette che vendevano prodotti in plastica. A scuola abbiamo più voce che in politica, ma in fondo si parte sempre dalle mura di una classe.

Non sono il mio nome e cognome o la mia nazionalità a forgiare la mia identità, io sono quello che sono, fuori da certe gabbie e barriere, ciò che mi guida è la libertà e la scelta di poter evolvere, cambiare

La sua angoscia più frequente?

Mi viene in mente una frase di Isaac Asimov: “L’aspetto più triste della vita in questo momento è che la scienza raccoglie conoscenza più velocemente di quanto la società raccolga saggezza”. Mi fa paura questa evoluzione tecnologica della società moderna perché mi pare che stiamo usando certe innovazioni in modo sbagliato. Faccio un esempio: in Cina se il pedone attraversa sulle strisce con il semaforo rosso viene “incastrato” con la tecnica del riconoscimento facciale e la multa gli arriva direttamente a casa. Un metodo che si sta pensando di copiare anche in Italia. Prospettive come questa, devo ammettere, qualche brivido me lo danno.

Tornando alla sua esperienza all’estero, a distanza di qualche mese dal suo ritorno in Italia, cosa le manca di più del Giappone?

Il cibo. E peraltro mi manca più di quanto mi sia mancato quello italiano quando ero a Tokyo. E poi le persone, o meglio il modo che hanno di interagire fra loro. A scuola, qui a Bolzano, ci si prende in giro insultandosi, lo si fa per scherzo, s’intende, ma non avendo sentito nessuno prendermi a male parole, seppure goliardicamente, per un anno intero all’inizio ho fatto fatica ad accettare questo modo di fare, a capire cosa ci fosse di divertente. Per quel che mi riguarda l’armonia che ho respirato in Giappone, questo sentirsi accolti a prescindere dalla propria provenienza, è qualcosa di incredibilmente bello.