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Politik | Avvenne domani

Il ricordo e la violenza

Ricordare non vuol dire solo celebrare.

Raoul Pupo è uno storico di vaglia, da sempre impegnato nell’analisi degli avvenimenti del 900 nel difficile e tormentato teatro del confine orientale d’Italia. È uno studioso al quale la sorte e, immaginiamo, un impegno assiduo hanno portato in dote una capacità davvero straordinaria di raccontare, con gli scritti e con le parole, quei terribili e complessi avvenimenti con una chiarezza e con una capacità di avvincere lettori e spettatori davvero rara.

È stata dunque un’occasione preziosa quella offerta dall’iniziativa del Centro della Pace e dal Comune di Bolzano che, in occasione della Giornata del Ricordo, istituita in memoria delle vittime delle Foibe, lo hanno portato a Bolzano per una conferenza, che, pur essendosi svolta davanti ad un pubblico abbastanza numeroso, avrebbe meritato una platea ancor più vasta. Pupo, presentato in modo ampio e dettagliato da Giorgio Mezzalira, ha permesso ai presenti di cogliere il senso più profondo è vero dell’iniziativa di ricordare quei morti e quei fatti: quella di poter ricavare da tutto quel sangue, da quel dolore, da quelle sofferenze fisiche e morali un quadro storico di un’epoca nella quale una terra tormentata è stata percorsa da spasmi di violenza che non si sono placati nemmeno in tempi più recenti.

La storia delle terre poste al confine orientale d’Italia, ha spiegato lo storico, può essere analizzata partendo da vari punti di vista: quello del conflitto tra nazionalità, inquadrato nel processo sfaldamento dei grandi imperi multinazionali ottocenteschi, quello della lotta di classe mirante a sovvertire una stratificazione sociale segnata da profondissime ingiustizie e disparità ed ancora quello che esplora l’uso della violenza come strumento di lotta politica.

È quest’ultimo il percorso che Raoul Pupo ha scelto di seguire nel suo racconto. È partito dai tardi decenni dell’ottocento, raccontando di una situazione che, a Trieste come in Istria, a Fiume come in altri centri della costa dalmata si andava surriscaldando, man mano che, nelle varie componenti etnico linguistiche, prendeva piede quella consapevolezza del proprio essere diversi dai vicini per lingua, cultura e a volte anche per religione che prima era sommersa nella generale identità di sudditi di un imperatore o di un sultano lontani nel tempo e nello spazio.

Si tratta del brodo di cultura dei conflitti futuri che, pur tuttavia, secondo lo storico non produce in quegli anni, quelli che arrivano sull’orlo del primo conflitto mondiale, una dose di violenza paragonabile a quelle che seguiranno. Resta, come un fatto isolato, la vicenda dell’irredentista Oberdan, giustiziato dagli austriaci e divenuto martire dell’italianità.

Le cose cambiano, e parecchio, con la guerra e soprattutto con l’immediato dopoguerra che vede l’implosione dei vecchi imperi, la rivolta delle varie nazionalità alla ricerca di un’affermazione territoriale. Un processo che non si esprime solo in termini politici, ma che vive anche sulla nascita di strutture paramilitari che germogliano ovunque, sulla base delle esperienze belliche appena concluse, quasi come una continuazione del massacro di trincea appena terminato. Sul confine orientale è il confronto duro tra l’italianità che reclama spazio verso est e la nuova realtà territoriale che nasce con la saldatura tra i popoli slavi, serbi, croati, sloveni i quali a loro volta reclamano terre sulle quali, in virtù della sistemazione post bellica, il tricolore sventola già. La violenza, in termini di guerra civile tra italiani che anticipa in un certo senso conflitto che porterà alla nascita del regime fascista, scoppia nel 1919 con la conquista armata da parte dei cosiddetti “legionari” di Gabriele D’Annunzio della città contesa di Fiume. È un’operazione militare, spiega Raoul Pupo che per la gran parte si svolge con una violenza bassa intensità, anche perché i croati, che sono il nemico designato, non la contrastano. I morti arrivano quando l’impresa è già quasi agli sgoccioli, con il Natale di sangue, ma sono italiani che uccidono altri italiani. Nel frattempo però un’altra violenza, più feroce, che vede in campo parzialmente gli stessi protagonisti, si accende nella Venezia Giulia e in Istria. Sul confine orientale, il fascismo agli esordi mostra il suo volto più sinistro. È una violenza di bande armate che, dopo la Marcia su Roma diventa violenza di Stato, che si tinge di sangue nel momento in cui sloveni e croati rispondono con il terrorismo. Per chi volesse esplorare analogie e differenze quello che il fascismo fu in Alto Adige, evitando di prestar fede alle sciocchezze propinate anche in questi giorni da qualche autorevole commentatore sulla stampa nazionale, il riferimento non può che essere ancora l’opera fondamentale di Claus Gatterer, “Im Kampf gegen Rom”.

In un clima già profondamente avvelenato e segnato da un odio che ormai paralizza ogni possibile tentativo di ricostruire forme di convivenza che pure in passato erano esistite, si arriva al culmine del dramma. Qui la violenza politica diviene tecnica della strage. La applicano, non di rado, i militari italiani che, nel corso del secondo conflitto mondiale, vanno ad occupare larghe zone della ex Jugoslavia e si trovano di fronte ad una resistenza partigiana sempre più dura. Il tutto in un quadro generale connotato da una sorta di “guerra di tutti contro tutti”, dove gli eserciti italiano e germanico si contendono il terreno con l’armata partigiana comunista guidata da Tito, ma dove operano anche tutte le bande armate dal nazionalismo delle varie etnie. Il crollo italiano dell’8 settembre 1943 toglie di mezzo uno dei contendenti ma nel contempo apre un varco pauroso per la pratica della violenza indiscriminata. Sono gli italiani di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia ad essere oggetto di una prima durissima fase di pulizia etnica da parte slava. Inizia la tragedia delle foibe. Poi, sotto il tallone nazista, si arriva all’altra data fatidica del maggio 1945 con la travolgente avanzata delle truppe jugoslave di Tito, solo parzialmente frenata dall’arrivo degli Alleati. Qui la seconda fase stragista che, come spiega Raoul Pupo è strage di Stato, voluta e pianificata freddamente a Belgrado per annichilire ogni forma di contrasto politico al progetto di conquista jugoslava della Venezia Giulia oltre che dell’Istria e della Dalmazia. L’obiettivo delle esecuzioni non sono solo i fascisti, ma tutti coloro che in qualche maniera hanno incarnato le figure chiave del potere italiano durante il ventennio o che, come gli esponenti del CLN, possono costituire un ostacolo al progetto di conquista. A un’operazione di eliminazione ideologica e nazionalista al tempo stesso, che si inquadra in quella generale resa dei conti che, in quegli stessi mesi, avviene più o meno con le stesse caratteristiche in altri luoghi dell’Europa appena uscita dalla guerra. Nella Jugoslavia di Tito vengono liquidati gli italiani, ma vengono massacrati a decine di migliaia anche i cetnici, i domobranci sloveni, gli ustascia croati. Nella Cecoslovacchia liberata dai russi la stessa sorte tocca a milioni dei tedeschi dei Sudeti, costretti a fuggire e che in Germania si trovano mescolati con altri milioni di connazionali espulsi dalla Prussia orientale divenuta territorio polacco. Sono storie poco conosciute e poco raccontate, come poco conosciuta e poco raccontata è stata quella delle decine di migliaia di italiani costretti, con la violenza e con la minaccia, dal 1945 in poi, ad abbandonare Istria e Dalmazia. Pesa su tutte queste storie la cattiva coscienza. I profughi, quelli tedeschi come quelli italiani, furono accolti con indifferenza se non con malanimo. In Italia pesava il pregiudizio ideologico di un comunismo che non poteva riconoscere l’atrocità dei delitti commessi oltrecortina. In Italia e in Germania c’era però anche il fastidio per questi testimoni silenziosi di una sconfitta che tutti volevano rimuovere al più presto. Il giorno del ricordo, invece che essere utilizzato solo per cavarne qualche tornaconto politico, potrebbe essere l’occasione per avviare un processo di revisione che, come dimostrano statistiche anche recenti, nel nostro paese non è mai neppure iniziato.