Umberto Gandini
Foto: Lorena Munforti
Gesellschaft | IL CAPPUCCINO

Il pendolo di Gandini

L’intervista a Umberto Gandini (+) realizzata pochi anni fa per “La finestra sui giornali”.

Dunque, se ne è andato anche Umberto Gandini, una delle colonne del nostro giornalismo. E proprio nello stesso giorno in cui anche Mario Sarzanini, decano dei cronisti giudiziari italiani, veniva a mancare. Due facce e due anime di una professione in accelerata (e un po’ disordinata) trasformazione dove i punti fermi sono sempre quei giornalisti che non pretendono di fare i maestri ma che, con il loro esempio, riescono ancora ad essere punti di riferimento per i giovani cronisti.
Umberto Gandini, milanese trapiantato in Alto Adige/Sudtirolo, è sempre stato un “Querdenker” della professione e anche da traduttore e autore di teatro ha dato uno scossone agli orticelli editoriali, soprattutto locali, preferendo il mare aperto delle case editrici nazionali.
E anche nei giornali locali dove ha lavorato ha portato il vento fresco di una visione storico-giornalistica non provinciale.
Due anni fa, Lorena Munforti (che firma le foto di questo spazio ed è coautrice del libro sui giornali) ed io abbiamo incontrato Umberto più volte. Ne è nata una delle interviste più importanti del volume “La finestra sui giornali. Storia dei quotidiani italiani in Alto Adige dal secondo dopoguerra ad oggi" (Ed. CurcuGenovese) e ancora oggi unica pubblicazione sul tema.
Umberto viveva in una casa di riposo per rimanere accanto alla moglie, scriveva in un angolo della stanza che divideva con lei. Quando ci vedevamo beveva una “birretta” e ci litigavamo, ridendo, i salatini del piccolo vassoio.
Ecco l’intervista tratta da “La finestra sui giornali”, nella quale Lorena ed io gli diamo del “lei” secondo una delle elementari regole giornalistiche. Anche di questo ci capitò di ridere più di una volta. Quasi sempre per merito suo, di Umberto. Che lascia tutti noi un po’ smarriti e un po’ più soli.

 

Quale avventura editoriale ha rappresentato la pagina in lingua tedesca che per alcuni anni è uscita nel quotidiano Alto Adige?

E’ stata davvero una lunga avventura editoriale  (dal 1958 al 1999) perché ne era responsabile un direttore, quello dell’Alto Adige, che non capiva quel che c’era scritto. Quasi mai, i direttori che si sono succeduti sono stati in grado di decifrarlo. Ma ovviamente risultavano responsabili davanti alla legge anche per quella pagina redatta e stampata in tedesco.

L’ultima responsabile è stata Eva Klein.

Persona molto corretta, grande professionista e che mai ha esagerato nonostante l’obiettivo potere che poteva esercitare.

Dunque, ogni mattina in redazione che cosa accadeva?

Che il direttore di turno veniva da me – che non ero responsabile della redazione tedesca – e mi chiedeva che cosa i colleghi tedeschi stessero scrivendo. Io ero uno dei pochi in grado di capire il tedesco, lavoravamo insieme in redazione. Ma mentre noi non sapevamo che cosa stessero scrivendo i colleghi tedeschi, questo ultimi lo sapevano, eccome. Perché erano bilingui.

Lei ha fatto spesso da trait d’union.

Sì. Come ad esempio con Mino Durand, arrivato a Bolzano dal Corriere della Sera e che non conosceva una parola di tedesco. “Dagli una occhiata, vedi un po’ tu”, mi diceva sottoponendomi le pagine in tedesco. Ma devo dire la verità non ho mai dovuto fare cose particolari, grazie alla bravura e alla correttezza della Klein e dei suoi colleghi della redazione tedesca. Ebbene, che io ricordi, il giornale non prese mai una querela per gli articoli pubblicati in tedesco.

Resta il problema del mancato bilinguismo, a sfavore degli italiani, in diverse professioni, quella giornalistica compresa. Come se la spiega?

La spiego con quella maldestra affermazione “Qui siamo in Italia”. Molti italiani di qui non hanno avvertito e non avvertono ancor oggi la necessità di studiare, comprendere e parlare in lingua tedesca.

Questa chiosa, così importante ed attuale, ci porta a chiederle anche delle due pagine di cronaca ospitate da Il Giorno di Milano.

Sì e devo fare una premessa. C’è stato un momento fondamentale nella storia dell’Alto Adige, quando – con il Pacchetto e con l’obbligo del bilinguismo – è stato chiesto agli italiani di allora (anni Sessanta e Settanta) di “sacrificarsi” per compensare i benefici che avevano ottenuto i loro padri e i loro nonni dal fascismo. Per ristabilire un equilibrio occorreva che si “sacrificassero” gli italiani. Questo è molto difficile da far digerire ed è obiettivamente ingiusto. Si capì anche rapidamente che questo sacrificio imposto doveva servire a garantire la pace etnica e a ristabilire un equilibrio che è poi quello nel quale viviamo oggi.

Quale ruolo ricoprì allora il quotidiano Alto Adige?

Era allora su posizioni assolutamente negazioniste. E alcune di queste posizioni avevano a tratti inclinazioni persino fasciste e fascistoidi. E c’erano giornalisti interni e collaboratori che si fermavano al fatto del “qui siamo in Italia”, senza elaborare nulla di più. Per carità, è vero. Abbiamo a suo tempo annesso questo territorio: ma attenzione perché i tirolesi ci stavano da seicento anni. Seicento anni con una storia da difendere. Rd erano stati completamente esautorati, a casa loro.

Dunque che cosa accadde nel mondo dei giornali e nei loro rapporti con la politica?

Aldo Moro, molto favorevole al “pacchetto”, aveva qui in Alto Adige la propria longa manus nell’onorevole Alcide Berloffa. Il quale si diede da fare per trovare una voce alternativa al quotidiano Alto Adige. Fino a quando Italo Pietra, direttore di Il Giorno accettò le sovvenzioni che arrivavano da Roma e creò questa “redazioncina” (sede prima in via Taramelli e poi in zona industriale) che sopravvisse per alcuni anni, dal 1967 al 1971. Il capo della redazione era Gianni Bianco, che divenne poi un alto dirigente nelle istituzioni sciistiche. Poi, Gian Gaspare Basile. Poi, ancora Mario Rossi. Infine, Franco Grigoletti. Ricordo anche Guido Malossini, roveretano.

Una piccola redazione, ma…

…Questa piccola redazione fu però una voce alternativa e tentò di spiegare agli italiani di qui che sì, era vero si chiedevano loro sacrifici. Ma se avessero pensato a che cosa accadeva in altre parti del mondo a causa dei contrasti etnici, ebbene la pace etnica etnica è troppo importante perché voi – venne detto - non vi addossiate dei sacrifici compensativi rispetto ai benefici delle due generazioni precedenti.

Far digerire tutto questo agli italiani dell’Alto Adige/Sudtirolo fu però molto, ma molto difficile.

Indubbiamente. Far digerire il cosiddetto “proporz” e far digerire il bilinguismo obbligatorio. Già allora tutti i tedeschi sapevano l’italiano mentre gli italiani che sapevano il tedesco erano pochissimi. Ebbene, basta pensare alle tensioni anche molto gravi che si sono consumate negli ultimi decenni in Algeria, nei Paesi Baschi e in Irlanda, per fare solo tre esempi e quanto sangue è stato sparso, ebbene qui è stato diverso.

 

Ma dobbiamo anche registrare il grande merito degli italiani di qui: condivide?

Di sicuro. Gli italiani di qui non hanno risposto alla violenza delle bombe, molto spesso peraltro di provenienza austriaca. Gli unici atti di violenza “italiani” sono attribuibili ad alcuni fascisti di Verona forse collusi con qualcuno dei servizi segreti italiani. Gli italiani di qui non risposero mai alla violenza con altra violenza.

C’è una spiegazione?

Sì, secondo me. Noi italiani non ci sentivamo ancora a casa nostra o del tutto a casa nostra, qui. Quando c’è un terremoto e a casa tua vedi crepe nei muri, ti preoccupi moltissimo. Ma se sei in affitto, beh è diverso. Ricordo una mia inchiesta giornalistica sugli studenti dell’istituto Pascoli di Bolzano. Chiesi che cosa si sentivano, essendo in maggioranza nati a Bolzano. Risposta: “Io sono novarese”, “io sono siciliano”, “io sono padovano”. Ovvero consideravano la loro patria quella dei loro genitori.

E voi, giornalisti della redazione bolzanina del Giorno come vi siete comportati?

Abbiamo assecondato questa “maggiore pazienza” degli italiani, dicendo: oggi ci si chiede sacrifici ma i nostri figli e nipoti vivranno in una terra pacificata. Al Giorno, pagine di Bolzano, abbiamo dato voce a quegli italiani diversi da quelli nazionalisti e parafascisti.

E quando le pagine di Bolzano chiusero?

Per formare la redazione locale del Giorno ricordo che andammo via in sei dal quotidiano Alto Adige. Quando il Giorno, pagine di Bolzano, chiuse, cinque colleghi rimasero fuori. Io sono tornato, invece. E sa perché? Perché di quei sei, solo io sapevo il tedesco.

C’è anche un secondo motivo più riservato: può svelarlo?

Sì, ma lo considero un piccolo bel gesto. Quando abbandonai il quotidiano Alto Adige, ero stato da un mese nominato inviato speciale, con uno stipendio dunque più alto. Avrei potuto chiedere la liquidazione con quella qualifica e invece rinunciai. Questo fu molto apprezzato e credo mi aiutò a rientrare in redazione quando terminò l’esperienza del Giorno a Bolzano.