Gesellschaft | L'intervista

Hikikomori, (auto)segregati in casa

È una sindrome che arriva dal Giappone ma diffusa anche in Italia: sono i giovani che si recludono volontariamente. L’esperto Antonio Piotti: “Provano grande vergogna”.
Hikikomori
Foto: upi

salto.bz: Dottor Piotti, di cosa parliamo quando parliamo di Hikikomori?
Antonio Piotti
: È una parola giapponese che significa “stare in disparte”, “rinchiudersi”, è una delle varianti di quei comportamenti di esclusione che in Giappone sono già individuati da anni. L’Hikikomori è la forma di ritiro sociale più acuta. Questo termine si è cominciato a usare quando decine di migliaia di ragazzi sceglievano di isolarsi totalmente. Le cifre delle persone colpite da questo fenomeno sono difficili da stimare, c’è chi parla di 1 milione di ragazzi, chi addirittura di 1 milione e mezzo, altri di 600mila o 400mila.

Perché cifre così discordanti?
La verità è che non si può definire un numero, perché le famiglie quando hanno un figlio auto-recluso se ne vergognano e non ne parlano. C’è quindi una tendenza a non denunciare il fenomeno e anche a curarlo poco. Eppure è un problema sociale enorme. 

"I ragazzi anziché andare a scuola, frequentare amici, decidono di chiudersi nelle loro stanze senza volerne uscire, a volte anche per anni"

In cosa consiste esattamente questa sindrome?
I ragazzi anziché andare a scuola, frequentare amici, decidono di chiudersi nelle loro stanze senza volerne uscire, a volte anche per anni. Nei casi più estremi non hanno contatti nemmeno con i genitori dentro casa, mettono dei cartoni sulle finestre per non far entrare la luce del sole, e la situazione in Giappone sta diventando drammatica perché ad essere colpiti sono anche gli adulti. 

Come si trasfigura il significato di questo fenomeno nella cultura europea?
All’inizio si pensava fosse un fenomeno esclusivamente giapponese e che non si sarebbe diffuso nel resto del mondo, perché lo si vedeva collegato alla cultura nipponica. In realtà si sta allargando a macchia d’olio dappertutto, in Spagna, ad esempio, ma anche in Corea e negli Stati Uniti, seppure con cifre meno elevate. In Italia, ad esempio, si parla di 60-80mila casi una cifra che comincia ad essere consistente. Lo stesso sta accadendo anche in Francia, io peraltro faccio di una équipe che lavora a Parigi. Quello che si nota nel nostro Paese è che i ragazzi si “ritirano” molto precocemente. In Giappone si comincia verso i 17-18 anni, in Italia fra i 13 e i 14 anni, nel passaggio fra la scuola media e quella superiore. In Italia, in ogni caso, è raro che ci siano dei ritiri totali come in Giappone. 

Come si riconoscono i sintomi?
Il primo segnale è la fobia scolare, i ragazzi cominciano a non andare più a scuola, ma non necessariamente perché prendono brutti voti e hanno quindi il terrore dei giudizi e degli insegnanti (si tratta infatti mediamente di ragazzi che hanno risultati scolastici accettabili se non buoni), ma semplicemente perché non ci riescono. E quando entrano a scuola stanno male, non sono in grado di stare insieme ai coetanei, hanno mal di testa, emicranie, episodi di dissenteria, stati d’ansia, a volte crisi di panico. Se ne stanno quindi a casa e lì ritrovano la serenità. Per ingannare il tempo guardano serie Tv, ascoltano musica e soprattutto utilizzano il computer. Stanno svegli la notte e dormono di giorno e diradano molto i contatti umani perché provano un sentimento di vergogna. 

"Questi ragazzi non sono depressi, perciò anche gli anti-depressivi servono a poco, e non sono psicotici perché il loro contatto con la realtà è buono"

Qual è la strategia terapeutica per il trattamento dei soggetti hikikomori?
È molto difficile individuarne una, perché abbiamo appurato che molti approcci non funzionano. Noi siamo abituati a ricevere i pazienti nei nostri studi, per esempio, e questi ragazzi non escono di casa, perciò c’è un lento processo di avvicinamento che va messo in moto, bisogna affidarsi a degli educatori, stabilire dei contatti, andare noi professionisti a casa loro, agire insieme ai genitori. Cominciare, pian piano, a farli partecipare ad alcune attività, come ad esempio a laboratori di fotografia, canto, cinema, aiutarli a recuperare gli anni scolastici perduti. E poi si comincia con la psicoterapia. Il lavoro con gli Hikikomori è particolare, e stravolge l’idea della psicologia classica. Occorre una rete che coinvolga diverse professionalità per cercare di ristabilire una socializzazione. In molti casi si è pensato di intervenire psichiatricamente, somministrando dei farmaci ma per quanto ne so, fino a questo momento, non esiste una medicina curativa, perché, del resto, non si tratta di una patologia tradizionale. Questi ragazzi non sono depressi, perciò anche gli anti-depressivi servono a poco, e non sono psicotici perché il loro contatto con la realtà è buono. E poi non abbiamo nemmeno le strutture adatte per trattarli, perché non hanno le caratteristiche per essere collocati, ad esempio, nei reparti di neuropsichiatria. 

Quando si sono manifestati i primi casi in Italia?
Nel 2007. Ricordo che non sapevo nemmeno che il mio primo paziente fosse un ritirato sociale, facevamo fatica a diagnosticare il caso. Si trattava di un ragazzo intelligentissimo, un genio della matematica, incapace però di sostenere lo sguardo dell’altro, non andava a scuola e stava chiuso in casa. L’avevo conosciuto perché minacciava di suicidarsi quando i genitori lo distoglievano, a forza, dal computer.

Sta dicendo che chi soffre di questa sindrome ha generalmente tendenze suicide?
All’inizio pensavamo che questo fattore c’entrasse molto, in realtà è come se lo stare in rete e il rinchiudersi proteggesse questi adolescenti dal suicidio. Se il ritiro fallisce, se vengono portati fuori dalla loro stanza con la forza, allora il rischio sussiste, perché è come se venisse tolta loro una difesa.

Presumibilmente, tuttavia, il primo istinto di un genitore è quello di intervenire cercando di interrompere bruscamente questo isolamento piuttosto che assecondarlo, non è così?
Spesso è quello che accade, ma è una strategia che sconsigliamo di usare. Quello che diciamo ai genitori è di andare in rete con loro, di sviluppare momenti di contatto, di far calare la tensione.

"Ci si aspetta che un ragazzo di 15 anni con un computer davanti visiti tutti i siti porno possibili e invece non lo fa, o lo fa molto poco. È come se rifiutasse l’attrazione dell’immaginario sessuale, e la relazione con l’altro"

E le strutture scolastiche come possono intervenire?
Le scuole fanno molta fatica, sono rimaste molto indietro su molte cose, sono poco pronte per affrontare questo tipo di fenomeno. Anche perché i ragazzi che ne sono vittima passano perlopiù inosservati, per capirci, non sono né i più brillanti, né quelli che notoriamente disturbano. Hanno pochi amici e poche relazioni affettive, è come se annullassero la loro sessualità. Perché c’è anche questo aspetto da non sottovalutare. 

Ovvero?
Ci si aspetta che un ragazzo di 15 anni con un computer davanti visiti tutti i siti porno possibili e invece non lo fa, o lo fa molto poco. È come se rifiutasse l’attrazione dell’immaginario sessuale, e la relazione con l’altro.

Se l’adolescente, in un’età delicata per il suo sviluppo, ritira il proprio corpo dal mondo reale per creare in quello virtuale un essere immateriale, però con infinite possibilità identitarie, cercare la comprensione e il riconoscimento in un mondo fatto di superficialità e fantasia non aggrava ancora di più la situazione?
È così. Quello che caratterizza questi giovani è la loro difficoltà a mostrare il corpo, che è un tratto comune dell’adolescenza. Quando vanno in rete giocano, conoscono persone, creano contatti, sono ritirati sociali per modo di dire. È una sindrome soprattutto maschile, che ha a che fare con la virilità, con il rapporto con il corpo femminile. E il problema è diventato ancora più grave in quest’epoca narcisistica nella quale conta molto la valorizzazione del proprio corpo, la bellezza, la prestanza fisica, la capacità di rapportarsi agli altri. Chi non riesce in questo si sente tagliato fuori, un fallito, e in quel caso si manifesta quella sensazione di profonda vergogna. A scuola si è sottoposti agli sguardi dei compagni e se non si è all’altezza tutto diventa intollerabile. Perciò sulla rete si crea una sorta di alter ego, un avatar, una personalità nuova, si diventa elfi o guerrieri nei giochi fantasy. E si badi che nell’equazione non ci sono i social network perché quella è già la fase successiva, quando si è inclini a conoscere delle persone. 

"Non sono svogliati di natura, questo atteggiamento deriva dal fatto che hanno meno tenacia, e sono purtroppo meno capaci di superare le sconfitte"

Capita che le giovani generazioni vengano definite dagli adulti come “senza valori” o irrimediabilmente “superficiali”, qual è il suo giudizio in merito secondo la sua esperienza con i ragazzi?
Le nuove generazioni hanno un quoziente di intelligenza superiore rispetto alle precedenti, ma non ce ne dobbiamo stupire perché fin da bambini hanno molti stimoli. Sono in forma, fanno più sport rispetto a quanto si faceva in passato. Hanno grosse ambizioni, un’ideale molto elevato, sono più creativi, meno sottoposti alle regole, più liberi, più abituati a fare quello che a loro piace, sono spavaldi. Il difetto è che sono più fragili. Non sono svogliati di natura, questo atteggiamento deriva dal fatto che hanno meno tenacia, e sono purtroppo meno capaci di superare le sconfitte.