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L’errore che intriga

Giornata della lingua madre: intervista a tre ricercatori di Eurac Research che stanno analizzando testi scritti delle scuole superiori italiane.
errore di scrittura
Foto: Chiara Vettori Eurac Research

Chiara Vettori, Arianna Bienati e Lorenzo Zanasi sono linguisti di Eurac Research alle prese con norme ed errori della lingua che si conosce meglio: la propria lingua madre. Hanno iniziato da poco uno studio che analizza, per la prima volta in Alto Adige, testi scritti delle scuole superiori in lingua italiana. In occasione della Giornata mondiale della lingua madre.

Partiamo mettendovi allo scoperto: c’è un errore dei tempi della scuola che non avete mai dimenticato?

Lorenzo Zanasi: Traducendo una versione di greco scrissi “a egli” invece che “a lui”. Mai più sbagliato da quella volta. 

Arianna Bienati: Al liceo una professoressa piuttosto severa mi corresse un “ne” pleonastico, una frase tipo “di questo se ne parla”. Peccato che lì per lì non capii perché era sbagliato, ci sono arrivata solo con gli studi universitari. Credo mi sarebbe rimasto più impresso se mi avesse spiegato l’importanza di scegliere lessico e strutture in base ai diversi registri di stile… 

Chiara Vettori: Di recente ho sfogliato dei diari che ci scambiavamo tra amichette: scrivevo “alla mia compagnia di banco”, con la i. Vergogna a posteriori! (ride) 

 

Qualche anno fa, in una lettera aperta indirizzata al governo, un gruppo di 600 docenti universitari si lamentò del fatto che chi si iscrive alle varie facoltà troppo spesso scrive male in italiano. La polemica non si è più placata. La situazione è davvero così tragica? 

Vettori: Bisogna stare attenti a non scivolare nel cliché del “si stava meglio quando si stava peggio”, già negli anni novanta uno studioso di rilievo come Alberto Sobrero segnalava quanto l’italiano degli studenti universitari fosse “approssimativo” e come l’italiano scritto fosse “sotto attacco” da parte del parlato, intendendo per parlato una varietà della lingua meno prestigiosa rispetto allo scritto. Vedremo cosa scopriremo con le nostre indagini in Alto Adige, ma è plausibile che i tempi di lettura sempre più risicati per i tanti impegni, sia dentro sia fuori la scuola, abbiano fatto perdere la familiarità con i testi lunghi. Inoltre c’è il sospetto che l’abitudine a sorvolare i testi scrollandoli online – quella che tecnicamente viene definita “lettura cursoria” – potrebbe condizionare la concentrazione e, per esempio, la comprensione delle istruzioni che vengono fornite durante le prove, portando così a risultati meno soddisfacenti. Questo vale in Italia ma anche in altri paesi, per esempio la Francia e la Germania, dove si parla di Sprachverfall (declino della lingua).  

Viene monitorato questo fenomeno dal punto di vista scientifico? 

Bienati: Molte delle analisi che vengono svolte sui testi scritti a scuola danno informazioni puntuali, ma non nascono con lo scopo di monitorare nel tempo le performance degli studenti. A livello nazionale, ci sono due rilevazioni Invalsi sui testi scritti degli esami di maturità degli anni scolastici 2007-2008 e 2008-2009 dalle quali, per esempio, emergono problemi nell’usare correttamente la punteggiatura. Un altro aspetto riguarda la comprensione del testo scritto, ben documentata dalle prove Ocse-Pisa: con una parentesi tra il 2010 e il 2012, dal 2000 in avanti in Italia si è registrato un calo costante dei punteggi.   

Vettori: In aggiunta alle prove, ci sono ricerche che analizzano aspetti specifici in determinate fasce scolastiche. Con il nostro studio ITACA (vedi box a fondo pagina) ci concentriamo sulle scuole di lingua italiana, sulle quarte superiori – cioè l’anno prima della maturità – e studiamo in particolare la coerenza dei testi.  

Gli errori di grammatica, ortografia o lessico sono “semplici” da individuare, ma come si verifica la coerenza? 

Bienati: Analizzeremo i testi che raccoglieremo sia manualmente sia tramite software dedicati, concentrandoci su determinati aspetti come la segmentazione in unità logiche (cioè l’uso della punteggiatura), l’uso dei connettivi come “perché” o “quindi” e dei focalizzatori (cioè parole come “almeno”, “ancora” o “solamente”), la coerenza dei tempi verbali, i collegamenti anaforici (cioè quelle espressioni come “questo fatto” o “ciò di cui ho parlato” con cui nel mio testo faccio riferimento a cose di cui ho già scritto) e la progressione tematica che non dovrebbe presentare salti logici tra gli argomenti esposti. 

 

Logica e coerenza sono un problema di competenza linguistica o di metodo con cui si impara e si organizzano le informazioni? 

Zanasi: Vari studi sostengono che tendenzialmente più una persona padroneggia una lingua, meno ha bisogno di esplicitare i collegamenti logici per produrre un testo corretto e coerente. Poi chiaramente ogni giudizio deve tener conto delle circostanze: è diverso valutare l’organizzazione del discorso di un ragazzo che è agli inizi di un processo di formazione e di uno che è all’università.   

Vettori: Il processo cognitivo e l’allenamento sono fondamentali. Per questo sono lodevoli scelte come quella fatta dal Liceo Carducci di Bolzano di aderire alla rete WeDebate, una iniziativa che prende spunto dai paesi anglosassoni e promuove le gare di dibattito argomentativo come pratica didattica. 

“Lingua madre”, al pari di espressioni come madre patria, padre di famiglia eccetera, ha un che di desueto… Quando nasce il concetto? È ancora usato dalla comunità scientifica? 

Zanasi: La definizione risale almeno al Medioevo e la si attribuisce al filosofo francese Nicola d'Oresme: serviva per distinguere la lingua d’uso quotidiano dalla lingua ufficiale, cioè il latino, che era la lingua del clero. Nel corso dei secoli il concetto di lingua madre è cambiato (vedi box sotto). Oggi si tengono in considerazione vari criteri per individuarla: l’origine, cioè la prima lingua che si impara, il senso di identificazione personale e di identificazione da parte degli altri, la competenza e la funzione, cioè rispettivamente la lingua che conosco meglio o la lingua che parlo di più. Va da sé che nel corso della vita si possono avere più lingue madri o, come si preferisce dire oggi, più “prime lingue”.   

Vettori: La lingua madre la acquisisco e la parlo in modo automatico, inconsapevole. Le “altre” lingue invece generalmente le apprendo, ovvero le imparo coscientemente attivando meccanismi di ragionamento e di riflessione metalinguistica finalizzati all’apprendimento di parole e regole grammaticali. Per esempio, posso trovare utile associare parole e strutture della lingua che imparo ad altre di lingue che già conosco.  

Però anche in contesti monolingui, a scuola le regole si insegnano comunque… 

Zanasi: Certo, ogni lingua ha la sua grammatica e la sua norma di riferimento, per quanto soggette a continuo cambiamento. Però nella lingua che si impara durante l’infanzia molte di queste regole vengono acquisite inconsciamente e i parlanti, generalmente, non si chiedono perché le cose stiano in un certo modo. Quando ho iniziato a insegnare italiano agli stranieri, anche se sono madrelingua, trovavo alcune domande spiazzanti. Non solo non avevo risposta, ma proprio non mi ero mai posto quei problemi. 

 

Cosa succede quando lingua madre e lingua di scolarizzazione sono diverse? 

Bienati: È quello che succede spesso tra bambini e bambine con background migratorio: non è raro che le competenze scritte nella lingua della scuola siano superiori a quelle della lingua parlata in famiglia, a meno che non ci sia un intervento specifico. Per esempio tante comunità cinesi organizzano scuole di alfabetizzazione perché questo patrimonio non vada perso.   

Zanasi: Nel nostro studio raccoglieremo prove da circa 700 studenti e studentesse. In una prima fase analizzeremo però solo quelle di chi proviene da un contesto familiare prevalentemente monolingue (italiano) per poter confrontare i risultati in gruppi omogenei. 

In Alto Adige, l’alto numero di ore dedicate alla seconda lingua potrebbe penalizzare la qualità della prima lingua? 

Vettori: Non è il focus della nostra ricerca e non si potrebbe in ogni caso giungere a questa conclusione poiché non abbiamo un campione analogo al nostro, in una regione “monolingue” italiana, con cui fare dei confronti.  

Un errore che oggi vi fa venire la pelle d’oca? 

Vettori: I pronomi usati a caso, tipo “gli” al posto di “le”. “Parlargli” per dire “parlare a lei” non lo sopporto.   

Zanasi: Un classicone: “se dovrei”.   

Bienati: Mah, in fondo a noi linguisti l’errore ci intriga…   

Valentina Bergonzi