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La Wunderkammer Camilleriana

I giornalisti che non hanno intervistato o almeno incontrato Andrea Camilleri non esistono. O quasi.
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Foto: Lorena Munforti

E una delle ormai risicate belle cose di questa professione è che ti fa conoscere (anche) persone stimolanti, vere e appassionate. E siamo in molte centinaia a poter raccontare questi incontri con lo scrittore. Accade, è il nostro lavoro.
Naturalmente, Camilleri bisogna meritarselo. Ad esempio, incontrandolo per caso in uno studio Rai la mattina di tanti anni fa, poi ritrovandolo letteralmente sotto casa, nel suo quartiere Prati e via ad una cena di chiacchiere e risate. Ad esempio ancora grazie a donna Elvira Sellerio, che aveva deciso in pratica da sola di pubblicarlo. E via ancora.

Verrei volentieri a Bolzano o comunque dalle tue parti. Ma posso mai lasciare le mie nipoti per più di un giorno. Fammici pensare…

Qui, però, non diremo della forza dei libri e degli stili di Camilleri, temi sui quali si stanno esercitando un po’ tutti. Scorrete il Corriere della Sera del 18 luglio (soprattutto gli articoli di Aldo Cazzullo e Antonio D’Orrico), scorrete alcuni interventi su la Repubblica dello stesso giorno e provate a ritrovare quel low profile dei vicini di casa, intervistati inesorabilmente poche ore dopo la notizia.
Ecco, la notizia è che Camilleri è morto e sarà sepolto in uno dei luoghi più magnetici e silenziosi di Roma: il cimitero acattolico. Punto.
Per tutto il resto, per tutti i blablabla che ci investiranno, pensiamo invece ai lettori. A noi lettori di Camilleri e non solo dell’autore di Montalbano. Le sue ricerche, le sue analisi storiche, i suoi racconti non montalbaniani.
Tenendo presente una frase, una sola, che ricordiamo qui: “Verrei volentieri a Bolzano o comunque dalle tue parti. Ma posso mai lasciare le mie nipoti per più di un giorno. Fammici pensare…”.
Di questa terra purtroppo abitata anche da chi si annoia del proprio mestiere e vuole tentare di fare qualunque altra cosa senza riuscirvi però, Camilleri era curioso. Stupito come chiunque ami ascoltare Alban Berg. Curiosissimo del bilinguismo sudtirolese, ad esempio.
Tanto che qui, con qualche piccola avvertenza, proveremo a consigliare di leggere Camilleri sia in tedesco che in italiano. Vedrete, i traduttori più avveduti e preparati hanno anche affrontato lo scoglio della “lingua di Montalbano”, quel dialetto intrecciato con la neolingua camilleriana che è una Wunderkammer della sua scrittura.
Ed ecco per un portale bilingue come Salto.bz una indicazione sui due traduttori tedeschi principali di Andrea Camilleri: Moshe Kahn e Christiane von Bechtolsheim. Meglio scegliere loro.
I quali condividono oltre tutto uno studio di alcuni anni fa secondo il quale “il traduttore deve assumere di fronte all’opera camilleriana una attenzione speciale. Una lingua vernacolare non può essere tradotta con un altro vernacolo perché la ricerca di equivalenza dialettale produrrebbe inevitabili quanto indesiderati effetti comici. Tale principio si riconduce al noto assunto di Antoine Berman, che ritiene necessario un superamento di quelle traduzioni etnografiche che prevedono la realizzazione di un prodotto riadattato e deformato in conformità alla realtà della cultura d’arrivo, con un conseguente tradimento dell’essenza dell’originale”. E poi ancora: ““Normalizzazione” quindi, oltre che atto imprescindibile, diventa parola chiave nell’approccio traduttivo all’opera camilleriana: un concetto non molto dissimile da quello che Andrea Camilleri propone, parlando di “banalizzazione” nel colloquio con Tullio De Mauro pubblicato da Laterza col titolo La lingua batte dove il dente duole”.
Ma come in ogni buon esercizio di giornalismo, ecco qui una fonte da citare. Si tratta di Rossella D’Ippolito che dieci anni fa ha scritto una tesi di laurea. Ne sintetizziamo il capitolo conclusivo.
“La sfida più ardua del lavoro traduttivo – scrive la ormai ex studentessa - è stata in particolare l’uso dei dialetti da parte dello scrittore siciliano e la necessità di trasferirli da parte della traduttrice Christiane von Bechtolsheim con un linguaggio adeguato. Considerato che l’impiego di un qualsiasi dialetto tedesco sarebbe stato in contrasto con l’ambientazione e le scene descritte nei racconti, che richiamano realtà tipicamente italiane, i diversi registri utilizzati (popolare, colloquiale e formale) sembrano avere reso bene l’espressività originale. Talvolta, però, la traduttrice è costretta ad operare alcune scelte che fanno perdere l’intenzione originale dello scrittore”.
Perché? Risposta: “Ogni traduttore è consapevole, fin dall’inizio, che deve sacrificare e dedicare tutto se stesso alla traduzione di quelle parti che nella lingua d’arrivo sembrerebbero non trasferibili, ma che invece possono portare, com’è riuscita la Bechtolsheim, a inaspettate soluzioni, a innovative immagini di parole e di senso”.
Buona lettura in italiano e in tedesco.