Kultur | Salto weekend

You are welcome

Una mostra che non finisce qui...
Ivo Corrà
Foto: Takt Film

Quanti di noi si sono veramente soffermati a immaginare cosa significhi emigrare? Come e perché una persona, una famiglia, arrivino a decidere di lasciare la propria terra, i propri amici, le proprie certezze, sono argomenti che nella narrazione delle storie di migrazione vengono ancora troppo poco considerati. Storie che ci passano accanto ogni giorno, che entrano nelle nostre vite spesso senza lasciare alcuna voce e che comunque avremmo probabilmente poco tempo, poca attenzione per ascoltare.

Quanti di noi si sono veramente chiesti quali progetti, quali speranze, quali aspettative riescano ad animare e indurre il salto nel vuoto, e quale invece l’impatto con la realtà - la nostra - con cui dover fare i conti?

Studi più o meno recenti analizzano cosa possa comportare per l’equilibrio psicologico di una persona, l’improvvisa necessità di imparare a decifrare i linguaggi di una realtà straniera, discernerne le situazioni, riconoscerne i valori. Lo shock culturale è piuttosto intuibile, basti pensare di dover comunicare in una lingua che non è la nostra, odorare profumi mai sentiti, muoversi in spazi tutti da codificare e memorizzare. Tutto nel minor tempo possibile, tutto dando il minimo fastidio possibile, rimanendo preferibilmente invisibili.

E se il tema dell’inclusione rimane un nodo cruciale (irrisolto) della politica contemporanea, è altrettanto vero che a tutti, prima o poi, si presenta l’occasione di manifestare un senso di accoglienza.

Può bastare anche solo una frase. “You are welcome”, per esempio. Un Benvenuto, che può essere anche un Prego dopo un Grazie. Una frase che è diventata il titolo del progetto fotografico ideato già tre anni or sono (ma ancora in divenire) da Ivo Corrà.

 


 

Salto.bz: Da dove nasce l’idea di questo progetto?

Ivo Corrà: Provo a darti una risposta, perché sai, andando a cercare nel passato a volte ci si rende conto che le idee nascono da coincidenze, da chiacchierate, da tante cose. Diciamo che eravamo in un momento in cui il tema della migrazione era particolarmente sentito, era il tempo del progetto fotografico “Come ti vedo”, ideato insieme all’Ufficio Bilinguismo e lingue straniere per i ragazzi profughi.

Una cosa che senz’altro mi stimola sempre è come attraverso questi lavori io riesca a coniugare le mie diverse professionalità di comunicatore, educatore, mediatore d’arte e di fotografia. Oltre alla fotografia, per 20 anni ho fatto questo tipo di attività a Museion e, per forza di cose, dopo essermene andato, le occasioni di confronto con il pubblico si sono ridotte di molto e per me, l’incontro con l’altro, è un momento di grande arricchimento. La relazione, che sia con l’anziano, il bambino, con una persona in difficoltà, che sia con uno studente o una persona che viene da un altro paese, è per me una imprescindibile fonte di ricchezza. Per questo creare progetti ad hoc su questo tema, fa proprio parte del mio vissuto. Dopo “Come ti vedo”, quasi in modo casuale è nato anche questo percorso, credo proprio partendo dal gioco di parole che ne è diventato il titolo, “You are welcome”, “Tu sei il benvenuto” ma anche “Prego”. Così come anche dalla condivisione di esperienze con persone incontrate in questi anni, alcune rimaste semplici conoscenti, altre diventate amicizie. Posso dire che il progetto sia nato in modo molto spontaneo, senza alcuna intenzione meditata, come invece era stata per esempio l’esperienza a Museion un paio d’anni prima, quando abbiamo coinvolto un gruppo di migranti che usava il museo come propria “base”. Giornalmente si andava a lavorare, trovandosi davanti queste persone che utilizzavano lo spazio senza averne una gran consapevolezza, semplicemente perché era accogliente, caldo, ma soprattutto perché aveva una connessione WiFi grazie alla quale potevano parlare con le persone a casa propria.

Con “You are welcome” si è fatto lo step successivo, dicendo, Un momento! Non ci sono solo quelli che sono appena arrivati! Ma ci sono anche quelli che sono qui da un bel po’. Quelli che lavorano con, per, e insieme a noi. E allora cerchiamo di capire cosa si è sviluppato nel frattempo, che relazioni sono nate, che cosa succede! Perché se vuoi fotografare qualcosa, è perché vuoi capire quel qualcosa, è perché hai una curiosità da placare.

L’elemento spiazzante, tra virgolette, del progetto è che “You are welcome”, non siamo noi a pronunciarlo, ma loro, che da immigrati ora residenti qui, aprono le porte della propria casa. Perché tu lì sei stato invitato e accolto.

Certo, e per questo è stato molto importante il primo passaggio del progetto, in cui sono andato nelle classi di italiano della agenzia Voltaire, dove il mio lavoro e la condivisione della mia privacy mi ha aiutato a trovare alcune persone disposte a fare altrettanto. Io a loro ho presentato le foto della mia famiglia, ho fatto vedere mia mamma, i miei nonni, me da bambino e chiedevo anche a loro di portare delle immagini, e ne ho raccolte tantissime. Non era una cosa da poco! I corsi erano frequentati da molte persone al livello linguistico di base, a Salorno avevo una classe di sole donne, quindi non è stato facilissimo creare la situazione giusta, ma la mia curiosità era proprio di entrare in contatto con gruppi più ampi e approfondire questo tema.

 

 


Varcare le soglie, da parte nostra, ed entrare da amici nelle loro case, è un passaggio per nulla scontato.

Certo che no! Quando fai il fotografo, scattare la foto è forse la cosa più semplice. In un lavoro che non è pubblicità, in cui non c’è il cliente che vuole il ritratto, ma sei tu che vuoi raccontare una storia di persone, queste persone le devi avvicinare, devi conoscerle, devi conquistarne la fiducia. Questo è il grosso del lavoro. Devi riuscire a entrare nella loro intimità, nello spazio in cui operano, vivono. Per questo il ruolo della agenzia linguistica Voltaire è stato molto importante, e anche se non c’è stato il riscontro che speravamo, principalmente per i limiti linguistici delle persone, alcune di loro sono state fotografate e si vedono nella mostra. Poi certo, ho anche fatto leva su persone che già conoscevo, che erano qui da più tempo, e che quindi hanno una rete relazionale più strutturata.

In effetti quello che con questo progetto abbiamo capito è che se sei appena arrivato, non sai nemmeno dove tu sia, e non hai molti contatti con l’altro.

 

Probabilmente in quella prima fase non si è nemmeno pronti psicologicamente al confronto intimo, è possibile che si abbia anche paura ad esporsi. In fondo la porta che si apre, non è solo quella di casa propria, ma del proprio mondo e perché ciò avvenga bisogna sentirsi disposti a farlo.

Certo, e se la lingua può essere un ostacolo, altrettanto fondamentale è che le persone comprendano l’importanza di quello che stai facendo. Questa stessa importanza è quella che chiaramente poi motiva anche te. Io ho sempre la macchina fotografica dietro, faccio spessissimo degli scatti, perché mi piace raccontare attraverso le istantanee, ma mi rendo conto che a volte ho come un blocco, perché in certe situazioni è come se non avessi l’autorizzazione a fotografare, sarebbe come un’intrusione, troppo leggera nella vita di una persona. L’intrusione nella vita altrui deve avere un senso preciso, per essere giustificata. Quindi c’è un lavoro di preparazione per l’incontro, di coinvolgimento, del “facciamo una cosa insieme”.

Proprio con questo stesso spirito abbiamo organizzato una festa nel mio giardino al termine della prima fase del progetto, è stato un momento bellissimo di condivisione e di consacrazione di quello che è stato per me un viaggio. Perché io, ogni volta, ho fatto un piccolo viaggio, e sono entrato in un mondo che non era più il mio. Da Bolzano suoni un campanello, apri una porta e di colpo sei in un’India in miniatura, in una sorta di Marocco in miniatura, in un piccolo Kurdistan.

Quando sei altrove, senti ancora più forte l’appartenenza “a” da dove vieni. Anni fa, negli anni 90, avevo iniziato un lavoro in Germania che vorrei riprendere. Avevo conosciuto delle famiglie che erano lì dagli anni 70, erano poco più grandi di me, e avevano aperto dei ristoranti. Quando andavi a casa loro e nel loro ristorante, ti sembrava di andare in una Italia che non conoscevi più, sembrava di fare un viaggio nel tempo. Andavi in una Italia che ti ricordava la tua infanzia, come se il tempo si fosse un po’ fermato. Perché quando espatri, diventi in qualche modo il custode della tua identità nel preciso momento in cui ti sei spostato “da”. E lì è come se si fermasse, anche se in realtà l’identità è cosa fluida, cambia ed evolve nel luogo in cui hai deciso di stare. E questa combinazione diviene come una realtà fittizia…

 

 

 

…fittizia, ma per loro reale. E’ come se conservassero la propria foto di un certo momento e tu scattassi la foto di una foto!

Per questo diventa un privilegio poter “entrare”, e per loro lo scambio dovrebbe essere una grande soddisfazione. Perché è tutto un gioco di scambio. La prima volta che il taxista a Londra al mio “Thank you” ha risposto “You are welcome”, per me è stato molto più di un prego, era una cosa fichissima! E anche se poi ho scoperto che lo dicevano tutti, era fichissimo lo stesso, perché è una frase che dice anche “io ti accetto”. L’accettazione dell’altro è una cosa fondamentale, ti apre le porte e scopri mondi.

 

Quindi per sua natura, questo progetto potrebbe non finire mai!

Esatto! Infatti mi piacerebbe trovare il modo per continuare a raccogliere ancora più storie. Chi viene a sentire di questo progetto e ha amici con cui condivide tempo e pensieri, lo invito a contattarmi, ci possiamo incontrare, conoscere e spero anche fotografare.

 

La notizia di ora è che la mostra è allestita al Plessi, il museo al confine del Brennero.

Sono super-mega felice! Ringrazio l’Autobrennero per ospitare questa mostra che parla di inclusione, di ospitalità, incontro, di diversità, in un luogo che è un valico, un passo, un confine, che da sempre è stato un punto da cui si passava per andare oltre, dove ci si incontrava, ci si scambiavano cose - anche cose che non si dovevano scambiare -, un luogo carico di significati. Alla parola Brennero, a noi viene subito in mente confine, abbiamo un’età per cui ancora ci ricordiamo quando ci fermavano e ci chiedevano “qualcosa da dichiarare?”. Sarebbe da sottolineare con una azione ancora più potente. Sì, sogno un cartello con su scritto “You are welcome”, in entrambe le direzioni.

E poi c’è lo spazio in sé del museo. Penso sia uno spazio importante perché c’è l’impronta di un artista importante, Plessi. Pensare di avere uno spazio espositivo in un luogo di passaggio, è fantastico. Tante volte il caso di conoscere qualcosa di nuovo attraverso un’esposizione che sia arte, tecnica, storia, gioca un ruolo importante nella nostra vita, quindi, perché no? Vado a bermi qualcosa all’autogrill e incontro una situazione inaspettata. Per me questa è una cosa estremamente positiva. Succede che i musei belli, bellissimi come sono, risultino poco accessibili per molte persone, per una questione di abitudine e tanti altri motivi. Per questo incontrare uno spazio con già un valore artistico in sè, e che al contempo permette di promuovere e far conoscere cose diverse, è una occasione molto bella, molto forte. Ripeto, ho una grande soddisfazione per questo. Se la mostra entrasse in una galleria, non sarebbe mai visibile quanto al Plessi. Magari sì, chi va alla galleria, ha una motivazione in più per guardare il lavoro, magari il 90% delle persone che entra al Plessi passa distrattamente, magari il 5% ci dà un’occhiata, e magari l’1% forse si ferma di più e guarda.

 

Forse anche le persone che non si soffermano, in qualche modo “vedono” ugualmente. Questa volta le immagini forse non si imprimeranno, ma potranno segnare la traccia per una nuova abitudine a captare dell’”altro”.

Certo, il nostro sguardo periferico cattura parecchie cose. Non è che a tutte le cose dedichi una grande importanza. E ci tengo a dire che proprio per questa (e solo questa) mostra sono state realizzate delle cartoline vere e proprie che le persone possono prendere e portarsi via. Sono cartoline che, come impostazione grafica, riprendono le cartoline di un tempo. Anziché avere i saluti da Jesolo o Rimini, abbiamo “You are welcome”.

 

 

 

Concretamente che foto hai scattato?

Ho cercato di creare un ritmo tra due linguaggi fotografici diversi. Per ogni storia c’è una fotografia di gruppo, quella che si fa per ricordarsi di un fatto importante, un matrimonio, una festa, dove tutti consapevolmente si mettono davanti all’obiettivo. Poi c’è una seconda fotografia - quella che mi faceva sudare di più - ed è la fotografia che racconta un momento saliente, spontaneo. In un incontro succedono tante cose, dalla signora marocchina che decide di fare sfoggio dei suoi abiti e di fare una sfilata con la sua amica, al semplicissimo voler fare qualcosa insieme, un gioco a carte per esempio. C’è la spontaneità dell’intimità tra due bambine che in un pomeriggio di gioco, guardano anche la televisione. Questa immagine ha il linguaggio più vicino a quello dell’istantanea, di una foto di reportage, perché cattura un momento reale che accade tra le persone. Quando guardiamo un reportage ci sembra di essere partecipi, ci sembra che tutto accada senza che il fotografo ci sia, ma il fotografo c’è. E non è una presenza che cancelli. Per questo ho rimarcato prima l’importanza di tutto il lavoro precedente gli scatti, cioè conoscere le persone, far sì che abbiano fiducia in quello che fai con loro, in modo tale che la tua presenza venga tra virgolette dimenticata. Anche se tu ci sei e ci sei sempre.

Ogni tanto sei più vicino e ogni tanto ti stacchi. Ogni tanto loro sanno che sei lì e si propongono nella foto di gruppo, davanti a te, dove tutti ti stanno guardando. E ogni tanto la foto esce come se tu riuscissi ad estrapolare dal flusso di cose che accadono, quel frame che racconta.

 

Il racconto di persone che si incontrano, come è normale che sia.

Io ho vissuto sempre un privilegio, quello di entrare e conoscere nuove persone. Non vorrei che questo sembrasse una cosa eccezionale, ma una cosa normale. L’eccezionalità della normalità. E’ così: io vengo ospitato, vengo accolto. Come io invito una persona a casa mia, dove magari preparo il prosciutto e il melone, così mi trovo a casa di amici con i samosa a merenda, a parlare di altre cose, ed è una cosa normale. Questi incontri, questo stare insieme, accadono!

L’eccezionale in questo caso, sono io, il fotografo. Sono io che rendo la cosa eccezionale.