Kultur | Salto Afternoon

Nazione senza territorio

Chi sono gli zingari, cosa fanno, dove vivono? Salto.bz pubblica il testo scentifico di Nico Staiti. Esce in collaborazione con la rivista "Kulturelemente" (#143)
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Foto: Salto.bz

La discriminazione nei confronti degli zingari (uso questa parola ritenuta non “politicamente corretta” perché ogni altra circoscrive insiemi parziali) si fonda su una ignoranza diffusa, che i rappresentanti delle istituzioni non dovrebbero far propria. Chi sono gli zingari, cosa fanno, dove vivono, cosa li distingue dagli altri? Il nomadismo? Il fatto che sono bravi musicisti? O che chiedono l’elemosina? Che mestieri fanno? Sono giostrai, ambulanti, mercanti di cavalli, ladruncoli, muratori, contadini, parrucchiere o donne delle pulizie? A seconda dei gruppi, del genere, delle attitudini individuali, dei periodi e delle necessità possono essere una o più di queste cose, nessuna di esse o molte altre ancora.
Alcuni di loro, alcuni gruppi, sono pressocché invisibili; altri invece appaiono ben visibili, e nettamente diversi da chi gli sta accanto. Quando sono visibili, quando appaiono diversi dagli altri, la loro è una alterità che disturba, a prescindere dalla reale incidenza sulla società. Offende quella idea piccolo-borghese del decoro urbano che ha indotto molti amministratori locali, di ogni parte politica, a intraprendere strombazzate campagne contro di loro. Senza capire che alimentare il pregiudizio ineluttabilmente significa alimentare il fascismo e il razzismo, talvolta anche contro o a prescindere dalle intenzioni di chi l’ha fatto.
Una volta, molti anni fa, chiesi a una ragazza rom kosovara quale fosse la differenza tra loro e gli albanesi. “Nessuna – mi rispose -; solo, i rom parlano romani, mentre gli albanesi parlano albanese.” “Allora siete uguali?” “Ma no, sono diversi in tutto”. “Hanno abitudini diverse dalle vostre, hanno abitazioni diverse, si vestono in altro modo?” “No no, come siamo noi, così sono loro.” “Le loro feste, sono fatte in modo diverso dalle vostre? La musica, le danze, sono diverse?” “No le feste, come le nostre, così sono le loro, i musicisti suonano sia per noi che per loro, la gente balla nello stesso modo. Poi, lo sai, tante volte un rom sposa un’albanese, o un albanese sposa una donna rom, e sempre partecipiamo gli uni e gli altri alle stesse feste”. “Allora dov’è la differenza?” “Beh, noi siamo più liberi.” “Che vuol dire?” “Le nostre feste sono più belle, e poi noi balliamo meglio, loro sono come dei sacchi di patate.” “Senti, ma Miria (una donna che conoscevamo entrambi) come balla?” “Ah, è bravissima, l’hai vista, quando balla tutti si fermano per guardarla.” “Ma Miria è un rom?” “No, lo sai, lei è albanese.” “Ma se Miria, che è albanese, è brava a ballare, dove sta la differenza?” “Loro stanno in campagna, noi viviamo in città.” “Tutti gli albanesi stanno in campagna e in città ci stanno solo i rom? E poi, Miria in Kosovo abita accanto alla tua famiglia” “È vero.” “E allora?” “Allora insomma - disse a questo punto un po’ spazientita - come te lo devo spiegare? Sai quando si fa la ricotta? Che resta il siero? Loro lo bevono.” “E voi no?” “Sì, ma loro di più.”

Il discorso va interpretato secondo forme di pensiero proprie dell’oralità. E la ragazza ha espresso una sintesi simbolica delle differenze: i rom sono più “liberi” perché storicamente non sono legati alla terra; gli altri, anche quando non esercitino attività agricole o pastorali, appartengono comunque a una cultura agro-pastorale: nella rappresentazione che di essi hanno i rom, vivono in campagna, producono la ricotta, bevono il siero, e per fare le feste hanno bisogno dei musicisti zingari. Questo vale a prescindere dalla concreta, specifica declinazione delle cose; non è contraddetto dal fatto che vi siano albanesi che sanno suonare, rom che stanno in campagna e coltivano la terra, che Miria, come provocatoriamente le facevo notare, sia una gran danzatrice: i confini sono sfumati: il siero lo bevono anche loro, ma gli altri “di più”; il mondo è complesso e variegato. Questo loro lo sanno bene, e tra i confini si sanno muovere con leggerezza.
Questo sono i rom: un po’ di più, un po’ di meno degli altri, a seconda delle circostanze e delle epoche. E su queste differenze complesse e impalpabili, su questi fili di fumo si discriminano delle persone, attorno ad essi si sono consumati pogrom.
Certo non è possibile descrivere in breve i molti e molto diversi gruppi zingari presenti in Italia: sinti che vivono in Italia settentrionale e che sono culturalmente contigui ad altri gruppi presenti in Francia, Austria, Germania; rom abruzzesi campani pugliesi calabresi; caminanti siciliani. E, accanto a costoro, che sono italiani almeno dal Trecento (dunque forse da prima di molti tra quelli che oggi si sentono “padroni a casa propria”), quelli di più recente insediamento: soprattutto gente che è scappata dalle guerre che hanno insanguinato la ex-Jugoslavia e, da quando si sono aperti i confini, gruppi provenienti dalla Romania.
Mi limiterò dunque a porre brevemente una questione, relativa a un solo gruppo.
Che fine hanno fatto i rom del Kosovo? Perché, ve lo ricorderete, negli anni Novanta i rom del Kosovo apparivano come un’autentica emergenza, sul piano sociale e su quello della “sicurezza”: non si parlava d’altro che di questi poveretti scappati a una guerra e a delle orrende persecuzioni, che abitavano in campi nomadi e in abusive, vendevano fiori nei ristoranti, chiedevano l’elemosina ai semafori. Poi a un tratto sono spariti, quantomeno alla vista dei più, quantomeno dalle pagine dei giornali. Sono stati sostituiti dai rom rumeni, poi dai nuovi disperati che attraversano il canale di Sicilia. E loro?
Loro sono qui: proprio dove stavano prima. Il tempo di assestarsi, ed ecco: abitano in appartamenti in alloggi popolari, e lavorano per lo più in imprese di pulizia, presso spedizionieri, fanno le guardie giurate in banche e centri commerciali, i camerieri, i baristi. Un ragazzo che da bambino, negli anni Novanta, viveva a Bologna in una roulotte, in un campo nomadi, e chiedeva l’elemosina per strada, poi ha frequentato una scuola alberghiera ed è adesso cameriere in un ristorante della città. E mi diceva che sarebbe importante dar conto pubblicamente della integrazione della sua comunità. Anche perché la loro esperienza può servire a valutare l’accoglienza rivolte ad altri più recenti flussi migratori.
La famiglia del ragazzo, prima della guerra, abitava a Jakova, in Kosovo. Erano venditori ambulanti; qualcuno lavorava in fabbrica. Erano là dal Trecento: da quando altre guerre li avevano spinti a mettersi in viaggio da Oriente.
Questo li contraddistingue: la capacità non già di essere nomadi (il nomadismo è una leggenda inconsistente) ma di mantenere una tendenziale disponibilità al movimento, al cambiamento. Attraverso le generazioni, o addirittura attraverso i secoli. Una persona che appartiene a una famiglia che per secoli è vissuta in Kosovo, in case in città, magari lavorando in fabbrica, quando scappa da una guerra – o anche solo dalla fame – può “riziganizzarsi” per qualche tempo, o anche per generazioni, prima di trovare un nuovo assetto e nuovi rapporti di contiguità con altri.
Come gli ebrei, i rom hanno mantenuto un modo di stare accanto agli altri e di intrattenere rapporti senza essere mai del tutto assimilati alle identità circostanti. In comune con gli ebrei hanno una relativa disponibilità al movimento (coltivata nei secoli in ragione delle persecuzioni), di essere una popolazione in diaspora, di condividere (almeno in parte) una propria lingua che affiancano a quella locale. Ma non hanno una religione che li accomuna, non sono un popolo eletto, non c’è una nazione rom, con un proprio governo, che possa far la guerra ad altri popoli.
Nella complessa dialettica tra sedentarietà e spostamenti, tra identità locali e identità di gruppo, tra marginalità e centralità sono gente da cui ci sarebbe molto da imparare: se non altro nel modo di costruire identità relative, leggere, circostanziali, non monumentali.

SALTO in collaborazione con: Kulturelemente