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“Non basta più essere solo bravi”

La pluripremiata 17enne studentessa del Ritz di Merano Vera Maltauro sulla cucina del futuro, lo star system della ristorazione e quell’agnello portafortuna.
Vera Maltauro
Foto: Vera Maltauro

No, a diciassette anni non si può essere seri” sentenziava il poeta Rimbaud. Una massima che però, nonostante il largo e instancabile sorriso, sembra non valere per Vera Maltauro, studentessa di quarta della scuola alberghiera Cesare Ritz di Merano, che nella trincea della cucina ha già piantato i semi del suo futuro professionale. La giovane promessa della gastronomia altoatesina, originaria di Desenzano del Garda, si è fatta notare per essere stata premiata da una giuria composta da chef stellati nell’ambito della seconda edizione del concorso “Mattias Peri”. Con il suo piatto “Carrè di agnello ai sapori autunnali con nocciole e cioccolato al latte, gröstl di patate e salsa al timo” si è piazzata seconda aggiudicandosi anche il premio speciale come miglior “Talento del gusto”. E, assicura la wannabe chef, questo è solo l’inizio.

 

salto.bz: Vera, a 17 anni sembri avere le idee molte chiare su quale sia la tua strada, come nasce questa passione per la cucina?

Vera Maltauro: Da mia madre. A casa mia il buon cibo è sempre stata una costante. Ricordo i pranzi della domenica con la nonna, quando cominciavamo a cucinare alle 9 del mattino, ravioli di zucca, lasagne, io che assaggiavo e ascoltavo. Stavo bene, e così è da allora: quando mi trovo in cucina io sto bene, sono felice, so quello che devo fare, e anche se ho ancora molto da imparare sto coltivando passo dopo passo piccoli grandi successi.

È opinione diffusa che oggi gli studenti di cucina cerchino la scorciatoia della celebrità, che vogliano solo diventare famosi in televisione, è così?

Credo che se uno chef ha lavorato sodo per tanti anni e a un certo punto ha l’opportunità di andare in tv non vedo perché non debba farlo. Non toglie nulla alla sua reputazione. Che noi giovani dobbiamo farci le ossa e rimboccarci le maniche è indubbio. Detto questo la televisione non rispecchia quella che è la realtà nelle cucine, che è molto diversa da quella che appare. A volte, in certi programmi, sembra tutto così facile, ma la mole di stress a cui è sottoposto chi lavora in questo mondo è alta, usurante, c’è molto rigore.

 

 

La spettacolarizzazione della ristorazione non ti disturba?

Dico che non è per forza un cosa negativa. Oggi è tutto molto rapido, diretto, si usa Instagram per testimoniare fotograficamente quello che facciamo o creiamo, si sono evoluti i mezzi, i metodi. Pensiamo per esempio ai piatti poveri, pasta e patate, fagioli e cozze, che acquistano nuova vita magari serviti in un modo diverso dal solito. Tutto sta nell'esaltare ancora di più quello che già c’era prima.

E quegli YouTuber che fanno video senza saper cucinare?

Mi irrita molto vedere persone coperte di bracciali, anelli, coi capelli lunghi e sciolti, come se in cucina si usasse così. Armeggiano con pentole e padelle come se sapessero quello che stanno facendo. 

Credo che se uno chef ha lavorato sodo per tanti anni e a un certo punto ha l’opportunità di andare in tv non vedo perché non debba farlo. Non toglie nulla alla sua reputazione

Come nasce un piatto?

Non avendo paura di tentare. Penso che le influenze, il mischiare culture diverse e il prendere spunto da più parti siano cose che arricchiscono molto. 

Innovazione e sperimentazione o tradizione: cosa ti attrae di più?

Tutte e tre le cose insieme. Nessuno crea veramente qualcosa, si parte sempre da un piatto già esistente a cui si conferisce una specifica personalità. Partire da vecchie ricette e apportare quel pizzico di novità è la chiave vincente.

Tre qualità che deve avere uno chef oggi?

Professionalità in primis, il tocco personale e quindi la capacità di distinguersi dagli altri, e… sapersi vendere. Perché siamo onesti, al giorno d’oggi non basta più essere “solo” bravi. Il cuoco una volta era visto come una persona rozza, "sepolta" nella sua cucina, oggi il mestiere è cambiato. Uno chef non deve avere dalla sua solo conoscenza ed esperienza ma contemplare anche l’aspetto imprenditoriale. 

I tuoi mentori?

Molte sono le persone che ammiro ma al primo posto ci sono gli chef della mia scuola, quelli che mi hanno seguito fin dal primo anno e che mi hanno “scoperta”: Luigi Ottaiano e Salvatore Capasso. Poi c’è Andrea Tortora, pastry chef del St. Hubertus, regno di Norbert Niederkofler. Con Tortora ho avuto l’opportunità di partecipare a un evento e sentirlo parlare delle materie prime, delle nocciole, della panna, del latte, con quel trasporto, mi ha estasiata risvegliando in me la passione per la pasticceria, il mio primo amore. Così ho chiesto e ottenuto di poter fare uno stage con lui, un’esperienza che non dimenticherò mai. 

 

 

Qualche anno fa in un’intervista Gualtiero Marchesi disse che la cosa più goduriosa è mangiare a morsi con le mani una mozzarella di bufala appena fatta. Per te qual è, in cucina?

Data la mia proverbiale golosità direi togliere con il dito la crema al mascarpone direttamente dal leccapentole e poi gustarmela. Quella sì che è una goduria. 

Parliamo di "cucina di genere". Trovi che ci sia ancora poco riconoscimento per le donne chef? Qual è la tua esperienza fra le mura della scuola?

C’è da dire prima di tutto che siamo di meno rispetto ai colleghi maschi, anche a scuola è così. In generale la cucina è un ambiente ancora dominato dagli uomini. Noi dobbiamo sgomitare per emergere. C’è quella mentalità vecchia ma ancora persistente che porta spesso a dire “questo una donna non lo può fare”.

Uno chef  deve possedere tre qualità: professionalità in primis, il tocco personale e quindi la capacità di distinguersi dagli altri, e… sapersi vendere. Perché siamo onesti, al giorno d’oggi non basta più essere “solo” bravi

La cucina del futuro? 

Io so solo una cosa: gli insetti non li voglio mangiare [ride]. Dicono che i grilli sappiano di pollo ma non ho alcuna intenzione di scoprire se è vero. È una nuova tendenza culinaria che mi lascia molto perplessa, spero che acqua e farina ci siano sempre, male che vada un panino me lo potrò fare!

E nel tuo di futuro cosa vedi?

Nel mio Paese le cose non vanno come dovrebbero, la meritocrazia è ancora un’utopia e l’approccio al lavoro non è sempre dei migliori, spero quindi di andare via dall’Italia, anche perché i nostri chef fanno la differenza all’estero. Prima però vorrei fare esperienze in posti di alto livello. A maggio ad esempio sarò a Milano per uno stage con Giancarlo Morelli, chef stellato e patron di Pomiroeu. E in mezzo tante prove, ricette prese dai social, dai libri di cucina, valanghe di domande ai miei chef per assimilare il più possibile. 

Tutto è partito da quel famoso agnello…

Un’emozione unica. Il tema di questa edizione era “Buono come un agnello”, e con chef Ottaiano abbiamo creato una ricetta da zero. Carrè d’agnello ai sapori autunnali con cioccolato al latte e nocciole, gröstl di patate e salsa al timo, davvero buono. Il premio vinto mi permetterà di passare quest’estate una settimana all’Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana. Non vedo l’ora.

In generale la cucina è un ambiente ancora dominato dagli uomini. Noi dobbiamo sgomitare per emergere. C’è quella mentalità vecchia ma ancora persistente che porta spesso a dire “questo una donna non lo può fare”

Il talento che va a braccetto con la gavetta.

E anche tanto divertimento. Un’altra esperienza bellissima è stata quella fatta insieme ai miei compagni e al foodblogger Stefano Cavada con il programma Food revolution che andrà in onda ad aprile su Rai 3. Bisognava riprendere delle ricette tradizionali e re-inventarle senza trascurare le influenze mediterranee. Gestirsi in brigata non è stato facile, ma alla fine la soddisfazione è stata immensa. In quell’occasione ho conosciuto una signora che poi ho ritrovato in giuria durante una gara in Fiera a Bolzano, dove ero stata designata capo-partita. La signora ha assaggiato la portata, poi è venuta da me e ha detto: “Vera, quando ho chiuso gli occhi ho sentito che in quel piatto c’era la tua mano, c’eri tu”. Ecco, questo è quello conta: il ricordo di un determinato sapore che si lascia a una persona, trasmettere un'idea precisa, che dovrebbe essere il fine di ogni chef. In questo mestiere bisogna essere animati da un’inesauribile curiosità e dalla sete di conoscenza.

Testa bassa e lavoro duro, allora.

Assolutamente sì. Sono una “sensibile-tenace”, mi disse una volta qualcuno. Sono molto emotiva ma anche molto competitiva e critica con me stessa, è ciò che mi spinge a migliorare, a non accontentarmi. Lo dicono anche i grandi chef che non si arriva davvero mai in questo lavoro. Ho la fortuna di avere dei genitori che mi sostengono. Nel loro negozio (la piadineria MamamiA in via Roen a Bolzano, ndr) ho la possibilità di sperimentare, di dare sfogo alla creatività. E un giorno mi piacerebbe avere una pasticceria o un ristorantino tutto mio.

Obiettivo stella michelin?

Beh, se devo sognare sogno in grande.