Gesellschaft | Il film

Lezione di umanità

In provincia di Bolzano il modello di accoglienza SPRAR è stato un successo. Un film documenta un'esperienza che, però, rischia di non ripetersi.
Capaci di volere
Foto: Youtube

I muri di una casa non sono inerti. Ascoltano. E se finora i nostri muri sono stati abituati a sentire le voci di lingue come il tedesco, l'italiano, il ladino, adesso sono tante e diverse, le lingue dal mondo che rimbombano nelle stanze, chiedendo di essere ascoltate. Cosa vuol dire accoglienza si può spiegare anche così, con le parole del regista Paolo Vinati, il quale – assieme alla poetessa Roberta Dapunt – ha realizzato uno splendido docu-film (intitolato “Capaci di volere / Imstande zu wollen”, e sul titolo torneremo subito) che racconta la storia della prima esperienza SPRAR avvenuta in provincia di Bolzano, per l'esattezza in alcuni comuni della Val Badia e della Val Pusteria, tra il 2018 e la fine di questo anno.

Paesi che accolgono, ma con difficoltà

Ma dell'importanza del titolo, dicevamo. “Capaci di volere” è stato anche un po' ipocritamente ribattezzato “Paesi che accolgono” in occasione della prima proiezione del film, avvenuta il 3 settembre a Brunico. La realtà non si può però edulcorare. Prima di arrivare a questo progetto di accoglienza, infatti, si sono dovute superare numerose resistenze, ci si è dovuti scontrare con una diffidenza ostinata (sia da parte della popolazione, che da parte delle istituzioni), e se il risultato alla fine è stato positivo (come mostra il film) lo si deve particolarmente a un gruppo di cittadini che sono stati, appunto, capaci di volerlo.

Roberta Dapunt sintetizza così il percorso compiuto: “Abbiamo lavorato al film per due anni, seguendo anche il ritmo delle accoglienze e della disponibilità ad essere filmate. Paolo ha iniziato con le riprese della terribile riunione di La Valle nel 2016. Da lì è iniziato tutto. Johann Rubatscher (Hansi), assessore di La Valle, dopo la riunione ha letto sul giornale Zebra del progetto SPRAR, e assieme al sindaco Angelo Miribung e ad Annamaria Fiung del consiglio parrocchiale sono andati in Val di Fassa dove il progetto era già attivo e si sono informati, dopodiché sono andati dal restio Arno Kompatscher che non ha potuto fermarli, il governo provinciale infatti non ha mai sostenuto questo progetto direttamente, bensì i CAS, che come noto seguono una impostazione molto diversa. La Valle si è dimostrato un comune esemplare grazie a queste tre persone e ad alcune altre che poi si sono subito rimboccate le maniche. Che ora si chiuda il progetto dovrebbe essere uno scandalo, visto che ha dimostrato di essere un ottimo progetto di integrazione”.

Il capoluogo non accoglie e il viaggio sembra già terminato

Quello che si capisce benissimo dal film è proprio questo: può esservi accoglienza solo se piccoli gruppi di migranti vengono alloggiati in case che diventano la loro casa, se quindi hanno la possibilità di lavorare e farsi apprezzare dalla popolazione locale, abbattendo barriere create da una informazione drogata. Al contrario, ammassati in grande numero in centri che non differiscono troppo da strutture detentive, costretti a passare gran parte del tempo senza un'attività foriera di sbocchi professionali e, soprattutto, isolati dal resto della cittadinanza, in questo modo si creano i presupposti di una marginalità fatta di diffidenza e ostilità.

Ma perché una provincia ricca come quella di Bolzano ha manifestato così tanta difficoltà a realizzare sul proprio territorio questo tipo di modello? Perché, soprattutto, non si è potuto avere nulla di simile nel capoluogo, dove non si è stati capaci neppure di aprire un centro SPRAR per i minori? A rispondere è Gianfranco Schiavone (presidente di Consorzio Italiano di Solidarietà – Italian Consortium of Solidarity (ICS) – Ufficio Rifugiati, ONLUS, Trieste, e consigliere dell'Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), intervenuto di recente alla presentazione del film organizzata online dalla Fondazione Alexander Langer. “Qui osserviamo un comportamento a dire il vero quasi schizofrenico: da un lato ci si lamenta che la pressione dei migranti su Bolzano, sul capoluogo, è insostenibile, e si vorrebbe quindi imporre una loro ridistribuzione sul territorio, però non si adotta l'unico modello che, dal 2002, sarebbe in grado di raggiungere questo scopo. Evidentemente si pensa che ce la si possa fare contando solo sulle proprie forze, diffidando di tutto ciò che arriva dall'esterno”. Ed ecco così quello che accade. Nonostante il successo dimostrato, nonostante i complimenti incassati, il viaggio sembra già terminato. Un po' perché l'istituzione stessa dello SPRAR cambierà pelle (e nome), dopo essere stato indebolito dai decreti “sicurezza” voluti dall'ex Ministro dell'Interno Matteo Salvini, e dovrebbe quindi essere rimodulata secondo i criteri del nuovo Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI) descritti dal recente decreto Lamorgese; un po' perché nessuno (né a livello provinciale né tantomeno a livello comunale, a cominciare da Bolzano) ha manifestato sinora l'intenzione di muoversi sul nobile (ma fragile) sentiero tracciato. Che dunque rischia di essere nuovamente sommerso dalla malapianta dell'indifferenza. 

Essere, la parola più necessaria a qualunque nostra espressione

Uno dei testi composti da Roberta Dapunt, che arricchiscono lo scarno racconto delle immagini e delle testimonianze, recita: “L’essere umano, dobbiamo dedicare tempo al verbo: essere umano. Poiché “essere” è il verbo primo, in esso la facoltà sensoriale e spirituale dell’esistenza. Essere è la parola più necessaria a qualunque nostra espressione. Differisce da ogni altro verbo, perché il suo uso è assoluto e conferma, mantiene saldo il valore indiscutibile, che qualunque soggetto è innanzitutto esistente. Uso il verbo essere? Esprimo l’esistenza, l’essenza in sé, l’atto puro, senza ulteriore determinazione. È questa la prima verità di un cittadino del mondo. Impariamola ancora di più a scuola, nei quaderni, sulla lavagna, dal computer, ma non consegnando a questa disciplina pochi minuti alla settimana, bensì molto, molto più tempo e con i compiti a casa”. Una lezione poetica e umana dalla quale, evidentemente, ben poco invece abbiamo imparato, nonostante il luminoso esempio della Val Pusteria stia lì a dimostrare che, forse, sarebbe ancora possibile farlo.