Kultur | La recensione

Accardo, il diavolo e la chiarità

Le storie narrate dall'autore siciliano nel libro “Il diavolo d'estate” sono portate a compimento da un congegno letterario animato da una radicale esigenza di verità.
Il diavolo d'estate
Foto: Giovanni Accardo

Un libro Ronzani, il n. 1 della collana «Attravèrso», pubblicato nella primavera del 2019 e riconoscibile sugli scaffali delle librerie per l'animale alato, forse un condor, che squarcia il giallo cadmio della copertina: si tratta de Il diavolo d'estate, l'ultimo romanzo di Giovanni Accardo, autore siciliano che vive a Bolzano, insegnante di materie letterarie al Liceo delle Scienze Umane «Pascoli» e collaboratore del giornale «Alto Adige».

Testo ibrido, bilicato tra il genere poliziesco e il romanzo di formazione, il libro è ambientato – ma forse è più corretto dire incistato – nella fissità meteo-antropologica di una provincia agrigentina attraversata da trame narrative che si incrociano e si sovrappongono senza però confondersi, dando l'impressione, a tratti, di scorrere parallele per non intorbidire la chiarezza generale del racconto: nell'estate del 1978 quattro amici si incapricciano di adibire la corte antistante la villa del barone Farina a discoteca all'aperto, per accendere i cuori e le notti del paese con le facce luccicanti di una mirror ball; Salvatore, adolescente chiuso nel bozzolo familiare eppure intriso di un senso della possibilità che lo permea di futuro, viene iniziato al cerimoniale del sesso da Angela, una giovane sarta dall'aria “selvaggia, i capelli neri e lunghi che pareva non li avesse mai tagliati”, percorsa dalla scossa della poesia; le forze dell'ordine indagano a seguito del ritrovamento di un cadavere rinvenuto tra le mura della discoteca devastata da un incendio, che si rivelerà presto doloso.

Queste trame hanno uno svolgimento lineare: cominciano, filano via fluide, finiscono. Nel Diavolo d'estate – anche così può palesarsi la forza munifica della letteratura – tutto ha piena attuazione: le indagini degli inquirenti si concludono positivamente con l'identificazione del colpevole e la ricostruzione esatta dell'incendio e del delitto; quello della discoteca, sebbene la sua esistenza abbia i giorni contati, è un progetto che si realizza; la formazione civile di Salvatore si raggruma, giungendo a un'ideale conclusione, nell'adempimento di un atto estremo: la testimonianza in tribunale in favore della verità, ma contro un amico e avverso la legge non scritta dell'isola, secondo cui la parola migliore è quella taciuta.

 

 

Potentissimo generatore di atmosfere, Il diavolo d'estate è un tentativo di rappresentazione della provincia siciliana all'altezza della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, che diventa senza accorgersene un affresco riuscito della provincia italiana

Nel libro ogni vicenda ha uno sviluppo chiaro, ogni parola è chiara, ogni frase si configura come la concatenazione chiara di parole chiare. Le storie narrate da Accardo, seppure contrastate dalla forza pervasiva del clientelismo, dell'emigrazione, della mafia, nonché da un'enigmatica attitudine all'immobilismo che paralizza il paesaggio e inceppa i cervelli, sono portate a compimento da un congegno letterario animato da una radicale esigenza di verità, in grado di spruzzolare una polverina chiara anche sulle zone più umbratili e retrive della Sicilia arcaica. In virtù della profonda coerenza tra il piano stilistico del romanzo e le trame che lo attraversano, la grinzosità del reale viene allisciata da una scrittura illuministica, al servizio della ragione, un moto alfabetico costante che tende alla chiarità, la raggiunge e poi si rimette in moto per inseguire di nuovo la chiarità: una scrittura meridiana che scaccia le ombre, distende le pieghe in cui si annidano residui di irrazionalismo e prende a pedate il diavolo del titolo fino a espellerlo dal romanzo. Sempre sotto la spinta di questo radicale bisogno di chiarezza, l'autore limita il ricorso ai salti logici, alle digressioni, agli inciampi del pensiero e a tutti quegli strumenti stilistici in grado di esibire la bellezza faticosa del concetto, ma che potrebbero increspare la superficie liscia del plot; una superficie orizzontale, sincronica, avvolta nella pasta di una prosa chiara che contiene senza mostrarli, o mostrandoli solo in parte, gli accadimenti principali del 1978, distribuiti uniformemente sotto il livello della narrazione, quasi fossero i pannelli radianti di un riscaldamento a pavimento con la funzione di mantenere alta la temperatura del racconto: in ordine cronologicamente sparso ma disposti in fila indiana, ecco allora lo scandalo Lockheed, Basaglia che spranga i manicomi, la foto di Moro in prima pagina, Giovanni Leone che se ne va, i 33 giorni di Papa Luciani, la prima puntata di Happy days, ancora Moro in prima pagina, Sandro Pertini che viene, il varo della 194 annunciato dal TG1, un gol di Paolo Rossi ai Mondiali d'Argentina, mentre Tu di Umberto Tozzi si diffonde per le strade da Tindari a Bolzano.

 

 

Potentissimo generatore di atmosfere, Il diavolo d'estate è un tentativo di rappresentazione della provincia siciliana all'altezza della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, che diventa senza accorgersene un affresco riuscito della provincia italiana; una superficie letteraria liscia, piatta, orizzontale, entro cui il lettore può muoversi e orientarsi con disinvoltura, eppure graffiata di continuo dalle unghiate del dialetto, l'elemento intrattabile, scontroso, irriducibile a qualsiasi tentativo di domesticazione, cui è affidato il compito di scorticare il testo per offrire spazi alla profondità. Avendo frequentato a lungo il laboratorio di parole di Vincenzo Consolo, Giovanni Accardo sa bene che quando la letteratura e il dialetto siciliano incrociano i loro percorsi strusciandosi appena, può accadere che un grumo di parole cada nel tempo, rendendosi protagonista di un volo a precipizio lungo l'asse della diacronia, un ruzzolone verticale che lo porta a impattare e perforare uno dopo l'altro, dall'alto in basso, diversi strati sovrapposti di eventi, culture, idiomi, storie, masse d'aria. Precipitando, il grumo non si limita ad affondare strato dopo strato, dal più recente a quello più antico, ma ravviva tutto, rianima tutto quel che urta, tirandosi dietro le truppe americane, i Piemontesi, le camicie rosse dei garibaldini, il regno delle Due Sicilie, sentori d'Austria, i Savoia, gli Aragonesi, i Normanni, i Berberi a cavallo, i Bizantini, gli Ostrogoti, i Vandali, i Romani, il mondo ellenico tutto intero, tuffandosi infine nelle profondità di un mare ibrido, dove risuonano, seppure attutiti dall'acqua, colpi di lupara e «parole pronunciate da voci calde, di petto, contenenti ampie dittongazioni, acuti rotacismi che ricordano il greco, e gutturalità da gole arabe». Quest'ultima citazione, quella delle «dittongazioni» e degli «acuti rotacismi», è tirata via da un saggio di Giuseppe Antonio Borgese, La Sicilia, pubblicato dal “Touring Club Italiano” nel 1933: un piccolo capolavoro, uno dei tanti che il libro di Accardo, seppure in modo elegantemente dissimulato, ha il merito di evocare.

 

(Il testo pubblicato qui sopra riassume alcuni dei temi trattati da Giovanni Accardo, Edvige Vono e me in occasione di una serata di lettura dedicata a "Il diavolo d'estate" e organizzata dall'associazione “Heimat Brixen, Bressanone, Persenon” nel mese di novembre scorso).