Gesellschaft | La ricerca

“Revenge porn, non c’è solo la vendetta”

Gian Marco Caletti e il progetto Creep sulla diffusione di immagini esplicite: il viaggio negli Usa, la norma italiana da migliorare, il consenso principio fondamentale.
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Foto: Pixabay

salto.bz: Gian Marco Caletti, dottore di ricerca in diritto penale all’università di Bologna e assegnista di ricerca all’ateneo di Bolzano, a che punto è il progetto “Creep-Criminalizing Revenge Porn?” su un fenomeno attuale come la diffusione senza consenso di immagini intime?

Gian Marco Caletti: il progetto è partito a gennaio, poi è stato presentato a giugno con un workshop inaugurale al quale hanno partecipato 15 relatori. Il titolo completo è “Creep-Trust me, it’s only for me. Criminalizing Revenge Porn?”:  la ricerca si propone di studiare il tema della divulgazione non consensuale di immagini intime o sessualmente esplicite con l’idea di migliorare la sua “criminalizzazione” in forma specifica, ovvero la disciplina del reato introdotto quest’anno nel codice penale (art. 612-ter c.p.). Il problema è proprio questo: si tratta di un fenomeno di cui tutti parlano, ma senza conoscerne a fondo la complessità. Per questo miriamo ad approfondirne tutti gli aspetti, a partire da quelli giuridici fino ai risvolti psicologici ed informatici. La cifra distintiva del progetto è sicuramente l’interdisciplinarietà.

 

Perché proprio il “revenge porn”: si tratta di un fenomeno nuovo, cresciuto a dismisura negli ultimi anni con la diffusione del digitale?

Sicuramente il tema è molto attuale. Personalmente, posso dire perché ho iniziato a studiare l’argomento: nell’autunno 2016 mi trovavo a Cambridge, nell’ambito del mio dottorato a Bologna, per approfondire tutt’altre tematiche. Mentre ero lì, in Italia, è avvenuto il tragico suicidio di Tiziana Cantone (la donna che si tolse la vita dopo che, almeno secondo la versione della sua famiglia, l’ex fidanzato aveva diffuso online alcuni filmati a sfondo sessuale che la ritraevano, ndr). Rimasi molto colpito dalla durezza di quella vicenda: una ragazza normale era diventata suo malgrado famosa in tutto il Paese per un video erotico. Cominciai quindi ad interessarmi, domandandomi se il diritto penale – la mia materia – potesse fare qualcosa, e che cosa. Mi accorsi che in Inghilterra avevano da poco approvato una legge sul “revenge porn”, introducendo un reato specifico. Mi sembrava fosse un problema che potesse soltanto crescere e coinvolgere sempre più persone. Allo stesso tempo, le indagini relative alla vicenda di Tiziana Cantone erano state archiviate in tempi rapidissimi senza risultati. Successivamente, nel 2018, ho pubblicato il primo articolo scientifico in italiano sull’argomento.

 

La vendetta, la “revenge”, non è l’unica motivazione che casisticamente si cela dietro alla diffusione non consensuale di immagini sessualmente esplicite.

 

In seguito ha visto il bando per il progetto pubblicato a Bolzano, è così?

Sì. Devo dire che il taglio del progetto è molto interessante, proprio perché interdisciplinare. “Creep” non si limita a interrogarsi sui profili giuridici del fenomeno, ma si propone di affrontare il tema a tutto tondo. Sebbene il campo giuridico penalistico dal quale proveniamo sia io che la coordinatrice del progetto, la docente Kolis Summerer, sia il riferimento di base, nel team ci sono la professoressa Antonella Brighi, psicologa, Sergio Tessaris, informatico, e Laura Valle che insegna diritto civile. Inoltre, abbiamo tanti partner come la polizia postale di Bolzano, le reti antiviolenza sulle donne, e università straniere come Innsbruck (Prof. Margareth Helfer), Cambridge e l’australiana Flinders. Per chi fosse interessato, tutte le informazioni del caso si trovano sul nostro sito, dove diamo anche notizia di tutte le iniziative del progetto.

  

L’avanzamento della ricerca ha dovuto fare i conti con un colpo di scena: l’approvazione  del Codice rosso che ha disciplinato anche il revenge porn. Com’è andata?

In effetti, quando è stato elaborato il progetto non era immaginabile che a solo sei mesi dall’avvio ci sarebbe già stata una legge penale, anche perché una proposta di legge in argomento era uno dei risultati che attendevamo dal progetto. Abbiamo monitorato costantemente l’iter legislativo, sin dalle prime proposte di criminalizzazione - ad esempio quella dell’onorevole Laura Boldrini, che aveva invitato me e le docenti Summerer e Brighi alla Camera -, tant’è che il legislatore ci ha considerato come un interlocutore. . Alla fine, il reato che mira a reprimere il revenge porn è stato introdotto nello scorso luglio, in maniera improvvisa, sull’onda del caso di Giulia Sarti (la deputata dei 5 stelle vittima della diffusione in rete di immagini private, ndr), scoppiato mentre alla Camera si discuteva il Codice rosso sulla violenza sulle donne. Il nuovo reato è stato inserito per via emendativa proprio all’interno del Codice rosso e approvato nel giro di due giorni. In occasione di un’audizione presso il Senato, ho fatto notare come ci fossero delle gravi lacune applicative nella norma, ma essendo la nuova fattispecie inserita in un più ampio provvedimento legislativo, modificarla avrebbe comportato un ritorno di tutto il Codice rosso alla Camera.

Nel 79% dei casi la divulgazione di immagini non è dettata da finalità vendicative.

 

Cosa non va nella formulazione del reato?

È una norma che prevede una pena esemplare, fino ai sei anni, che nel suo genere è altissima, persino più alta della pornografia minorile, ma sono tantissimi i casi in cui rischia di restare inapplicata. Oltre ai problemi di applicabilità della riforma, non condivido l’approccio: sicuramente – almeno a mio avviso – era necessaria l’introduzione di un reato specifico, ma doveva essere accompagnata da una serie di altri strumenti per contrastare su più fronti il fenomeno e, soprattutto, limitare i danni una volta che è avvenuta la diffusione delle immagini. Mi riferisco ad educazione digitale nelle scuole, percorsi di sostegno psicologico per le vittime, rimozione di contenuti sulle piattaforme online, sostegno a chi deve svolgere le indagini e tanto altro. Ovviamente, la fretta che ha caratterizzato l’iter legislativo ha impedito di ragionare su questi aspetti.

 

Cosa può succedere in concreto?

Il problema nasce dal fatto che è stato previsto, al secondo comma, che chi riceve l’immagine che poi divulgherà commettendo il reato debba avere la finalità di arrecare nocumento alla vittima, diversamente da chi, al primo comma, ha realizzato le immagini insieme alla vittima. In pratica deve agire con un intento particolarmente malevolo, lo scopo di danneggiare la vittima, crearle stress. Si tratta di qualcosa molto difficile da provare. Non a caso, l’unica indicazione che emerge univocamente dal dibattito giuridico internazionale sul revenge porn è quella di non prevedere un requisito di questo tipo:  la vendetta, la “revenge”, non è l’unica motivazione che casisticamente si cela dietro alla diffusione non consensuale di immagini sessualmente esplicite.

 

 

Bisogna quindi andare oltre lo stesso concetto di “revenge porn”?

Sì. Questo neologismo è fuorviante. Il revenge porn avviene in tantissimi casi in modo banale, c’è chi lo fa per soldi, chi per divertirsi, chi per leggerezza senza pensare alle conseguenze, chi a fini bullistici. In America si comincia giustamente a parlare di “pornografia non consensuale”: tutte le immagini intime divulgate senza il consenso della persona interessata costituiscono reato. La casistica è ampia: non è detto che sia l’ex-partner a compiere l’illecito, oppure che abbia una finalità di vendetta. Un recente studio che ho trovato nella mia recente esperienza a New York dice che nel 79% dei casi la divulgazione di immagini non è dettata da finalità vendicative.

 

La finalità di nuocere diventa quindi un ostacolo per la punizione del reato previsto dal nuovo articolo 612-ter?

Esattamente. Come dicevo, il secondo comma sanziona chi distribuisce l’immagine dopo averla ricevuta, sempre che serbi questa finalità di arrecare nocumento alla vittima. Mi pare che, nelle intenzioni di chi ha compilato la norma, questa parte dovesse valere per i “secondi distributori”, ovvero  coloro che si limitano a ridistribuire immagini intime già pubblicate da qualcun altre e a capillarizzarne la diffusione. Ebbene, qui sta il problema: non specificando da chi viene inviata l’immagine “ricevuta”, il mittente può essere anche la stessa persona raffigurata. Dagli studi americani, emerge che l’80% dei casi di “revenge porn” proviene da foto ricevute e non prodotte. L’esempio più frequente è quello tra adolescenti: una ragazzina minorenne invia la propria foto nuda al fidanzatino - è il cosiddetto “sexting” -, il quale poi la divulga senza consenso. Dunque, nella maggior parte dei casi si deve applicare questo comma, ma con il rischio come ho spiegato prima che non si riesca a provare la finalità di arrecare nocumento.

 

La pena contemplata è severa ma rischia di essere inutile?

Esatto. Risulta esemplare ma probabilmente inefficace. Perlomeno nell’80% dei casi.

 

Come si è modificato il progetto di fronte all’accelerazione legislativa?

La ricerca rispetto ai piani originari ha dovuto ricalibrarsi, visto che ci eravamo riproposti di affrontare per ultima la parte legislativa, nell’intento di offrire dei suggerimenti per una legge una volta effettuati gli approfondimenti giuridici, psicologici e tecnico-informatici. Ma il discorso è sempre valido: terremo attivo il dialogo con il legislatore, soprattutto sulle tematiche cui alludevo prima che non sono ancora state affrontate. Nei prossimi mesi, poi, ci concentreremo su un approfondimento statistico, visto che in Italia non abbiamo nulla del genere. Ci sono tanti dati americani, australiani, giapponesi, qualcosa a livello europeo, ma nulla nel nostro Paese. Ci stiamo organizzando soprattutto per un’indagine statistica sul territorio, in Alto Adige.

 

Lei è stato recentemente ospite per due mesi presso la Law School della New York University, una delle migliori università americane. Quali conoscenze ulteriori per il progetto Creep ha potuto riportare con sè in Alto Adige?

L’intento era studiare in chiave comparata le soluzioni adottate in altri Paesi. Gli Stati Uniti sono interessanti perché hanno non una, ma circa 40 leggi sul “revenge porn”, visto che quasi ogni singolo Stato ha la sua. Il modello migliore mi sembra proprio quello di New York, l’ultimo territorio a legiferare, con una normativa molto equilibrata. Essendo arrivati per ultimi hanno fatto tesoro degli errori dei primi, come i Californiani. A differenza nostra…

 

Emerge ancora una volta l’importanza del consenso, pur previsto dalla legge italiana?

Sì. Il soggiorno a New York è stato molto stimolante anche su punti specifici. Una cosa che ho imparato lì e che proporrò in un articolo che pubblicherò a breve è questa. Negli Stati Uniti si è affermato il principio, che poi è anche alla base del movimento “me too”, per cui è violenza sessuale ogni volta che non c’è un consenso esplicito al rapporto sessuale, non solo quando c’è un dissenso manifestato espressamente. Naturalmente, si tratta di un cambio di paradigma molto complesso relativamente al contesto dei rapporti sessuali. Vorrei proporre lo stesso meccanismo per il “revenge porn”, dove creerebbe molti meno problemi applicativi. Il testo dell’art. 612-ter c.p. peraltro consentirebbe già di dire che: ogni volta che si vuole divulgare un’immagine sessualmente esplicita bisogna chiedere il permesso della persona interessata, che nel 99% probabilmente verrà negato. È un adempimento facile nella società digitale in cui viviamo. Una società che, peraltro, ormai ci chiede liberatorie per qualsiasi cosa. In questo modo nessuno potrebbe dire a posteriori “mah mi ha mandato le sue foto, pensavo fossero divulgabili”. Così ci sarebbe una tutela maggiore per le persone.

 

Vuole aggiungere altro?

In conclusione mi permetta di ringraziare l’Università e la Provincia autonoma di Bolzano, che mi ha accordato un finanziamento integrativo per il mio periodo di mobilità. È stata davvero un’esperienza unica sul piano scientifico, ma anche su quello umano.