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La carenza di comunicazione

“Comunicare” deriva dal latino “communicare”, mettere in comune. Riuscire a comunicare vuol dire riuscire a “essere in comunione”, “costruire una misura comune”: dobbiamo imparare di nuovo a farlo, oltre e fuori i social media, per tornare dall’”Io” al “Noi”. Che è la grande sfida dei nostri tempi.
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Ivo De Gennaro
Foto: unibz

Ivo De Gennaro è professore associato di filosofia morale e direttore del corso di laurea in Scienze Economiche e Sociali, il cosiddetto PPE, che sta per Philosophy, Politics and Economics. Ha quasi sempre insegnato la filosofia, nelle sue varie declinazioni, in contesti economici, in Bocconi, e ora a Bolzano, ma anche nei dipartimenti filosofici di Friburgo e della Seattle University. Ha conseguito un dottorato in filosofia, greco antico e germanistica a Friburgo, dopo una laurea quinquennale in Discipline economiche e sociali. Il suo percorso formativo è iniziato nei Collegi del Mondo Unito (United World Colleges – UWC), in particolare nell’Atlantic College del Regno Unito, fondato – si legge sul sito - “per promuovere la comprensione internazionale tramite l’educazione”. De Gennaro fa parte del Comitato etico della Libera Università di Bolzano.

Academia: Concorda con l’assunto secondo il quale i tempi moderni sono caratterizzati da un eccesso di comunicazione?

Ivo De Gennaro: Innanzi tutto, si tratta di intendersi sui termini. Se comunicare significa costruire ciò che è comune, o meglio, costruire la misura comune, allora, da questo punto di vista, forse non vi è un eccesso di comunicazione ma proprio l’opposto: una sua carenza. Questo non riguarda soltanto la situazione contingente, ma in realtà l'intera nostra epoca. Se ci riferiamo a quel senso della comunicazione, siamo in una sorta di deserto comunicativo già da molto prima della pandemia. Nella fase attuale la carenza si è ulteriormente acuita, mentre prolifera l’informazione, che è altra cosa dalla comunicazione.

L'informazione ha la struttura dell’‘informativa’: passano messaggi, ordini, notifiche, decreti; questo è quanto avviene nella fase attuale con la struttura dell'informazione. Costruire la misura comune — in cui fioriscono anche le differenze e le unicità — è faticoso dal punto di vista esistenziale, dunque è raro. In un momento di emergenza e urgenza è ancora più faticoso, soprattutto dove prevale la paura, nemica della comunicazione. Però la necessità e la responsabilità di comunicare crescono proprio laddove vige la paura.

L'informazione passa attraverso gli organi istituzionali, la comunicazione, invece, può essere anche una modalità di scambio diffusa. L'impressione è che non ci sia una mancanza ma un eccesso di comunicazione, perché ognuno comunica, magari senza ascoltare l'altro, anche attraverso i post su Instagram o su Facebook e sui vari social media…

Penso che valga la distinzione già introdotta. Passano, circolano tante informazioni, ma non si comunica. Se vogliamo parlare dei ‘canali di comunicazione’, tra cui appunto ci sono i cosiddetti social media, ebbene proprio in quanto medium di massa non sono fatti per comunicare, ma per far circolare informazioni. È difficile comunicare con questi mezzi: certo, non è impossibile, ma è difficile, proprio perché non sono né concepiti né costruiti per comunicare.

Ma l'individuo ha l'impressione di comunicare tanto!

Sempre attenendosi alla suddetta definizione di comunicazione, non so se sia così. In realtà l'individuo può avere l'impressione di inviare e ricevere dei messaggi, ma non so se abbia proprio l'impressione di comunicare. Il sentimento della comunicazione è molto netto e chiaro: è dato dal toccare ed esser toccati da qualcosa che ci accomuna.

Devo ammettere che non frequento i social media. Nonostante questo, non darei per scontato che, all'aumento della massa delle informazioni, corrisponda un incremento di comunicazione.

Alcuni studiosi definiscono la società moderna come società della comunicazione di massa. Lei sta sostenendo qualcosa di diverso. Dove ci porterà questa società carente di comunicazione? Quale visione di società si prospetta?

Senza comunicazione si arriva ad un’umanità dove i singoli sono compressi nell'isolamento, e non vi è coesione, o, diciamo meglio, coalescenza fra gli esseri umani. Individuo e collettività vanno di pari passo: là dove vi è la capacità dell'essere umano di essere solo, vi è anche una solidarietà fra gli esseri umani. Là dove, invece, l'essere umano è, appunto, compresso nell'isolamento, l’insieme degli esseri umani forma una massa, e non una comunità solidale. La comunità è ciò che si costruisce nella comunicazione. Dove il singolo è isolato, e si associa nella massa, siamo già nel campo della brutalità e della violenza.

Spieghi meglio per favore.

La storia del Novecento insegna che i regimi autoritari isolano gli esseri umani, e proprio in tal modo creano i presupposti per il formarsi di masse che possono essere mobilitate. L’isolamento è una cosa, la solitudine, un'altra: possiamo essere al massimo dello scambio di informazioni, e ritrovarci completamente isolati e incapaci di essere soli. La capacità di solitudine è il fondamento della solidarietà tra esseri umani. Un regime autoritario odia la capacità di solitudine dei singoli (e infatti li controlla sotto ogni aspetto). Il controllo serve per far sì che nessuno possa mai essere solo, e quindi non possa esservi solidarietà. Questo è il senso del controllo che caratterizza i regimi che chiamiamo autoritari.

Ma quindi lei prospetta una scivolata verso un maggiore autoritarismo?

I pronostici non sono il mio forte. Posso soltanto compiere delle distinzioni e tentare di diagnosticare in che stato versano alcune relazioni di fondo del nostro vivere comune. Nel nostro tempo, quindi anche in questa fase, alcune di queste relazioni, molto delicate, subiscono una forte pressione. Ecco perché la responsabilità di comunicare è ancora maggiore. Potremmo formulare, per il nostro tempo, la massima: “Vietato non comunicare!”

Cosa e come si dovrebbe comunicare?

Ciò che è comune è, innanzitutto, ciò che rende umani; a questo inerisce anche la stessa difficoltà di comunicare. Se proprio dovessi andare dritto al punto mi permetterei di ricordare che ciò che ci accomuna è la nostra mortalità. Questo è vero sia nel “privato” sia nel “pubblico”.

In realtà — visto che siamo in un contesto accademico — questo senso della comunicazione è proprio quello che insegna la scienza. L'educazione scientifica si realizza nell’insegnare ai giovani i metodi per costruire i ragionamenti che, mentre elaborano una teoria, creano le condizioni perché se ne mostri l’inattendibilità. In altre parole: elaborare una teoria scientifica implica costruire i presupposti perché quella teoria si dimostri inattendibile. È la base etica del pensiero scientifico: non soltanto una sua caratteristica, ma proprio la ragion d'essere dello stesso ragionare scientifico. La scienza è tale nella misura in cui resti un sapere memore della mortalità. Del resto, questo tratto si riscontra ancora nella teoria della scienza del ventesimo secolo, ad esempio nel cosiddetto falsificazionismo. Secondo quest’ultimo, è scientifico solo ciò che è capace di dimostrarsi falso. Il carattere etico di questa posizione — che è poi il nucleo filosofico che resta nel falsificazionismo — sta esattamente nel nesso fra questo “dimostrarsi falso” e ciò che ho chiamato “misura comune”. Uno scienziato deve parlare in modo tale da costruire i presupposti perché ciò che sostiene si dimostri inattendibile. È precisamente in tali presupposti che risiede quella misura.

In questo senso, l'educazione scientifica è proprio educazione a comunicare. Costruendo l’inattendibilità di ciò che diciamo, impariamo a essere mortali.

Vuole aggiungere qualcosa rispetto alla situazione attuale, in particolare rispetto al suo ruolo di membro del Comitato etico?

Restando sul punto della comunicazione, può essere utile richiamare la differenza fra un atteggiamento paterno e uno paternalistico. La paternità implica cura della comunicazione: il padre insegna al figlio nella misura in cui gli indica la misura comune. Al contrario, il paternalismo si limita a ritenere che l'altro, opportunamente informato, debba abbandonare la propria posizione e ravvedersi. Se in alcuni frangenti o contesti si è costretti a parlare per notifiche, per ordinanze, o per informative, lo sforzo di comunicazione deve essere ancora maggiore. In questo periodo penso spesso a una frase del poeta francese René Char: “Se devi distruggere, che ciò avvenga con utensili nuziali.” Nuziali, ciò capaci di mettere insieme, di unire. Char è stato anche un comandante della resistenza francese, dunque, si intendeva di situazioni in cui la comunicazione è interrotta. Se devo informare, che ciò avvenga nella prospettiva della comunicazione. Questo è il compito rispetto al quale sento che, oggi, non sempre siamo all’altezza.