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Remember die Weiße Rose

Al Centro Lovera di Bolzano la presentazione della nuova edizione del libro di Paolo Ghezzi sulla Rosa Bianca. Ne pubblichiamo un estratto.
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Foto: Archiv

Compagni di viaggio

 

Sophie dallo sguardo fondo e dalle poche parole, quando è in compagnia. Ma parole fitte, precise, affilate, quando scrive. Parole disegnate con tratto lieve e deciso, come la sua matita quando si fa l’autoritratto, di profilo, gli occhi scuri e seri puntati su un futuro breve.

Hans, suo fratello, il figlio del sole come lo chiama suo padre: il capo dei ribelli, il cavaliere errante, senza paura, l’impazienza della spada pronta a sfidare il tiranno con la forza delle parole roventi imparate sulla Bibbia luterana di mamma Lina.

Willi il biondino taciturno, il cattolico che (a differenza di tutti gli altri) nella Hitlerjugend non ci ha mai messo neppure un piede, poche parole anche nel suo taccuino, ma l’inesorabile decisione di stare dalla parte di chi rischia.

Christoph e Alexander, solari e sportivi, avventurosi e appassionati. Nati in famiglie complicate ma intessute di fili amorosi. Amici di liceo, ma più che amici, fratelli. Complici. Figlio di un tedesco cosmopolita orientaleggiante Christel, di una figlia di un pope di Ucraina Alex, lo scultore a cavallo, che per tutta la sua breve vita ha sognato la terra madre russa.

L’amicizia fraterna di Probst con Schmorell. L’incontro tra Schmorell e Scholl. Sua sorella Sophie che lo raggiunge a Monaco. Graf che entra nel giro. Le discussioni con il professor Huber, scalpitante per agire, più ancora degli studenti. Le vite dei primi sei protagonisti del gruppo della Rosa Bianca che in pochi mesi si intrecciano in un legame indissolubile. Un crescendo di sintonia, nel pensiero e nell’azione. Nelle parole dei volantini che involano l’azione.

Mi pare quasi di conoscerli, quei sei, grazie a due persone che li hanno conosciuti bene. E che nei lunghi anni che sono trascorsi dalla prima edizione di questo libro, non si sono mai risparmiati, per tornare in Italia a raccontare la loro Rosa Bianca. Negli anni, siamo diventati veri amici con Franz Josef Müller e Anneliese Knoop-Graf. Generazioni diverse riunite da una rosa.

Franz, allora diciottenne liceale ad Ulm, condannato a 5 anni di carcere nel secondo processo, poi primo presidente della Fondazione Weisse Rose a Monaco, è stato un indimenticabile narratore della resistenza, pieno di humor e di ironia sotto i suoi baffoni bianchi, la citazione latina pronta, il passo dinoccolato dell’uomo che non ha lasciato che i nazisti gli togliessero il gusto della vita.

Anneliese, sorella minore di Willi Graf, coetanea di Sophie Scholl, poi in carcere con Angelika Probst, e seconda moglie di Bernhard Knoop, primo marito di Angelika, dopo la loro separazione, pur non essendo stata coinvolta nell’attività clandestina dal fratello troppo protettivo (e lei un po’ glielo rimproverava) è stata una tenace, intelligente, anticonformista, infaticabile propagatrice del messaggio del fratello che le aveva affidato il compito di «portare avanti» le sue idee.

Senza Anneliese, senza Franz, senza la loro memoria e senza il loro esempio, questo libro non sarebbe mai nato. Grazie a loro una storia della prima metà del Novecento è stata tramandata in un racconto che parla ai ragazzi del Duemila. Di Franz e Anneliese ho una nostalgia permanente e riconoscente.

 

Il manifesto di una generazione

 

«Volevamo essere quelli che studiavano meglio e sapevano di più: migliori nel cantare, migliori a tacere, migliori a gozzovigliare, migliori a digiunare, feroci nel lavorare e sfrenati nel far niente».

Il manifesto della dj.1.11 – il movimento giovanile fondato da Eberhard Koebel (tusk) dove il ragazzo Hans Scholl si è costruito resistente e leader – era quello di una élite anticonformista. Si sono rivelati i migliori, quegli ex ragazzi, anche nell’opporsi al regime.

I migliori anche nell’elaborazione culturale dei motivi etici, filosofici, teologici della resistenza. Per scegliere, a ragion veduta e a coscienza vigile, con chi stare. Con gli ebrei massacrati e dunque contro Hitler. Con i propri amici disobbedienti e dunque contro i nazionalsocialisti obbedienti. Con l’Europa e dunque contro lo Stato hitleriano.

Quando Hans Scholl contrappone Dostoevskij a Goethe. Quando accosta san Francesco (Franz von Assisi) a Beethoven e a Rembrandt, per la sensibilità ai mendicanti, ai peccatori che aspettano il loro Redentore. Quando mette insieme (in una lettera del dicembre 1937 alla sorella Inge) i massimi pittori fiamminghi, Rembrandt e Rubens, in un intreccio tra sensibilità protestante e cultura cattolica: nella spiritualità riformata di Rembrandt vede Cristo che si piega sui drammi dell’umanità, nel Rubens convertito al cattolicesimo uno slancio verticale nell’altra direzione, verso il cielo di Dio.

Insomma al principio c’è sempre il verbo. Prima dell’azione della Rosa Bianca c’è stato un percorso di riflessione. Prima ci sono i libri da leggere, solo dopo arrivano i volantini da scrivere.

 

I manifestini antifascisti di Torino, 1940-42

 

In Italia, la storia della Rosa Bianca è stata accostata a una (non troppo conosciuta) storia di resistenza italiana: quella di un gruppo di studenti universitari antifascisti di economia, guidati da Aldo Pedussia, a Torino. Fu il professore Berto Perotti che, in un saggio pubblicato nel 1972, paragonò le due esperienze. «Più che una ribellione politica, fu una rivolta del buon senso e del bisogno di verità, da parte di giovani che vedevano l’umanità offesa e martoriata. Si misero a scrivere appelli e lettere, che inviavano a centinaia di destinatari, valendosi per lo più degli elenchi telefonici per gli indirizzi. Sia a Torino che a Monaco fu questa presa di contatto col singolo, con la coscienza nuda di chi doveva leggere lo scritto, che parve la cosa più urgente».

Gli accenti degli scritti dei torinesi sono davvero simili a quelli dei successivi volantini della Rosa Bianca: «Da venti anni viviamo come schiavi. È ora di ribellarci contro i tiranni! ». Gli studenti antifascisti piemontesi scrissero dapprima a mano, a stampatello, i loro «manifestini” e poi con caratteri mobili di gomma, li diffusero per posta ma stampigliarono anche scritte sui muri. Furono scoperti dall’Ovra e arrestati dopo due anni di attività, nel 1942. Aldo Pedussia, appena 19 anni (nato nell’anno della marcia su Roma), fu condannato a 14 anni di carcere dal tribunale speciale fascista, la pena più severa tra quelle inflitte ai componenti del Movimento universitario antifascista torinese. La scontò tra il carcere Le Nuove di Torino, il Regina Coeli di Roma e poi il Forte Urbano di Castelfranco Emilia, da dove fu liberato dai badogliani dopo il 25 luglio 1943. «Il nazismo indubbiamente era più feroce del fascismo», mi scrisse Aldo Pedussia in una lettera del 10 dicembre 1994, un anno dopo l’uscita della prima edizione di questo libro.

E le motivazioni della sua scelta resistenziale me le spiegava così: «Nel 1940, io, quale cattolico militante, allevato dal Padre cattolico-liberale e da qualche insegnante al dovere cristiano di opporsi a qualsivoglia regime che opprimesse la libertà e la dignità dell’uomo, e al dovere patriottico di lottare per il bene d’Italia, promossi a Torino il Movimento Universitario Antifascista (Gruppo Pedussia per l’Ovra) che nel periodo 1940-42 – a detta dell’Ovra stessa – fu il più attivo nella cospirazione per organizzazione, aderenti, propaganda scritta e orale».

Nel dopoguerra, direttore dell’Azienda Acquedotti Torino, Pedussia diede vita a un circolo culturale intitolato alla Rosa Bianca.

 

La Rosa Bianca italiana, mezzo secolo dopo

 

Poi, negli ultimi vent’anni del XX secolo, venne il giornalista e scrittore romano Paolo Giuntella, che ebbe la felice intuizione di tramandare la memoria di quel gruppo tedesco, che gli era stata consegnata dal padre Vittorio Emanuele, insigne storico, internato militare in Germania nella seconda guerra mondiale. Così nacque l’Associazione Rosa Bianca, fondata nel 1978, «che riuniva (ha scritto una dei suoi protagonisti, l’avvocata comasca Grazia Villa) un gruppo di giovani cattolici che intendevano ispirarsi – per scelte ideali, spirituali, di resistenza morale, civile e politica – ai giovani antinazisti tedeschi. Erano anni segnati dal terrorismo, dai mancati rinnovamenti della politica, dalle stanchezze della Chiesa italiana dopo la ventata rinnovatrice del Concilio Vaticano II”. L’esempio della Rosa Bianca tedesca «diventò un richiamo esigente a coltivare l’impegno e la speranza».

La Rosa Bianca di Paolo Giuntella e dei suoi amici divenne animatrice delle scuole estive che, negli anni migliori (gli Ottanta) chiamò a confronto voci importanti della cultura e della politica  sull’altopiano di Brentonico in Trentino ma poi anche in altri luoghi: con la partecipazione appassionata di centinaia e centinaia di giovani. E fu l’Associazione stessa a chiedere all’autore di scrivere la prima edizione di questo libro, per il cinquantesimo anniversario del sacrificio degli studenti di Monaco, per le Edizioni Paoline nel 1993. L’Associazione ha lavorato nella prima fase in grande sintonia con la Lega Democratica di Scoppola, Ardigò, Pedrazzi e Ruffilli (vittima del terrorismo brigatista) e sempre con l’Associazione Oscar Romero e la rivista (e poi casa editrice) Il Margine di Trento. La Rosa Bianca italiana ha avuto come presidenti nel corso degli anni, dopo Giuntella: Michele Nicoletti, Luisa Broli, Vincenzo Passerini, Giovanni Colombo, Grazia Villa, Fabio Caneri, fino a Celestina Antonacci e Fulvio De Giorgi nel 2022.

 

La Carta della resistenza civile, nel centenario di Sophie

 

Tra coloro che in questi ultimi anni hanno tenuta viva la memoria della Weisse Rose in Italia, non vanno dimenticati: il torinese Giuseppe Assandri, autore per San Paolo di un bel libro per adolescenti intitolato «La Rosa Bianca di Sophie» e referente italiano dei «percorsi Scholl» curati da Renate Deck a Forchtenberg, città natale di Sophie; il veneziano Umberto Lodovici, collaboratore e consulente per l’Italia della Weisse Rose Stiftung di Monaco; il disegnatore padovano Giorgio Romagnoni (che nel 2021 ha pubblicato con «Vita Trentina» una mini graphic novel su Sophie Scholl che dialoga con due coetanee di oggi) e l’udinese Aida Talliente con il suo intenso progetto teatrale «La Rosa Bianca» (andato anche in onda su Radio3 nazionale), che si è intrecciato con iniziative innovative nelle scuole superiori in Trentino e in Friuli, nelle classi di oggi dove la memoria della Rosa Bianca si rivela, ancora, storia viva. Studentesse e studenti maturandi del Liceo linguistico Sophie Scholl di Trento, nel 2021, hanno elaborato una «Carta della resistenza civile», che ha colto bene le istanze del 1943 rilanciandole come impegni per l’oggi dell’Europa.

«Seguendo l’esempio delle ragazze e dei ragazzi della Rosa Bianca ci impegniamo a:

1.       non essere spettatori di fronte ad una situazione di ingiustizia, ma agire per cambiare la situazione anche se non ci riguarda personalmente;

2.       uscire dalla “tranquillità esistenziale”: responsabilità e sensibilizzazione possono cambiare la mentalità delle nuove generazioni;

3.       essere consapevoli delle realtà europee e internazionali nel rispetto delle diversità: istruirci per istruire, per ottenere la libertà devi conoscere;

4.       non vivere in maniera passiva ma essere più partecipe nelle questioni sociali; rispettare la dignità delle persone attraverso la conoscenza del loro passato e delle loro storie;

5.       conoscere la storia per leggere il presente con senso critico e non vanificare l’operato di chi ci ha preceduto;

6.       sostenere e promuovere un’informazione imparziale e veritiera, senza farsi manipolare, analizzando più fonti che siano attendibili e non di parte;

7.       costruire legami solidi per combattere l’individualismo;

8.       sostenere con fermezza le nostre idee nel confronto con gli altri;

9.       coltivare la libertà di esprimere la propria personalità e il proprio dissenso, di andare controcorrente, di conoscere senza censure, di perseverare nelle proprie idee e convinzioni;

10.     sostenere e diffondere la Carta della resistenza civile».

 

"La tua pazienza ha stupito gli angeli": il beato Alexander

 

Nella storia successiva, sono accadute molte cose strane. Imprevedibili. Tra queste, una bellissima sorpresa dello Spirito, arrivata dalla Chiesa cristiana ortodossa di Monaco.

Se di una possibile salita agli altari, in questi decenni, si è parlato sia a proposito dei luterani fratelli Scholl, sia del cattolico Willi Graf, sia di Christel Probst battezzato appena prima di essere ucciso, la prima dichiarazione di santità è arrivata, inattesa, per Alexander Schmorell, il «mezzo russo», o «mezzo ucraino» se consideriamo con più precisione l’origine della madre.

«La tua pazienza ha stupito gli angeli», così il 5 febbraio 2012 l’arciprete ortodosso di Monaco Nikolaj Artemov ha lodato le virtù eroiche di Alexander Schmorell, Alessandro di Monaco - come adesso lo venera la Chiesa ortodossa tedesca - il primo appartenente al gruppo della Weisse Rose ad essere celebrato come santo, quasi 70 anni dopo la sua esecuzione capitale nel carcere di Stadelheim. Era il 13 luglio 1943, e il 13 luglio è diventato il suo giorno nel calendario del culto della comunità ortodossa tedesca.

Beatificando Alessandro di Monaco, la Chiesa ortodossa propone alla venerazione dei fedeli un martire del totalitarismo hitleriano dopo aver più volte elevato agli altari le numerose vittime del terrore staliniano e delle persecuzioni antireligiose ad opera del regime comunista sovietico. L’altra martire ortodossa tedesca è la principessa Elisabetta della Casa Darmstadt, sorella dell’ultima zarina.

Nella divina liturgia di beatificazione svoltasi nella cattedrale ortodossa di Monaco, vicino al carcere luogo del martirio e al cimitero della Perlacher Forst dove Schmorell è sepolto non lontano dai fratelli Scholl, il celebrante ha suggestivamente avanzato una nuova ipotesi - dopo le tante e non decisive di questi anni - sull’origine della scelta del nome «Rosa bianca»: un passo dai «Fratelli Karamazov» di Dostoevskij in cui quel fiore adorna la bara di una ragazza, segno di un destino di resurrezione.

Al di là delle suggestioni letterarie (Dostoevskij era tra gli autori più letti nel circolo della Rosa bianca, insieme a Maritain, Claudel, Berdajev) l’icona con cui il nuovo martire è stato proposto ai fedeli della comunità ortodossa di Monaco lo ritrae vestito del camice bianco del sottufficiale medico, la rosa bianca e la croce del martirio nella mano destra, il giovane volto assorto che gli riconosciamo dalle fotografie.

Il canone di beatificazione recita: «Tu hai professato il Salvatore, Dio e Signore nato dalla Vergine, Alexander fedele a Dio; nel giudizio hai sconfitto, con la tua pazienza, la tracotanza degli sgherri. La tua pazienza ha stupito gli angeli, quando hanno visto come hai sopportato senza paura, nella fermezza, le minacce e gli insulti malvagi: così hai gettato nel nulla anche i nemici incorporei e appari come il testimone vittorioso di Cristo».

Ai genitori scrisse, dopo la condanna a morte: «Se dovessero rifiutare la richiesta di grazia, ricordatevi che “morte” non significa “fine della vita”. Al contrario! È proprio nascita, passaggio a una vita nuova, a una vita splendida che dura in eterno. La morte allora non è spaventosa: la separazione è dura e difficile, ma essa diventa più sopportabile se si pensa che non ci separiamo per l’eternità, ma soltanto per un certo periodo, come per un viaggio».

 

 

Da Gisela a Jana: la storia riscritta in era Covid

 

Tra le sorprese spiazzanti della storia, dopo la beatificazione vera di Alex Schmorell, è arrivata una sorta di «beatificazione” da parte comunista dell’ultima fidanzata di Hans, la ragazza che nelle ultime settimane di fatto abitava nell’appartamento dei fratelli Scholl in Franz-Josef-Strasse ed era al corrente di tutte le attività clandestine. Gisela Schertling, diventata amica di Sophie durante il servizio civile obbligato del Rad, era una bella fanciulla nata in una famiglia di stretta osservanza hitleriana (il padre accuserà Hans di averla sedotta e perfino «drogata»), corresponsabile con le sue dichiarazioni di avere incastrato il professor Huber, poi condannato a morte. Huber dirà, amaro, nel furgone che riporta in carcere gli imputati del secondo processo: «Questa ragazza ha la mia testa sulla coscienza». Gisela se l’era cavata con una mite condanna a dodici mesi. Huber, destinato al boia di Monaco, lasciava soli una moglie e due bambini.

Non solo. Grazie alla sadica legge della Sippenhaft, che prevedeva l’arresto (misura di polizia, arbitraria e non vincolata a durate prestabilite) degli incolpevoli parenti dei condannati per motivi politici, le famiglie non dovevano sopportare solo il lutto ma anche la privazione della libertà. Così accadde anche alla famiglia Huber. Le due sorelle furono tenute agli arresti per brevi periodi, il fratello del professore, Richard, non venne incarcerato: ma lui non era «contagioso», perché era un nazista al di sopra di ogni sospetto, con la tessera delle famigerate SA.

La moglie del professore, Clara Huber, imputata di nulla, restò «in arresto genealogico» per cinque settimane in cella nella Ettstrasse. Il figlio del professore, Wolfgang, andò a stare dai nonni a Uffing. La figlia Birgit, di dodici anni, rimase da sola nell’appartamento di Gräfelfing. È anche per queste «vittime collaterali», i familiari dei condannati, che la storia della Rosa Bianca e degli altri gruppi di resistenza al nazismo va conservata e tramandata.

Ebbene, intorno a Gisela Schertling, si è costruita nel dopoguerra un’aureola di antinazista della Rosa Bianca, con tanto di pensione supplementare, culminata, il 7 ottobre 1989, quattro settimane prima della caduta del Muro di Berlino, addirittura nella medaglia d’onore per il 40° anniversario della Ddr, concessa dal premier Eric Honecker per i suoi meriti. Così va il mondo, a Est e a Ovest. La storia si riscrive. E la storia si falsifica.

Così, durante la pandemia, in Germania è accaduto qualcosa di inaudito. Il governo di Berlino è stato paragonato alla dittatura hitleriana e i dissidenti no-vax si sono paragonati ai resistenti della Weisse Rose, e tra loro c’era perfino un nipote di Sophie Scholl.

L’eroina antinazista è stata più volte evocata dall’estrema destra tedesca per chiedere la libertà di assembramento ai tempi del Covid. «In nome della gioventù tedesca, chiediamo la restituzione della libertà personale» chiedeva l’ultimo volantino della Rosa Bianca nel febbraio 1943. Ma lì ci si opponeva – rischiando la vita – a Hitler che ti poteva condannare a morte. Non ad Angela Merkel che – come tutti i governi d’Europa – cercava di salvarti la vita dal virus.

Stravaganti, i cortocircuiti della memoria innescati dalla politica. Mentre la tedesca von der Leyen rilancia in grande stile un celebre motto inglese («I care») del fiorentino don Milani, il fiorentino Renzi evoca la tedesca Scholl, celebre anche per il suo motto francese («Ci vuole uno spirito forte e un cuore tenero», da Maritain) nel giorno dell’Europa, 9 maggio, che coincide con il centesimo anniversario della nascita di Sophie.  

Il 9 maggio 2021, ulteriore intreccio di memoria in Italia (giornata delle vittime della violenza politica), Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, professore di diritto ammazzato dalle Brigate Rosse dentro l’università, chiude il suo discorso sugli anni di piombo celebrando Sophie ragazza d’Europa: vale a dire il coraggio delle parole disarmate contro una dittatura criminale. Altro che terrorismo politico. Mani nude che fanno volare i volantini.

Chi avrebbe immaginato, nel 1942/43, che ottant’anni dopo il nome della Rosa sarebbe stato usato dalla AfD, Alternative für Deutschland, il partito della destra tedesca, per rivendicare la libertà della coscienza contro il «sistema» consociativo di democristiani e socialisti?

«Io mi sento come Anne Frank nel suo rifugio di Amsterdam perché anche io devo sussurrare e non fare rumore se mi ritrovo clandestinamente con le amiche in tempi di lockdown e di riunioni proibite». «Io mi sento come Sophie Scholl, martire antinazista della Rosa Bianca, perché anche loro – come noi oggi al tempo del Covid – chiedevano la libertà rispetto alle ingerenze dello Stato nelle nostre vite». Parole di una ragazzina di undici anni e di una ventenne diventata celebre come Jana di Kassel. Le loro voci amplificate dai palchi dei negazionisti/complottisti sono diventate in Germania i simboli del revisionismo che rilegge in modo radicale ed eretico l’eredità della resistenza antinazista. E le piazze si sono riempite, come reazione, di antifascisti indignati. I cartelli dicevano «Voi non siete Sophie Scholl».

 

Il nipote di Sophie e le strumentalizzazioni di destra

 

Julian Aicher, figlio di Inge Scholl e Otl Aicher, dunque nipote diretto della eroina della Rosa Bianca, è stato uno dei protagonisti della contestazione delle norme anti-pandemia, portata avanti in Germania dai diversamente pensanti «in nome della libertà».

Alla contraddizione che ripropone l’irresistibile ambivalenza della parola «libertà» ha dedicato un suo «Magazin» domenicale, in occasione del centenario di Sophie, uno dei maggiori giornali tedeschi, Die Zeit. Ha fotografato insieme i tre nipoti di Sophie Scholl, i figli di Inge, la sorella maggiore che consacrò la sua vita al racconto e alla memoria dei fratelli decapitati. E ha spiegato che uno dei tre, ormai ultrasessantenni, si è schierato decisamente con i negazionisti.

Ma che cosa ha a che fare la Rosa Bianca con i Querdenker? Così chiamano in Germania quelli che noi etichettiamo più sbrigativamente come no-mask, e che invece il vocabolario tedesco nobilita a pensatori (Denker) dissidenti o trasversali, stravaganti, originali: la preposizione quer ha appunto il significato di attraversare in diagonale, di mettersi in mezzo.

Che cosa dice Julian Aicher alla Zeit? Dice che il messaggio di libertà della Rosa Bianca lo induce ad esprimersi liberamente anche contro le restrizioni alla libertà stabilite da un regime democratico. Non gli importa di essere usato come un simbolo, anche a destra, perché la causa della libertà non ha colori politici. E lui, amplificato da una star negazionista di YouTube, Ken Jebsen, mette insieme la sua lunga esperienza di attivista delle energie pulite (nella casa dei genitori, a Rotis nella Germania sudoccidentale, c’è un mulino che ha cent’anni) e le polemiche contro le misure anti-Covid, per sentirsi pensatore minoritario e discriminato, bersaglio (così si vede lui) dell’industria atomica e di Bill Gates, della retorica antifascista e del conformismo della Grosse Koalition, democristiani e socialisti insieme nel governo.

I fratelli e i cugini di Aicher si sono sentiti in dovere di diffondere una pubblica, solenne dissociazione: Sophie Scholl non può essere usata come icona della destra. La storia non può essere riscritta. Gli eroi non vanno decontestualizzati dalla loro epoca.

La dissonanza è forte ma non è nuova. Già nel 1994 Hans Hirzel, un amico dei fratelli Scholl, come loro processato dai nazisti, dopo una quasi ventennale militanza nella Cdu, la Dc tedesca, si candidò addirittura alla presidenza della Repubblica tedesca, in rappresentanza dei Republikaner, cioè la destra più vicina ai gruppi neonazisti vietati dalla legge. Raccolse solo undici voti, tra i parlamentari che elessero il democristiano Herzog, ma il caso Hirzel fu uno shock per la coscienza tedesca. Come lo furono le dichiarazioni schiettamente anti-islamiche della sorella di Hirzel, Susanne, amica di Sophie Scholl.

La Rosa Bianca che chiedeva un’Europa federale e antimilitarista, la libertà di coscienza e il rispetto dei diritti individuali, sventolata dunque in faccia ai perbenisti dell’antifascismo militante e usata per un paragone da brividi: tra il regime liberticida del nazionalsocialismo e le misure «illiberali” della democrazia tedesca ai tempi del Covid-19.

 

Dalla Germania 1943 all’Ucraina 2022: i tiranni e la libertà

 

La nobile parola Freiheit, libertà, ricorre molte volte nei sei volantini della Weisse Rose. Ma, a leggere bene i testi dei volantini, la rivendicazione della libertà è sempre accompagnata da un’altra fondamentale parola: la responsabilità. «Ogni popolo merita il governo che tollera», proclama la Rosa Bianca. E punta il dito contro la maggioranza dei tedeschi che, non risvegliandosi dal sonno della coscienza nonostante i crimini del nazionalsocialismo, è irrimediabilmente colpevole. Corresponsabile, appunto.

«Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti» canterà De André affermando lo stesso concetto. Ma nel «Suonatore Jones» canterà anche la natura ambivalente della libertà: «Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato».

La memoria continua a ingarbugliare la coscienza dell’Europa. Che commemora Sophie Scholl, il cuore tenero e lo spirito inflessibile. Ma non si sente troppo coinvolta dai morti nel Mare nostrum e dai muri e fili spinati in Europa e in Medio oriente. Solo l’aggressione putinista all’Ucraina, con i connessi crimini contro l’umanità, ha risvegliato, a fine febbraio 2022, l’Europa dal torpore. E meno male, perché i proclami nazionalrazzisti del nuovo zar di Mosca sono pericolosamente simili alla propaganda hitleriana contro gli slavi «Untermenschen», esseri umani inferiori.

Il destino dei simboli è inevitabilmente consegnato alla politica, incluse le derive politicamente scorrette. Agli storici spetta il dovere della contestualizzazione ma oggi Sophie Scholl è di tutti, come don Milani e come il trinomio della rivoluzione francese. Che ci ricorda comunque la complessità della storia europea: gli studenti della Rosa Bianca furono uccisi in una prigione tedesca con uno strumento letale di concezione francese, la ghigliottina, perfezionato dalla rivoluzione che aveva decapitato in nome della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità. Gli stessi valori della Rosa Bianca che indicava «Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio degli Stati criminali fondati sulla violenza» come basi della nuova Europa.

Dal Novecento dei totalitarismi alla pandemia totale del nostro presente, la lama affilata della contraddizione ci è costante, scomoda, ineludibile compagnia. L’importante sarebbe esercitare un chirurgico discernimento tra storia e propaganda. Voi non siete Sophie. Nessuno lo è. Solo Sophie Scholl è Sophie Scholl.

 

Nell'ambito delle celebrazioni cittadine per la Giornata della Memoria, la conferenza sulla Rosa Bianca di Sophie Scholl con Paolo Ghezzi, giornalista e autore di “La Rosa Bianca” e “La Rosa Bianca non vi darà pace” si terrà al Centro Lovera di viale Europa a Bolzano stasera, martedì 24 gennaio, alle ore 18.30.