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La libertà nella fede dei valori

La storia dell'anima del grande scrittore Ignazio Silone, un saggio di non-fiction, un po' un tranche-de-vie, sulle illusioni dell'utopia e sulla libertà esistenziale.
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Foto: Edizioni di comunità

Il dio che è fallito di Ignazio Silone è uno dei libri più interessanti stampati nel 2019, nonostante il testo sia stato pubblicato per la prima volta esattamente settant’anni fa sul numero 5 della rivista Comunità, fondata da Adriano Olivetti. E sotto il nome di Edizioni di Comunità (sempre fondata da Olivetti, nel ’46) è riapparso oggi in una nuova veste. È un saggio autobiografico – quindi un po’ un memoire – ma anche un manifesto esistenziale e di filosofia politica. Oggi, anche in Italia, chiameremmo questo genere di libri ‘non-fiction’.

Ignazio Silone (Fontamara è il suo romanzo più famoso, quello presente anche nelle antologie scolastiche) è nato nel 1900 ed è stato un punto di riferimento, durante i primi decenni del secolo, per l’organizzazione clandestina dei comunisti italiani e della stampa clandestina: scriveva per Il Lavoratore e per l’Unità. Ebbe anche un ruolo di primo rilievo tra le fila dell’Internazionale comunista, a contatto con Stalin e Lenin e altri gerarchi sovietici. È da queste esperienze (dalla clandestinità con i fedeli della chiesa comunista ai dibattiti con l’aristocrazia politica) che Silone muove il racconto di quegli anni difficili. Anni, quelli della lotta durante il ventennio, che lo hanno spinto a dilanianti dubbi riguardo il suo ruolo di dirigente in un’organizzazione internazionale che stava diventano eccessivamente dispotica.

Il dio che è fallito è uno scritto che senz’altro dà un importante contributo intellettuale, attraverso la precisione e l’ordine della memoria, alla costruzione di un pensiero politico contemporaneo, basato sulla convivenza e la democrazia. Gli avvenimenti che vi sono riportati: un breve racconto quasi a sé stante con i clandestini sotto finta identità, alle visite insieme a Togliatti in Russia, passano in secondo piano, a livello narrativo, per lasciare spazio alle riflessioni di un’anima in dubbio. Un'anima che, attraverso la scrittura, hanno apprezzato intellettuali del rango di Albert Camus e Thomas Mann. Un'anima in esilio non solo a livello metaforico: Silone visse in esilio in Svizzera per lungo tempo, per ovvie ragioni.

 

 

Il libro ricorda l’asciutto (senza mancare di prosa sublime) stile anglosassone: ma è vero solo in parte. Potremmo più semplicemente dire che è uno scritto di uno dei maggiori autori italiani del ‘900 europeo, diventato famoso prima all’estero e poi in Italia, a causa dell’esilio. La sensazione è che Silone sia entrato a far parte di quel particolare novero di scrittori a essere stati riabilitanti di recente (qualche decennio) come Guido Morselli e Alberto Savinio (nessuno oserebbe più chiamarlo ‘il fratello minore di Giorgio De Chirico’). Entrambi questi ultimi scrittori sono stati ristampati dall’editore Adelphi. Secondo le regole di pubblicazione dell’editore, ogni libro deve essere ‘un libro unico’. Ardua definizione, se non impossibile.

Tuttavia, non ci si deve stupire se anche questo libretto di Silone possa essere definito un libro unico: per chiarezza di contenuto, limpidezza dello stile e la chiarezza della prosa italiana. Silone usa un italiano non poetico ma saggistico (da rimembranze, appunto) senza essere didascalico. Silone, però, non rinuncia al ‘senso della frase’ – qui non si dirà “un fare d’altri tempi” - ma, al contrario, Silone addomestica la frase per dare un ordine al flusso continuo di pensieri e d’esperienze che vuole condurre il lettore su per una scala di memorie, riflessioni, storia e retroscena.

Un altro fattore straordinario di questo libro è il tempo che ci si impiega a leggerlo. Perché ci si mette poco? Perché la scrittura di Silone non è solo sublime ma anche, per certi versi, avvincente (senza mettere un punto ogni tre parole, mania degli scrittori dell’ultra-contemporaneo). Il saggio è un congegno complesso di ordine e struttura dei pensieri. Uno scrittore dello stampo di Silone (ma anche andando aldilà della sua professione artistica, possiamo parlarne anche rispetto alla sua professione di uomo), non potette che dimostrare orrore, riguardo alle limitazioni delle libertà che intravedeva nel regime sovietico.

[…] l’ingenua spontaneità del sovversivo provinciale, non ancora contaminato dal freddo calcolo politico.

Ma se la percezione di chi scrive dovesse essere errata – quella della riscoperta di Silone – allora si tratterebbe solamente di ‘wishful thinking’: non solo per la riscoperta della sua letteratura, ma anche per la riscoperta di un modo, un’attitudine, dubitativo e critico verso le storture del mondo e verso le aporie del pensare politico di chi propugna la libertà individuale ma impartisce la segretezza e il comando assoluto. Il dio che è fallito è anche un manuale di resistenza intellettuale, la storia di un’anima attraversata dai dubbi e dalle speculazioni intorno alla menzogna e alla propaganda. Quale anima? Un’anima esule e dissidente, quella di Silone, come quella dei protagonisti dei suoi romanzi.

“Ogni organismo totalitario, ogni regime di unanimità coatta, implica una buona dose di menzogne, di doppiezza, d’insincerità”.

Il dio che è fallito parla anche di dialettica (non solo politica): tra le righe si può leggere un elogio – forse disperato – al libero dibattito. Scrive infatti Silone: “L’avversario, per il semplice fatto che osa contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore, un venduto”, riferendosi al modo con il quale i gerarchi si rapportavano con gli ‘eretici’ dell’ortodossia della dirigenza sovietica. Quello di Silone è genuino sconcerto misto a dolore; tuttavia Silone non fa trasparire indignazione o altri sentimenti di basso rango, che non trovano sede in un’anima così complessa: anche di fronte alle scelte che riterrebbe più efferate. Lavoro di cesello sulla scrittura o vera indole moderata? Forse entrambe le cose, forse è semplicemente la lucida mente di uno scrittore.

“[…] l’ingenua spontaneità del sovversivo provinciale, non ancora contaminato dal freddo calcolo politico”, scrive Silone per descrivere la sua indole e inclinazione mentale – mentre negli antri del senior convent dell’Internazionale comunista sì discute (e si vorrebbe imporre) una risoluzione contro il compagno Trotzkji. Deluso e amareggiato dal dispotismo di Stalin, che in seguito vedrà ancora di più peggiorare, Silone il dissidente verrà espulso dal partito, di cui era un membro fondamentale per l’organizzazione clandestina e per la stampa di partito. La sua fede socialista, la sua fede nei valori socialisti, poco si sposava con la coercizione intellettuale e politica della classe dirigente sovietica. La fede nella democrazia e nella libertà (non solo di parola e d’espressione) non era solo una serie di totem ideologici da propugnare negli articoli o nei libelli politici scrivendo le lettere delle parole d’ordine della libertà in maiuscolo. Silone fugge dalla retorica deleteria (malattia endemica e forse immedicabile); egli incontra la genuinità e la purezza dei valori sui quali costruire una comunità prospera – lontana dal totalitarismo, dentro alla democrazia.

“Ogni organismo totalitario, ogni regime di unanimità coatta, implica una buona dose di menzogne, di doppiezza, d’insincerità”, dice, provando empatia per quelli che ritiene i veri socialisti di fede, i quali esercitano il proprio spirito critico, i quali rivendicano il loro essere ‘non conformisti’. I non-conformisti saranno costretti – per forza di cose – a immani ripensamenti e ad amare conclusioni, tanto sarà atroce il dilanio interiore che egli stesso ha subito, uscendone però vivo.

Se questo saggio fosse un buon film biografico vedremmo l’arrovellarsi della mente di Silone, vedremmo l’accavallarsi dei suoi pensieri, semplicemente inquadrandone le espressioni e il silenzio dubitativo e sofferto del virtuale interprete. Ma forse non sarebbe consigliabile per salvarsi l’anima a nessun attore calarsi attraverso il metodo Stanislavskji nella mente addolorata di uno scrittore di indole straniera e di carne, esule.