Gesellschaft | Il libro

Il genocidio alla nostra frontiera

Alessandro Leogrande ha scritto un libro doloroso e necessario sulla tragedia che si sta compiendo sulla mobile frontiera del nostro mare.

Trascino da giorni la lettura di questo libro, non perché si tratti di una lettura “difficile”, tutt'altro, ma perché il dolore scolpito nelle sue pagine è insostenibile a lunghi tratti. Così lo apro, leggo una storia e poi lo richiudo, risospinto non senza imbarazzo verso altre faccende quotidiane e perciò più sopportabili. Il libro è La frontiera, di Alessandro Leogrande.

Mi rendo conto che, volendo invogliare qualcuno ad acquistare e leggere il libro, dovrei spiegare un po' meglio il senso di questa repulsione risolta sempre in una nuova attrazione (e viceversa). Chiarisco che il mio personale punto di vista è irrisorio di fronte al tema trattato, la sua giustificazione serve perciò soltanto alla messa a fuoco di quest'ultimo, l'unica cosa a contare poi davvero. Un punto fisso: i fatti narrati sono quelli, notissimi e al contempo completamente sconosciuti e direi costantemente rimossi, inerenti le morti per annegamento e le torture patite dalle moltitudini di “migranti” in transito dall'Africa e dalle altre regioni martoriate del Sud del mondo verso le coste del nostro continente. Storie note, come crediamo di poter affermare, ma che proprio a causa di questa superficiale cognizione di massa (un portato dell'informazione generalizzata, l'informazione usa e getta) risultano ormai livellate da un denso strato di indifferenza verso ciò che sta realmente accadendo. Il grande merito de La frontiera è proprio quello di lacerare, stracciare tale strato e riportarci al centro degli accadimenti mediante la testimonianza diretta di chi li ha subiti (e li sta ancora subendo) grazie a una scrittura priva di qualsivoglia retorica “buonista” (mi servo dell'orrido termine solo per farmi capire dagli imbecilli che lo usano al pari di una offesa). Nessuno, attraversando simili racconti, speri di restarne indenne.

Faccio solo un esempio. Quando le autorità propongono ai sopravvissuti delle grandi stragi del mare (stragi che in realtà andrebbero qualificate come omicidi di massa, alludendo a vari tipi di responsabili) una possibilità di riconoscimento dei loro congiunti periti, si pone il problema di fornire prove di DNA. Ecco allora affluire una grande quantità di unghie, in base alla quale si tenta poi di dare almeno un nome (e una sepoltura) a chi resterebbe altrimenti consegnato all'oblio delle fosse comuni. Scrive Leogrande: “Syoum continua a parlare, ma non lo ascolto più. Penso a quello che ha appena detto. Penso a decine di uomini e donne, di età varia, ognuna delle quali è seduta davanti al tavolo della cucina di casa. Ognuna di loro si taglia meticolosamente le unghie con una tronchesina, le ammonticchia sull'incerata a scacchi che copre il tavolo di legno. Poi le raccoglie con un foglio di carta e le versa con estrema attenzione in una bustina di plastica trasparente. Quella è la prova. L'unica prova che permette di ristabilire un flebile legame con i parenti scomparsi in mezzo al Mediterraneo, a poche centinaia di metri in linea d'aria da dove stiamo consumando la nostra cena”.

La frontiera intreccia moltissime vicende come questa, disegnando una vera e propria mappa dell'orrore. Dal Sinai teatro di crimini indicibili, dove i migranti vengono semplicemente sfruttati come inermi banche di organi, all'Eritrea schiacciata da una dittatura dalla quale si può soltanto fuggire e che nel racconto dei fuggiaschi non manca di far emergere le tracce del passato colonialista italiano, ossia di un'altra dittatura da noi edulcorata e da taluni persino blandita, passando ovviamente per l'attuale conflitto siriano, le convulsioni dell'Afghanistan ostaggio di vasti e irrisolti contrasti geopolitici e l'appassimento delle fraintese primavere arabe in Libia o in Sudan. Su tutto il colore di un mare tinto di sangue, convertito in immane tomba di miserabili appesi al sì e no delle onde, miserabili comunque più dignitosi di coloro i quali ritengono il mare un confine da tracciare e difendere, un cordone immunitario in realtà aggirato e aggirabile in ogni suo punto.

Forse solo un libro come questo (o un film, del quale sentiamo la mancanza, dovendo ancora appoggiarci alla coraggiosa inchiesta di “Come un uomo sulla terra”) può rendere l'idea che per infamia ed ipocrisia non accettiamo di comprendere: se l'indifferenza può essere considerata una colpa (e prendendo per buone le parole di Primo Levi - “meditate che questo è stato...” - senz'altro lo è) dovremmo tutti ritenerci complici di uno sterminio senza precedenti nella nostra storia recente. Mescoliamo le sensazioni, ci tappiamo gli occhi, ci turiamo le orecchie, ma restiamo ugualmente complici. E la colpa principale, ovviamente, non è quella di non intervenire direttamente sul posto, nel “mare nostrum” che suona ormai a bestemmia, trattandosi di un “mare di morte”, bensì va cercata prima di tutto nella nostra pigrizia a dare il vero nome che una tale tragedia merita: genocidio. Scrive infatti Leogrande: “Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse”.

Già, il futuro. “Se l'angelo della storia di Walter Benjamin venisse risucchiato ora, proprio in questo momento, in un vortice che lo sospinge verso il futuro, con la faccia rivolta verso il passato e il cumulo di violenza che si erige incessantemente – commenta ancora Leogrande –, vedrebbe innanzitutto il continuo accatastarsi dei corpi dei naufraghi, il vagare dei dispersi nella lotta dei flutti”. Le storie de La frontiera riescono a farci percepire frammenti di questa visione coi nostri stessi occhi, i nostri occhi così diversi da quelli di un angelo, e pagina dopo pagina li riempiono di lacrime.