Kultur | Museo in montagna

Architettura e... montagna: MMM Corones

Messner Mountain Museum Corones: “Less is more”. La frase di Mies van der Rohe ben si adatta al progetto di Zaha Hadid per il Messner Mountain Museum di Plan de Corones.
Hinweis: Dies ist ein Partner-Artikel und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.
MMM Corones
Foto: Walter Donegà

Testo: Alessandra Fella

In Zusammenarbeit mit der Architekturstiftung Südtirol / in collaborazione con la Fondazione Architettura Alto Adige.

 

L’architetto iracheno dei progetti grandiosi che si elevano morbidi e magnificenti nello spazio come modellati dagli elementi stessi ha preferito, in questo contesto, optare per un’architettura sussurrata, introversa, che lascia trapelare poco di sé all’esterno a favore di una sorta di introiezione che risulta quasi autocelebrativa. L’idea del nascosto, il concetto del discreto, la negazione dell’imponenza sono, però, mera finzione: la struttura, infatti, è solo apparentemente scavata, essendo in realtà stata elevata prima e ricoperta dopo per celarne forme e massiccia concretezza.

 

 

Ciò che a Plan de Corones si vuol trasmettere è che sia la montagna a dettare le regole, il paesaggio ad imporre le scelte costruttive, la natura a prendere il sopravvento sull’opera umana ancor prima che sia il tempo a permetterglielo.

 

 

Il complesso è quasi completamente occultato dal terreno stesso, che la copre lasciando in vista esclusivamente l’ingresso e, poco sotto, i tre cannocchiali puntati verso il maestoso panorama delle Dolomiti.

 

 

L’accesso fa quasi pensare a quello di una caverna, irregolare nel taglio e sinuoso nelle forme, quasi fosse stato plasmato dal vento e smussato dagli anni e dalle intemperie.

 

 

L’ingresso ospita reception, biglietteria e bookshop, la macchina dell’accoglienza e dell’invito all’esplorazione. Da questo primo livello un sistema di rampe collega a quelli successivi, che ospitano gli spazi espositivi, i servizi all’utenza e al museo stesso, e un piccolo auditorium.

La discesa nei vari ambienti, che sembra voler alludere a quella nelle viscere della montagna, è fluida e sinuosa, a richiamare quasi le labirintiche e serpeggianti gallerie naturali scavate da un fiume sotterraneo. La continuità degli spazi si oppone alla tetragona irremovibilità delle montagne, mentre la dinamicità delle forme contrasta con la spigolosità delle rocce esterne.

 

 

La sensazione claustrofobica che spesso accompagna i percorsi all’interno di luoghi sotterranei, qui accentuata da un uso sapiente e controllato del cemento a vista, è annullata dalla luce, presente sia come segno antropico che come guida naturale. Sottili calanchi luminosi segnano la copertura indicando la direzione del circuito di visita; una luce calda scivola lungo le pareti levigate dai corrimano retroilluminati, ulteriormente alleggeriti da minuti dettagli puntiformi nelle parti terminali; alle estremità dei singoli tunnel, grandi vetrate contrastano l’oscurità interna regalando un’illuminazione naturale e richiamando l’attenzione del visitatore verso l’esterno.

 

 

Una di esse si protende ulteriormente nel vuoto attraverso un’ampia terrazza, che con la sua forma allungata e aerodinamica proietta lo spettatore verso il magnifico spettacolo della natura.

 

 

E sono proprio queste tre ampie fenditure nella compattezza del cemento ad essere il reale polo di attrazione dell’intero museo. Sono fonti di luce che dilatano gli spazi interni, sono luoghi di sosta e contemplazione, sono belvedere che si allungano verso le montagne per permettere allo sguardo di spaziare sull’intorno.

 

 

Ma sono anche quadri esse stesse, dipinti naturali, acquerelli di quei luoghi, quelle montagne, quei paesaggi che il museo vuole mostrare, celebrare, far conoscere ed amare.

 

 

Zaha Hadid ha accettato la sfida di confrontarsi con un contesto ambientale unico e straordinario come quello delle Dolomiti. Per affrontarla, però, ha scelto di disegnare un elemento che non fosse invasivo e giocasse con la dissimulazione di sé e la simulazione di qualcosa che in realtà non è, anziché integrarsi con l’intorno naturale senza brutalizzarlo e con quello antropizzato senza sconfinare nel vernacolare.

Ed è questa menzogna il limite primo del progetto, ingiustificata tanto più se si considera che l’area non è certo scevra da strutture di una certa grevità.

Un’ulteriore manchevolezza sta poi nel fatto che la seduttiva forza degli interni prevale sull’esposizione stessa, ponendo quadri, sculture e oggetti in secondo piano rispetto all’edificio. Come se il contenitore fosse più importante del contenuto. Come se il contenitore fosse contenuto esso stesso.