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L’acqua del lago non è mai dolce

Il romanzo di Giulia Caminito mette in crisi il concetto di riscatto sfidando la retorica dell’impegno, della resilienza e della gentilezza femminile.
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Foto: Bompiani

In un’epoca dove il discorso politico trova sempre meno spazio a vantaggio di messaggi motivazionali a prova di social, la retorica del “volere è potere” si fa sempre più strada. Oggi, che attraverso gli schermi del nostro smartphone entriamo nelle vite-vetrine degli altri, fatte di successi e spensieratezza, la storia della ragazza che dalle porte di Roma diventa una delle più pagate e note influencer italiane, sembra un’alternativa facilmente realizzabile. Così come realizzabile grazie allo sforzo e alla passione è presentata la possibilità di traferirsi a New York dalla provincia italiana del Nord Est e creare una propria linea di cosmetici o fondare un’azienda di prodotti di skincare che fattura diversi milioni di euro all’anno partendo dall’essere un’estetista con un piccolo centro estetico con quattro cabine. Tre esempi reali – facili da riconoscere per chi usa Instagram – che non hanno nulla a che fare con la storia raccontata in L’acqua del lago non è mai dolce, romanzo di Giulia Caminito pubblicato da Bompiani.

Gaia, protagonista e voce narrante del libro, fin da bambina scopre che nella vita l’impegno è una condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere i propri obiettivi laddove la classe sociale di appartenenza è umile. Seconda di quattro figli, ha un padre di nome Massimo rimasto in sedia rotelle a causa di una caduta da un’impalcatura di un cantiere dove lavorava in nero e una madre di nome Antonia che dà corpo alle ingiustizie senza riscatto, ai diritti fondamentali non garantiti, alle lotte senza certezza di vittoria. Nel caso della famiglia di Gaia, la causa che si combatte è quella dell’abitazione, quattro mura e un tetto che l’ATER non le vuole assegnare sebbene in possesso di tutti i requisiti per una casa popolare. Già dalle prime pagine vengono tracciati i confini della storia di Gaia: essi sono confini determinati dal luogo in cui si abita; sono confini che non possono essere oltrepassati sebbene cambino latitudine: “Viviamo in un quartiere che a mia madre non piace chiamare periferia, poiché per essere periferia devi aver presente quale sia il tuo centro e noi quel centro non lo vediamo mai, io non ho mia visitato il Colosseo, la Cappella Sistina, il Vaticano, Villa Borghese, piazza del Popolo, noi le gite con la scuole non le facciamo e se esco è per andare con mia madre al mercato rionale”.

Gaia – protagonista che non ha nulla in comune con la retorica della mansuetudine femminile – affronta gli urti dei tempi oscuri e complessi della preadolescenza e adolescenza reagendo in modo imperfetto, spregiudicato, definitivo.

La casa diventa il luogo identitario sia nella strenua lotta per ottenerla, sia nella battaglia quotidiana per staccarcisi. Lasciata Roma e trasferita ad Anguillare insieme alla famiglia, Gaia comincia un percorso di definizione di sé allontanandosi da Antonia, colei che incarna la figura della madre coraggio, che con durezza stabilisce ciò che è giusto e sbagliato, donna del fare che esprime l’affetto verso la figlia “ordinandole” di condurre una vita diversa dalla sua. Da questa madre che non seppellisce mai l’ascia di guerra, da un padre costretto su una sedia poco partecipe alla sua stessa esistenza così come a quella dei figli, da una vita familiare che prevede pranzi di Natale interrotti da feroci discussioni politiche e non trascorsi intorno a un tavolo mangiando dolci, Gaia prova a emanciparsi rifiutando un altro concetto tanto in voga in questo periodo: la resilienza. La voglia di rivalsa e la ricerca di approvazione della protagonista si scontrano con episodi di bullismo che scatenano reazioni violente. Gaia – protagonista che non ha nulla in comune con la retorica della mansuetudine femminile – affronta gli urti dei tempi oscuri e complessi della preadolescenza e adolescenza reagendo in modo imperfetto, spregiudicato, definitivo. Le avversità della vita non sono presentate come motivo di rivalsa, bensì come condizioni di partenza sfavorevoli che raramente permettono una scalata sociale: quando gli urti della vita sono fatti di iniquità economica e ingiustizie sociali si impara a reagire non a adattarsi.


Eppure resistere non è sempre sinonimo di lottare: la resistenza di Gaia non si traduce mai in militanza, piuttosto in fredda consapevolezza che nascere poveri spesso definisce il proprio destino a prescindere dall’impegno, a prescindere dalle capacità, a prescindere dal merito. Se si cresce senza la sicurezza di un’abitazione, assistendo alle festività come rituali mancati, evitando di invitare le amiche e gli amici a casa per la vergogna della situazione, si può scegliere di incanalare la propria rabbia in una battaglia politica che può anche essere persa – scelta di Antonia e di Mariano, il fratello maggiore di Gaia –, si può scegliere di annullarsi schiacciati da una sorte infelice – scelta del padre Massimo –, oppure si può scegliere di sposare la nuda convinzione che nulla cambia: “Io sono diventata la figlia a carico che non produce, non moltiplica, non incassa, non cucina e non ha tesori o dispense, la figlia mai cacciata e mai tornata, la statua di sale che a tutti tocca vedere all’ora di cena, eppure vorrei interrogare mia madre, chiederle cosa dovrei fare, perché lei ha sempre trovato soluzioni sul da farsi, sul mettersi in moto e risolvere, mentre io ho solo preso armi e carrarmati e ho attaccato altrui barricate, il suo agire è progetto, il mio agire è guerra, nel primo caso l’obiettivo è noto, nel secondo ciò che si sa è solo che conviene distruggere prima che siano gli altri a pensarci”.