Politik | Da Roma

La notte della democrazia

Considerazioni inattuali su una macchina rotta

Qualche milione, qualche migliaio o qualche decina? Ancora non è chiaro quanti saranno alla fine gli emendamenti alla riforma costituzionale su cui si inizierà a votare la prossima settimana.

La frustrazione maggiore in politica (o almeno in parlamento) è l’assoluta impossibilità di programmare, e la conseguente schiavitù della contingenza. Troppe le variabili che possono impazzire, ed anzi impazziscono a turno, in modo prevedibilmente imprevedibile. Altrettanto imprevedibili sono le priorità che di volta in volta si affermano e determinano l’andamento dei lavori, e ancor più oscuri sono i meccanismi che le generano.

La riforma costituzionale in discussione è ormai da tutti definita “riforma del Senato”, e la questione delle modalità di selezione dei futuri senatori ha paralizzato il discorso politico (e giornalistico: non si sa mai se nasca prima l’uovo o la gallina) nazionale negli ultimi mesi. Eppure quella del Senato è solo una parte della riforma complessiva, e nemmeno la più significativa (basti pensare che cambia radicalmente l’assetto regionale nell’indifferenza generale). E meno significativa ancora è la questione dell’elettività diretta o indiretta dei senatori. Parlare di questo senza chiarire che diamine debba fare il nuovo Senato è come parlare della carta da parati senza avere fatto il muro. Ma tant’è, le priorità si affermano secondo logiche strane, e non c’è verso di cambiarle. Se si fa notare l’assurdità della discussione, tutti concordano e immediatamente dopo ricominciano esattamente come prima. Credo faccia parte delle dinamiche dell’umanità disorganizzata. Dove c’è organizzazione le cose non sono troppo diverse, ma esiste qualcuno (o qualche struttura) che le seleziona e le impone, senza garanzia che siano meno astruse. Per questo in Italia (ma sempre più anche altrove) alla disorganizzazione si reagisce con leaderismi fugaci, che altro non sono che tentativi di dare ordine alle cose secondo le preferenze di chi, pro tempore, si assicura un margine di manovra maggiore di altri, e prova a esercitarlo finché riesce. Cioè finché viene scalzato dal leader successivo, destinato a fare la stessa fine. Il bello è che qualcuno pensa che si siano dietro i grandi vecchi. Magari. Almeno li si potrebbe combattere, stile James Bond contro la Spectre. Molto gradevole da vedere al cinema, ma palesemente poco realistico.

D’altra parte, queste dinamiche di leaderismo tanto perverso quanto necessitato sono la reazione alla imperfezione del compromesso. In politica il compromesso è tutto, e dunque la politica non può che essere imperfetta. Per chi governa, beninteso, mentre per chi si oppone la dinamica speculare consiste nella denuncia del compromesso a prescindere e nella sbandierata certezza di avere la soluzione perfetta. Ma oggi viviamo una fase di rigetto del compromesso, colpa della pessima prova che certi compromessi perennemente al ribasso hanno dato. E così da un tempo in cui si negoziava tutto, compreso quello che non andava fatto, si è passati alla fase in cui ogni cosa è un “principio non negoziabile”. Le corde si tirano, e in un modo o nell’altro si spezzano, con la capitolazione ora dell’uno, ora dell’altro, ora di tutti i contendenti. Il confine è sottilissimo, e anch’esso dipende da variabili difficilmente controllabili.

Questo perverso filo rosso di scontro tra rigidità autoimposte unisce – e strozza – le esperienze più disparate. Dalla crisi greca alle vicende della giunta comunale bolzanina, dalla riforma costituzionale italiana alla battaglia per l’indipendenza della Catalogna. Gli esempi sarebbero infiniti.

Prendere atto di questa realtà non significa affatto elogiare il pragmatismo del compromesso. Anzi. Il punto è cercare nuove modalità di combattimento per ciò in cui si crede. Modalità di combattimento che non siano all’ultimo sangue, anche se nell’immediato è questo che molti cittadini vogliono vedere – o credono di voler vedere, perché questa spirale genera evidentemente solo ulteriore delusione. Questa nuova modalità richiede ingredienti assai rari nella società contemporanea. Innanzitutto tempo, perché è necessario un processo di metabolizzazione delle posizioni, non solo di quelle “avversarie”, ma anche delle proprie. Poi un quadro istituzionale stabile e partecipativo, che consenta di allargare il campo delle posizioni possibili oltre a quelle degli immediati contendenti. Perché è possibile (anzi probabile) che da fuori del ring vengano idee migliori, e comunque così si evita la polarizzazione degli scontri a due, il che è comunque positivo. Infine, e forse soprattutto, serve quella che in dottrina si chiama la morale costituzionale, che in ultimo si riduce alla continenza dei singoli. Questo implica un forte autocontrollo sul linguaggio e sulle emozioni da parte di chi riveste cariche pubbliche (anche indirettamente: la categoria non comprende certo solo i rappresentanti eletti). Purtroppo tutto questo è estremamente faticoso da fare e pressoché impossibile da comunicare.

Però va fatto. Altrimenti ci si stupisce dei continui cortocircuiti democratici. Di quelli piccoli, come l’eccesso di interrogazioni consiliari e parlamentari che porta a non rispondere nemmeno alle cose importanti, danneggiando opposizioni, governi e diritti di controllo. O di quelle grandi, come gli 85 milioni di emendamenti alla riforma costituzionale come unico modo per farsi ascoltare. La notte della democrazia è ancora lunga.