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Verso il Brennero

C’è una forma di sradicamento che nasce dall’ignoranza dei luoghi dove si vive, della storia dei loro nomi, delle persone che ci hanno preceduto.
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Foto: Foto: Salto.bz

Una lettura di Stefano Zangrando

Da bambino vivevo in un quartiere popolare di Bolzano, ma nessuno mi spiegò mai l’origine e il significato di tutti quei fuochi che si accendevano sulle montagne intorno alla città in una sera di giugno, ogni anno. E le lezioncine di storia che ci venivano proposte coi fascicoli «Conosci la tua provincia» – o forse Provincia, in maiuscolo, non ricordo – non erano abbastanza accattivanti per fare breccia in un preadolescente col pallino dell’immaginazione (o magari il fatto che fossero gratuiti li rendeva trascurabili, anche per i professori). Che sia anche per questo che a vent’anni me la sono squagliata?

Ho ripensato a queste cose di recente, leggendo un libro di Roberto Antolini intitolato Verso il Brennero. Luoghi nel tempo (ed. Publistampa). Antolini è uno storico o un bibliotecario, non so bene, c’è chi dice l’uno e chi l’altro, io l’ho conosciuto soprattutto in un consesso politico, qualche anno fa, quando ci ritrovammo nella sede lagarina di SEL per metter su una lista civica di sinistra per le comunali. Fu la mia prima e unica esperienza in politica, feci una campagna in sordina, presi otto voti e ritornai nell’ombra. Antolini invece dopo un po’ si trasferì a Milano, dove vive tutt’ora. In questo libro però, che ha la qualità composita di un saggio storico con elementi narrativi e da baedeker, parla di tre luoghi del Trentino-Alto Adige: Rovereto, gli altipiani cimbri e la val Pusteria.

A Rovereto, alla sua “via della seta”, è dedicata la parte più cospicua del volume. (Per i più ignari: Rovereto senza la seta è come Bolzano senza le fiere o Trento senza il bigottismo, volevo dire il Concilio). Antolini ripercorre l’asse urbano che dal quartiere storico di Borgo San Tommaso, dov’erano ubicati, lungo il Leno, i principali setifici cittadini, attraversa il centro storico sui due lati del torrente, verso nord, fino all’arioso e signorile corso Bettini – proprio la Rovereto che amo percorrere a piedi –, in un itinerario che copre un arco temporale di due secoli, fino all’estenuazione dell’industria serica cittadina e al soffocamento della locale indole mercantile per mano asburgica, il che andrà a nutrire in questa parte del Trentino il nazionalismo ottocentesco. Antolini si sofferma non solo sulle strade e i palazzi, rievocandone il passato, ma anche sulle storie familiari che ne costituiscono la parte umana e transitoria, com’è il caso della famiglia Givanni. Un cui membro, peraltro, fu prelato e poeta di vaghe simpatie illuministe, per cui questa sezione del libro si conclude con una delle sue novelle in versi dialettali: narra del cuoco di un convento di frati che riesce a convincere un principe illuminato, risolvendo brillantemente una sua quaestio a trabocchetto, a non bandire dallo Stato gli oziosi in tonaca. L’eco è quella dei motti di spirito di boccaccesca memoria, da novella umanistica, ma il dialetto conferisce al tutto un tono molto locale e paesano.

La lingua è al centro del capitolo sugli altipiani cimbri, questa isola germanofona fra Trentino e Alto Adige. Che spasso, ad esempio, nell’apprendere che “cimbro” deriva da Zimmermann, falegname, o che la frazione di “Perpruneri”, a Folgaria, prende il nome da quella che in cimbro veniva chiamata Fonte dell’orso, ovvero Bärbrunnen. (Mi diverto con poco, e un piacere simile mi colse una quindicina d’anni fa quando sentii i roveretani chiamare i würstel “probusti”, da Bratwurst.) Anche qui l’autore ricostruisce le origini storiche della specificità territoriale per poi tracciarne il raccordo con l’epoca moderna, giungendo a dimostrare come «il confine linguistico non sia stato quasi mai quella cosa rigida che pretendono sia i nazionalismi, ma che era invece una linea porosa, non solo di demarcazione ma anche di contaminazione.

Nella terza parte Antolini regala qualcosa di più di un cameo all’amico Carlo, autorevole storico bolzanino il cui cognome è qui superfluo ricordare. La meta della loro escursione assieme alle consorti è la casa in cui nacque Jakob Hutter, padre fondatore dell’anabattismo hutterita, ma la partenza da Bolzano è già un pretesto per qualche nota storica sulla città ad uso dei non informati. Si passa poi per Chiusa, fino alla rupe di Sabiona coronata dal’omonimo monastero e al sottostante Burg Branzoll, oggi ricostruito, ma nella cui torre originale Hutter fu rinchiuso nel 1535 prima di essere portato a Innsbruck e lì ucciso. La vicenda degli anabattisti in Pusteria, osteggiatissimi e perseguitati senza pietà, s’intreccia, neanche a dirlo, con quella della rivolta contadina capeggiata da Michael Gaismair, tanto che alla fine, dopo aver attraversato Fortezza e raggiunto il maso di Moos, in italiano Palù, che a Hutter diede i natali e che dà così l’abbrivo alla vera e propria «Hutter story» – la narrazione continua qui a fondere spazio e tempo storico, ma ha assunto ormai i tratti di un pellegrinaggio – l’autore decide di coronare la propria gita, rimasto senza l’amico Carlo, sulle tracce del maso in cui nacque Gaismair, a Tschöfs, sopra Vipiteno.

Il volume si chiude con il ritorno a Bolzano nel giorno della notte dei fuochi, ed è a questo punto che, mentre Antolini ridimensiona con spirito laico e progressista la pretesa sudtirolese di unire religione e politica nel culto del Sacro Cuore, a me pare tutt’a un tratto di sentirmi un po’ più a casa: in Alto Adige, la mia provincia d’origine, dove nacquero anche Gaismair e Hutter, così come nella Rovereto in cui risiedo da quindici anni e dove, tre secoli fa, fiorì l’industria della seta che permise a questa cittadina tra le Alpi e la Pianura Padana di diventare il luogo più civile e illuminato del Trentino. E allora mi dico, finalmente, che poteva andarmi peggio.