Chronik | Senza bandiera

Spunti per un rinnovo delle dimensioni identitarie

La dialettica politica e mediatica attorno al 24 maggio rappresenta un'occasione per proporre riflessioni che vanno oltre ad un'analisi contestualizzante.
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Qualche giorno fa in un commento di mirabile spirito critico e profondità intellettuale Maurizio Ferrandi ha dato voce all’irritazione che in Alto Adige ha destato la decisione del governo italiano di far esporre a tutti gli enti pubblici la bandiera italiana il 24 maggio 2015 in occasione del centesimo anniversario dell’entrata in guerra del regno d’Italia contro l’impero austro-ungarico. Stupisce non poco, infatti, la scelta di una dichiarazione di guerra per una celebrazione solenne dell’orgoglio nazionale, decorando tutti i palazzi dell’Italia istituzionale con il vessillo tricolore. Cent’anni dopo l’inizio della prima guerra mondiale siamo di nuovo pronti ad ostentare fierezza per una dichiarazione di guerra? Eppure conosciamo le cifre dei caduti e documentazioni agghiaccianti sui drammi delle trincee pluriennali sui diversi fronti, possiamo sentenziare con distacco che si è trattato di un conflitto innescato per futili motivi, ragione per cui già nel 1917 Papa Benedetto XV, con l’attenzione rivolta non ai profittatori ma a chi ne ha fatto le spese, aveva qualificato questa carneficina una “inutile strage”. Non abbiamo, nel frattempo, sviluppato un nuovo atteggiamento nei confronti della guerra, più razionale nel soppesare fattori di innesco, cause ed effetti, più responsabile nella valutazione delle alternative, più cauto nella ponderazione dei vantaggi di pochi e di quelli corrispondenti alla “volontè gènèrale”, più critico rispetto a facili entusiasmi?

Pare di no. Sembra che il filo conduttore degli sforzi di ancorare l’identità odierna sia ancora il richiamo dell’impero romano e dei milestones nel corso della storia su cui poggiano gli ideali del risorgimento ed in particolare la tesi, secondo cui la “grande guerra” – retronimo non privo di ambiguità - sarebbe da considerare la “quarta guerra d’indipendenza”. Ne scaturisce un’identità che trae la sua raison d’être da un passato storiograficamente sicuramente ricco e stimolante, di cui seleziona, però, soltanto quei risvolti utili per corroborare una visione di storia nazionale impostata ed aggrovigliata sui suoi aspetti militari ed egemonici e nel cui contesto gli straordinari intuiti di pensiero e gli eccezionali acuti culturali prodotti sul territorio nel corso della storia sono considerati soltanto come fattori legittimanti per rendere inattaccabile tale impianto di proiezione identitaria, mentre ne rimane fuori la dimensione europea, in cui ebbe luogo la nascita delle nazioni e lo sviluppo di un pensiero culturale e politico che travalica i confini nazionali.

All’epoca della prima guerra mondiale erano già passati 400 anni dal monito appassionato contro la guerra del “Dulce bellum inexpertis” e della “Querela Pacis” di Erasmo – ed il pacifismo non faceva certamente parte del comune sentire del periodo, in cui le ambizioni nazional-scioviniste erano al culmine e l’organizzazione sociale improntata a rigidi canoni gerarchici clerico-patrizi. È comprensibile, perciò, che in quei tempi venisse disatteso anche il pensiero di Kant ed il suo concetto della cittadinanza globale, che avrebbero fornito argomentazioni forti per affermare che la pace è condizione, strumento e fine ultimo dell’attività politica. In verità ci furono fautori del pacifismo come Enrico Bignami che nel 1914 propose una “Lega dei neutrali” attraverso la rivista “Il Coenobium” ed Alessandro Ghignoni che, nella stessa rivista, mise in evidenza la contrarietà della guerra ai principi del cristianesimo. Ma i loro ideali furono sciolti nel calderone emotivo del patriottismo audace ed irredentistico che accomunava i popoli e li sospingeva verso il conflitto, affrancati, rispettivamente, dalla parvenza dell’avvallo divino.

Oggi, invece, nella società della conoscenza, saremmo in grado di resettare il nostro DNA identitario sia riprendendo le lucidi riflessioni di Erasmo sia valutando col senno di poi le vicende belliche dell’inizio del ventesimo secolo. Dobbiamo, inoltre, renderci conto che i mainstream che connotano il pensiero politico di una data epoca e l’affermazione delle emozioni collettive ad essi collegati nonché la conseguente sequenza delle vicissitudini politiche e sociali danno un’impronta al cammino della storia ed allo sviluppo delle identità individuali e dei popoli, ma non ci esimono da una riflessione critica sugli elementi caratteristici e sui nodi di questa eredità. Anzi, siamo chiamati ad una verifica del posizionamento identitario alla luce delle insights evolutive e delle conquiste di maturazione della società contemporanea, misurando la tenuta del concetto di identità individuale e nazionale guardando alle sfide con cui siamo confrontati oggi. La storia potrà costituire uno sprono ed esserci di insegnamento. Più è ricca di esperienze significative e caratterizzata da contributi, la cui valenza supera confini regionali e nazionali, più è alta la nostra responsabilità a fornire risposte che riescano a mantenersi in linea con quei livelli di riflessione analitica, di sostenibilità etica e di pragmatismo policentrico.

Il riflesso di glorificazione osservabile in occasione di ricorrenze storiche dimostra che, non avendo rinnovato profondamente il concetto teorico di identità post-imperialista e post-nazional-sciovinista e non avendo radicato e trasmesso un nuovo messaggio identitario di massa che riuscisse a fare presa sulla popolazione, sulla questione del “chi siamo” ci si rifà agli imprinting culturali precedenti. Attiviamo in principal modo la memoria emozionale collegata alla condivisione dell’identità su larga scala in passato ed è questa che riempie la nostra pancia di quei sentimenti forti che colleghiamo alla percezione della nostra identità di oggi. A livello individuale potrebbero essere dei processi neuronali influenzati da memorie di ancora più antica data depositate nella corteccia cerebrale, per le quali lo spirito di appartenenza e la comunanza di impostazione del pensiero dominante, ma anche l’istinto di affermare la supremazia tribale giocano un ruolo preminente. A livello di massa questi fenomeni sono di difficile interpretazione: Probabilmente non abbiamo gli strumenti per capire perché nonostante il passo verso la razionalità positivista dell’illuminismo i popoli siano poi diventati protagonisti di sconfinamenti irrazionali della portata delle due guerre mondiali.

Ciò che sembra evidente è che, più è drammatica e protratta nel tempo l’esperienza collettiva, più consistenti sono i meccanismi di autotutela legittimante. Milioni di caduti, di quale popolo essi siano, ad eccezione di avvenimenti di evidente aberrazione, non possono che essersi sacrificati per una causa nobile e meritarsi il riconoscimento come eroi, alla cui memoria si dedicano monumenti, discorsi solenni ed accostamenti sovraumani. La funzione di questi meccanismi è di ripristinare nella percezione collettiva l’autostima, di ridare fiducia nel futuro dopo le lacerazioni subite e di rafforzare gli impulsi identitari per la necessaria ricostruzione delle infrastrutture e del tessuto societario, neutralizzando al contempo qualsiasi dubbio sulla giustificazione del conflitto e sulle modalità di conduzione dello stesso. È vero, e bisogna sottolinearlo, nelle guerre si incontrano esempi di sovrumana resistenza alla sofferenza, di piena dedizione agli ideali, di esemplare cameratismo e di ammirevole eroicità, ma la cruda realtà della guerra è soprattutto quella descritta nella poesia del 1917 da Wilfrid Owen e contrapposta al verso di Orazio “dulce et decorum est pro patria mori”, che contiene l’appello di non ingannare i giovani su di essa.

Guardando al futuro, l’analisi e l’influenzamento della psicologia delle masse si presentano sia come sfida per uno sviluppo sostenibile sia come strumento di manipolazione che può condurre in un vortice regressivo e distruttivo. La risoluzione del contratto di solidarietà tra i ceti sociali ed il perdurare di un’insostenibile disparità strutturale tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo producono nuove masse povere, represse e senza futuro e con ciò un terreno fertile per reazioni spropositate inimmaginabili, fomentate dall’acuirsi di militanze religiose ed estremismi di vario tipo. Ci sono due meccanismi che ci trattengono dal considerare seriamente tali prospettive: Da una parte siamo abituati a non immaginare il peggio e a confidare che il tempo porti consiglio. Dall’altra, immersi nella marea destruttivista odierna con fortissimi impulsi individualistici ed esposti dai media ad input identitari a raffica nonché ben consci della fragilità di un costrutto identitario non più sostenuto dalle certezze fornite da quel amalgama catalitico composto da religione, autoritarismo e rigide scale sociali, volentieri ci adagiamo in un sentimento di identità collettiva senza grande impegno, pronti ad abbandonare l’argomento scivoloso alla prima occasione.

Forse è per evitare accostamenti evocatori problematici che il più delle volte non chiamano guerra quegli interventi militari in altri territori di paesi europei con un’esperienza di pace di settant’anni e che assumono, in fin dei conti, le caratteristiche di una guerra, anche se circoscritti territorialmente, approvati con limitazione temporale, e, non sempre, qualificati come missione di pace. Si denota comunque una tendenza dei centri di potere ad accentuare la franchezza nella comunicazione dei fatti ed una maggiore avvertenza dell’opinione pubblica rispetto all’ipotesi che la guerra potesse fare parte delle quinte della nostra quotidianità, lontana dalle scene, se siamo fortunati, ma delle volte inaspettatamente e brutalmente in primo piano. È perché siamo fortunati che guardiamo alla guerra con distacco, anche se è o è stata presente in paesi non lontani, anche se i media ci ricordano giornalmente che è una realtà deprimente in tante zone del mondo.

Se guardiamo a queste circostanze con attenzione, l’ovvietà della pace viene oscurata dalla considerazione che è difficile immaginare una pace non armata, ovvero senza un monopolio legittimato, questo sì, dell’uso della forza, e che, di fronte alla costellazione tanto pluricentrica quanto conflittuale nel mondo d’oggi e, soprattutto, in vista dell’inasprirsi della contesa per le risorse, sarebbe ingenuo fare affidamento ad un processo progressivo di pacificazione sine die. Volendoci sperare si può affermare che potrebbe essere garantito casomai da un equilibrio delle forze in gioco e da decisi e lungimiranti misure per una più equa distribuzione delle opportunità di vita e delle risorse. Sono prospettive, per le quali ci servono, probabilmente, nuovi eroi e nuove bandiere.