Cermis 1976
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Gesellschaft | Avvenne domani

Strage in fotocopia

Il Mottarone 2021 come il Cermis 1976

La sovrapposizione è talmente completa da far rabbrividire. Chi ha vissuto la spaventosa tragedia della funivia del Cermis, quella del marzo 1976 non quella più recente provocata dalla spavalderia omicida di un pilota cowboy dell’aviazione USA, vede riflessa nelle cronache su quel che è avvenuto domenica a Stresa un’immagine che  sperava fosse rimasta sepolta per sempre, assieme a quei morti straziati, assieme alle lamiere contorte di una cabina precipitata.

E invece tutto ricomincia da capo.

L’affannoso domandarsi su come una tragedia di questo genere possa essersi verificate e poi, dopo le prime sommarie indagini, l’emergere di una verità tanto semplice quanto agghiacciante. È successo perché qualcuno ha scommesso con la morte. Stavolta la morte di alcune famiglie salite su una funivia per godere di qualche ora libera, di un’escursione sognata come una liberazione dopo i mesi della reclusione forzata. Allora, la morte di decine di sciatori con le gambe indolenzite dopo una giornata passata sulle piste.

La scommessa è sempre quella. Tirare i dadi illudendosi che non succeda se si aggirano i sistemi di sicurezza, per velocizzare la corsa, trasportare più passeggeri e più velocemente, evitare il blocco continuo dell’impianto. E invece, non subito magari ma dopo qualche ora o qualche giorno, qualcosa succede.

Adesso, come allora, scatta la ricerca delle responsabilità. Nel 1976 a pagare tutto il conto, nel primo processo, fu solo il manovratore. Poi ci fu un altro giudizio ed altre responsabilità. Stavolta si vedrà su chi cadranno i fulmini della giustizia.

Molto resta ancora da capire ma una cosa sembra già abbastanza chiare. Ancora una volta sulla bilancia il piatto del profitto è stato più pesante di quello della vita. E se qualcuno pretende di spiegarci che in fondo due incidenti in mezzo secolo non solo statisticamente così rilevanti, vien da rispondergli che in realtà quella bilancia pende dalla parte sbagliata molto, molto più spesso. I freni disinseriti sul Mottarone sono fatti dello stesso metallo della griglia di protezione tolta, secondo l’ipotesi della procura, dall’orditoio che ha inghiottito Luana D’Orazio, dello stesso acciaio che si è consumato irrimediabilmente nei tiranti del ponte Morandi a Genova, delle protezioni tolte ai mezzi agricoli che si rovesciano sui pendii aspri delle nostre montagne.

È la stessa storia che si ripete, quasi all’infinito. Ci hanno ripetuto, in questi mesi, che si poteva morire di Covid ma anche di fame se la macchina della produzione dei consumi fosse stata lasciata ferma troppo lungo. Sarà anche vero, ma viene anche in mente la diabolica alternativa davanti alla quale per tanto tempo sono stati messi gli operai di Taranto, costretti a scegliere tra il restare con le mani inutili e vuote e il rischio di dover seppellire i loro figli uccisi dai veleni prodotti anche dal loro lavoro.

Il caso della funivia di Stresa è di una chiarezza terribile che non lascia spazio a dubbi o fraintendimenti. Così quello del Cermis nel 1976. A volerci riflettere, tuttavia, l’eterno dilemma tra la vita e il profitto corre spesso su binari molto più ambigui e difficili da seguire. Come i mezzi pesanti che corrono sulle nostre strade ed autostrade con gli autisti indotti o costretti, talvolta, a ingannare gli strumenti di controllo, ad abbreviare le soste, a esorcizzare la stanchezza, sempre sperando, come su quella funivia, che alla fine non succeda nulla.