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Allargare i recinti

«Il cimitero è uno spazio da percorrere, da frequentare spesso e a cui dedicare una collettiva cura quotidiana.»
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Turrisbabel 95
Foto: Architektur Stiftung Südtirol / Studio Mut

 L'editoriale del No. 95 del Turris Babel: Cimiteri | Friedhöfe

Testo: Carlo Calderan


In Zusammenarbeit mit der Architekturstiftung Südtirol / in collaborazione con la Fondazione Architettura Alto Adige.

 

Per quanto meno appariscenti di chiese e castelli e, com’è ovvio, meno numerosi dei masi, i cimiteri, o sarebbe meglio dire i «Kirchhöfe», cioè lo spazio destinato alla sepoltura che circonda le chiese, hanno un ruolo non secondario tra le costruzioni che compongono il paesaggio antropico storico sudtirolese.

 

 

Negli insediamenti di mezzacosta hanno la consistenza di una linea. Visti da lontano, appaiono infatti solo come il muro di contenimento che circonda e rende piano il colmo dei «Bühel», le collinette che interrompono la ripida discesa dei fianchi montani sulle quali è quasi sempre costruita la chiesa. A differenza del maso che si infigge nel terreno senza modificarne l’andamento o dei castelli che inglobano gli speroni rocciosi su cui poggiano per assumerne ed estenderne quasi la forma, i cimiteri modellano la topografia originaria del pendio ridisegnandone il profilo. Nel paesaggio precipite delle Alpi costituivano un raro segno orizzontale, un’eccezione perché la costruzione del piano in montagna un tempo era opera onerosa e di difficile realizzazione. Dobbiamo a queste «innaturali» terrazze la particolare bellezza dello spazio sacro altoatesino. Sono un podio che allontana l’intorno più immediato e stacca le chiese da terra, lasciandole a librarsi a pochi metri dal suolo, sole nel vuoto a confrontarsi con il paesaggio naturale, quasi fossero navi pronte ad attraversarlo.

 

 

Nel fondovalle o negli insediamenti di maggiore dimensione, dove l’abitato ha inglobato la chiesa parrocchiale e le esigenze di espansione non ne hanno reso necessario lo spostamento ai margini del paese, i cimiteri sono luoghi del tutto particolari. Costituiscono infatti forse lo spazio aperto pubblico più caratterizzante e complesso della struttura insediativa minore sudtirolese, altrimenti povera di piazze o giardini. Il «Kirchhof» è un campo recintato al centro del paese che bisogna attraversare per accedere alla parrocchia, di cui spesso sostituisce quasi il sagrato. Una pluralità di accessi lo allacciano alla rete dei percorsi del paese rendendolo parte della vita di ogni giorno; il cimitero non è un luogo che si deve raggiungere e a cui riservare visite sporadiche, ma uno spazio da percorrere, da frequentare spesso e a cui dedicare una collettiva cura quotidiana. Continue necessità di adeguamento funzionale e d’ampliamento hanno fatto sì che tra gli elementi costitutivi tradizionali degli insediamenti e del paesaggio sudtirolesi proprio i cimiteri siano divenuti un campo di sperimentazione privilegiato per l’architettura moderna. Più forse di quello dell’architettura sacra, in cui gli edifici del passato paiono comunque soverchianti rispetto alle nuove realizzazioni, e certamente più di quello dell’edilizia rurale, dove, se si esclude di recente l’architettura del vino, il suo apporto è stato del tutto marginale. La particolare ricchezza degli esempi storici ha fornito un deposito di soluzioni, forme, materiali che è stato sondato e forzato mentre la natura ibrida dei cimiteri in ambito alpino, sospesi come sono a metà strada tra edificio e spazio aperto, ne hanno fatto poi l’ambito progettuale in cui più si è indagato il rapporto tra costruzione e terreno, tra architettura e paesaggio; tanto che una storia della costruzione contemporanea dello spazio aperto nella nostra provincia non potrebbe che partire dall’architettura cimiteriale. In questo numero di Turris Babel ne ripercorriamo per tappe significative l’evoluzione negli ultimi 100 anni. Con l’apertura a Oltrisarco nel 1934 del nuovo grande cimitero comunale di Bolzano su progetto di Gustav Nolte si completa l’ultimo dei cimiteri «urbani» altoatesini, con i loro piani campi di sepoltura, racchiusi entro chiari perimetri geometrici, definiti da lunghi porticati. Si conclude così la fase di trasferimento dei cimiteri all’esterno delle aree urbanizzate che nel corso del xix secolo ha coinvolto tutte le città della provincia (Bressanone 1792/1880, Bolzano 1924, Brunico 1830, Vipiteno 1848/1843, Merano 1907, Salorno 1911), da allora gli interventi più interessanti riguarderanno i centri minori con un atteggiamento però del tutto diverso rispetto a contesto ed inserimento nel paesaggio.

 

 

Parallela a questa evoluzione architettonica dei luoghi di sepoltura è la ricca e trascurata stagione dei cimiteri di guerra che si prolunga ben oltre la seconda Guerra Mondiale fino a tutti gli anni 50, ricostruita qui per noi da Marco Mulazzani. Difficile valutare quanto queste realizzazioni abbiano influenzato gli architetti sudtirolesi; è comunque sintomatico che Erich Pattis nel suo libro del 1984 «Kirchhöfe im alpinen Raum», per quanto dedicato ad una particolare tipologia cimiteriale, non li citi neppure. Il mito nordico del ricongiungimento con la natura che promette il cimitero-bosco di Brunico, così come la grandiosa dispersione nel quasi anonimato delle sepolture sempre-uguali nel prato e nella siepe dei cimiteri di guerra di Merano e Bressanone sembrano atteggiamenti troppo distanti dalle pratiche di sepoltura locali per fungere da modello ai nuovi cimiteri alpini.

È piuttosto a Sesto Pusteria che si fissano i paradigmi della nuova architettura cimiteriale altoatesina. Qui nel 1923 Amonn Fingerle realizzano l’ampliamento del cimitero distrutto durante la Prima Guerra Mondiale introducendo soluzioni architettoniche che diverranno poi quasi canoniche. L’accesso al cimitero avviene attraverso uno spazio interno, un atrio voltato in forma di rampa. Un tunnel ombroso che un tempo terminava in un ingresso secondario, incoerentemente piccolo rispetto alle dimensioni della scalinata, lasciando invece nascosto il vero obiettivo della salita che si manifesta solo una volta raggiunta la rotonda quando, voltandoci, appare la facciata in piena luce della parrocchia. All’interno gli spazi di sepoltura seguono l’andamento del terreno disponendosi a terrazze che un portico chiude verso monte. Un elemento che ricorda quelli dei cimiteri urbani le cui arcate vengono qui però contratte, ridotte a grandi nicchie voltati scavati in un muro che non circoscrive completamente lo spazio cimiteriale esiliandolo dal contesto, ma si limita a trattenere lo scavo, lasciando che il pendio erboso ed il bosco irrompano sulla scena dall’alto.

 

La costruzione di uno spazio processionale la ritroviamo nell’atrio di ingresso del cimitero di Cadipietra di Erich Pattis del 1970, ma anche nel portico che Tscholl sposta dai bordi al centro del suo ampliamento nel cimitero di Laces del 1998. La precisa definizione di una drammaturgia di accesso diventa a Luttago poi il tema di quasi tutta la composizione. Lo studio em2 dilata la rampa che conduce al cimitero, ne rinvia continuamente l’arrivo, ci costringono a percorrerne l’intera lunghezza, lasciandoci in una condizione sospesa tra interno ed esterno: il muro di cinta diventa così uno spazio percorribile, una condizione esperibile. Il lavoro sui margini, legato alla concezione del cimitero come spazio recintato (il «Friedhof» tedesco è del resto etimologicamente un «befriedeter Raum», cioè un luogo conchiuso), è una costante nell’opera di Amonn, Pattis, Gutweniger. Il muro si fa costruzione filiforme: all’Assunta sul Renon, Amonn lo alza, lo abbassa, per aprire o chiudere la vista, ne fa l’elemento generatore della stessa cappella ad arco al centro del cimitero, mentre a San Pancrazio Gutweniger lo trasforma addirittura nella navata laterale di una chiesa a cui manca quella maggiore, sostituita dall’intero campo di sepoltura. Ma anche a Santa Caterina in Val Senales, dove Gapp ha costruito di recente la nuova cappella mortuaria nel vuoto al di là del recinto – riattualizzado il gesto di rottura del confine già sperimentato da Mayr Fingerle a Velturno – la «violazione» del muro è in realtà solo apparente, basta scendere di qualche tornante verso valle per accorgersi infatti di come la cappella sia solo uno «scatto» verso l’alto delle mura che sostengono il cimitero.

Un atteggiamento quello di Gapp che mi pare emblematico per l’architettura cimiteriale di questi ultimi anni nella nostra provincia: partendo da regole insediative antiche, uno dopo l’altro i cimiteri di montagna sono stati ampliati, i vecchi muri di contenimento si sono allungati, talvolta ne sono stati sovrapposti di nuovi, ma da lontano queste sono variazione quasi impercettibili.

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kuno prey Sa., 14.11.2020 - 11:48

grazie carlo per aver aperto un argomento interessantissimo; per abitudine in ogni posto che visito, vado a guardarmi il rispettivo cimitero che ritengo un'espressione della cultura del luogo.
sarebbe interessante fare uno studio anche sulle tombe, per l’esattezza sulle croci. inizialmente in ferro battuto, ora direi in ferro sbattuto, soppiantato anche spesso dall’acciaio inossidabile o ottone. poi ci sono lapidi in graniti esotici lavorati da manovalanza a bassissimo costo in india; non costano solo poco ma come misero hanno anche il valore culturale. per non parlare della non cultura della grafica delle lapidi o croci. oggi fresa CNC e taglio laser fanno miracoli. no, non prolungano la vita, anzi, rischiano di accorciarla a chi ha una sensibilità e passione per la buona grafica.
per me un cimitero è paragonabile a un bosco, dove le croci sono gli alberi. quando questi ultimi sono in salute, accrescono il valore del bosco e il piacere di attraversarlo. a questo punto non posso non nominare il cimitero di senales: un museo all’aperto con molte croci che definirei poetiche dell’artista martin rainer di bressanone.

Sa., 14.11.2020 - 11:48 Permalink