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“Sette anni senza risposte”

Luca Bellizzi, delegato in Italia del Governo della Catalogna, difende il referendum su cui tutta l’Europa ha gli occhi puntati: “La Spagna ha saputo solo dire no”.
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Foto: Ansa

Oggi in Catalogna si vota per l'indipendenza. Il delegato della Generalitat de Catalunya, voce “ufficiale” del Governo catalano a Roma, ripete in tutti i modi un solo concetto: per sette anni la Spagna non avrebbe mosso un dito per facilitare un tavolo di negoziazione con Barcellona. La natura essenzialmente politica del problema, prima ancora che giuridica, è espressa a chiare lettere: “Il referendum del primo ottobre è l'unica chance che ci è rimasta. Se solo la Spagna avesse un altro atteggiamento, proponendo una soluzione federale, o concordando un referendum come ha fatto il Regno Unito con la Scozia...”. Bellizzi smentisce l'eventualità di una dichiarazione unilaterale d'indipendenza, e sottolinea l'alterità catalana rispetto agli altri percorsi secessionisti. Nessun paragone con l'Italia, "capace di capire quando certe richieste arrivavano dal suo territorio".

Salto.bz: Sarà un momento abbastanza impegnativo per lei.
Luca Bellizzi: Ben venga, è sempre gradita l'opportunità di spiegare il nostro punto di vista come Governo della Catalogna.

L'Alto Adige/Südtirol è una realtà per certi versi simile – e al contempo assai diversa – dalla Catalogna. Da Bolzano si guarda con attenzione a quanto sta accadendo a Barcellona. Partiamo da una domanda a bruciapelo: il referendum si farà?
La volontà del governo catalano è che il popolo della Catalogna possa esprimersi liberamente e pacificamente. Come ha affermato il 130esimo presidente della Generalitat de Catalunya, Carles Puigdemont, il primo ottobre prevediamo lunghe code di cittadini con la propria scheda elettorale in mano, affinché possano esprimere il proprio desiderio di partecipazione democratica. E a partire da quel risultato, a prescindere che sia a favore del sì o del no, cercheremo di dare una risposta politica – quella che non è arrivata in tutti questi anni dalla Spagna.

E come si svolgerà materialmente, dal punto di vista amministrativo e dell'ordine pubblico? I sindaci catalani renderanno disponibili gli spazi comunali per allestire i seggi – ma la polizia minaccia interventi per impedire le operazioni di voto.
Settecento sindaci hanno messo a disposizione gli spazi municipali per poter celebrare questo referendum. Notizia delle ultime ore è che la Procura Generale prevede l'occupazione fisica delle scuole da parte delle forze di polizia. Già a partire da venerdì occupano i centri d'istruzione dove generalmente si vota: hanno ricevuto l'ordine la Guardia Civil, il Cuerpo Nacional de Policía, ma anche i Mossos d'Esquadra, ossia la polizia catalana. Questa è la risposta dello Stato spagnolo a una richiesta non tanto di indipendenza, quanto di democrazia. Ma la Generalitat, oltre alle scuole, ha altri centri dove poter sistemare le urne elettorali. Per noi l'importante è la volontà dei cittadini: ci interessa la massima partecipazione, che sia per il sì o per il no. Lo sforzo organizzativo è perché il cittadino catalano possa liberamente esprimersi.

Dal momento che il Tribunale Costituzionale della Spagna ha dichiarato illegale l'intero procedimento, l'obiezione sarà che questo referendum si tiene con modalità “irregolari”, quindi senza che il risultato possa essere dichiarato e riconosciuto come valido. Cosa ne pensa?
Questo è il cambio di registro del governo spagnolo: sino a qualche giorno fa Mariano Rajoy dichiarava che non si voterà, non prevedeva che qualcuno potesse affluire ai centri elettorali ed esprimere il proprio voto. Vedremo se sarà vero, oppure no. L'obiettivo basilare del governo catalano è la democrazia, perché non ci sono alternative alla democrazia. Sul tema legale/illegale, ci sono studi di giuristi e costituzionalisti che non condividono questa posizione sull'irregolarità. Quella che non c'è stata, era la volontà politica. Si sarebbe potuto negoziare un referendum nel solco costituzionale, o trasformarlo in un referendum consultivo, che magari avrebbe consentito un cambio della Costituzione, perché no. È mancata negli ultimi 7 anni in Spagna una volontà politica da parte del governo centrale di dare una risposta alle richieste che arrivavano dalla Catalogna.

L'obbiettivo del governo catalano è la democrazia, perché non ci sono alternative alla democrazia. La risposta politica dello Stato spagnolo non c'è stata, quella penale e poliziesca sì.

L'indipendentismo catalano arriva da lontano. La questione dello status della regione si trascina da ben sette anni – come ricorda la vostra "timeline" istituzionale – ovvero dalla bocciatura del 2010 del nuovo Statuto d'Autonomia della Catalogna da parte sempre del Tribunale Costituzionale spagnolo.
Il nostro processo non è nato ieri, ma è andato accumulandosi nel tempo, portato avanti in modo pacifico e democratico dalla Catalogna – dal governo, dal parlamento, dalla società civile – e sollevando un grande problema politico. La sentenza del 2010 fu preceduta da un percorso che sfociò nel 2006 con l'approvazione dello Statuto d'Autonomia, con tutti i passaggi stabiliti dalla Costituzione: parlamento catalano, Cortes Generales (i due rami del parlamento spagnolo, ndr), referendum del popolo catalano, firma del Re. Per ragioni del tutto elettoralistiche, il Partito Popolare spagnolo raccolse firme per emendare alcuni articoli importanti, curiosamente vigenti in altri Statuti come quello dell'Andalusia. Nel 2010 il Tribunale costituzionale era carente, con posti vacanti e titolari scaduti, ma emise lo stesso una sentenza che tagliò quegli articoli. Il giorno seguente la prima grande manifestazione a Barcellona, con un milione di persone e lo slogan “abbiamo il diritto di decidere”. In fondo, ciò che da sempre chiede il popolo catalano: decidere democraticamente il proprio futuro. La Spagna ha paura di dare possibilità di esprimersi.

La Spagna avrebbe impedito di decidere “autonomamente” alla Catalogna: è per questo motivo che il “catalanismo” è passato da una via autonomista a un'evoluzione indipendentista? Se la Spagna non avesse commesso l'errore che gli imputa il governo catalano, non saremmo arrivati a questo punto?
Sono originario di Milano, mi sono trasferito a Barcellona 15 anni fa. Allora manifestazioni indipendentiste c'erano, però con millecinquecento, massimo duemila persone. A partire dal 2010, l'11 settembre di ogni anno l'indipendentismo mobilita in media più di un milione di persone – e sfido a trovare movimenti politici in Europa capaci di mobilitare la società civile in questo modo. Cosa è successo nel frattempo? Il continuo “no” da parte della Spagna alle proposte avanzate dalla Catalogna. Perché si sono trasformati da autonomisti a indipendentisti? Perché i cittadini catalani hanno visto che con l'attuale struttura dello Stato spagnolo – il Partito Popolare, ma non solo – non c'era la possibilità di evolvere nella propria autonomia. Di qui la necessità di un'alternativa, non potendo negoziare con lo Stato spagnolo un migliore status, secondo la teoria politologica “o ti lamenti o ne esci” organizzandoti. Abbiamo provato a lamentarci, ma non c'erano spiragli.

Come Governo della Catalogna non proponiamo una dichiarazione unilaterale di indipendenza, non è la nostra opzione.

Lei è politologo: converrà che si tratti di un passaggio delicato anche sul piano più strettamente “teorico”, laddove si solleva la questione del presunto diritto all'autodeterminazione dei popoli – che il diritto internazionale tende a riconoscere in situazioni particolari, come quelle post-coloniali e di occupazione illegittima. La scelta del governo catalano sottolinea molto l'opzione democratica, ma il precedente di una secessione dichiarata unilateralmente all'interno di uno Stato europeo non espone a un pericoloso “salto nel buio”?
Capisco il dubbio, ma le rispondo con un'altra domanda: cosa ha fatto esattamente lo Stato spagnolo per evitare il nostro posizionamento giudicato radicale? In più di sette anni, da quando è iniziato il “procés”, abbiamo cercato di modificare lo status quo attuale attraverso i canali previsti dall'arco costituzionale, anche nel gioco politico interno a le Cortes. La risposta è sempre stata “no, non si può”, non se ne vuole né può parlare. L'alternativa offerta dalla Spagna è il silenzio, restare nella situazione attuale così come stiamo. Come Governo della Catalogna non stiamo proponendo una dichiarazione unilaterale di indipendenza, e quello che verrà – mi permetta di dire – lo vedremo un passo alla volta. Dipende da cosa succederà il primo di ottobre, dalla partecipazione e dal risultato. Il presidente Puigdemont a un'intervista lo ha detto chiaramente: “Non è la mia opzione”. La nostra unica opzione è quella di un voto democratico.

Questo è importante chiarirlo, in questo momento non sembra chiaro.
Ho letto in alcune agenzie che “non scarta la dichiarazione unilaterale d'indipendenza”, ma il presidente ha dichiarato che se qualcuno la vuole avanzare, se ne discute. Gli occhi del governo sono puntati sul primo ottobre e sui risultati che ne scaturiranno; è da vedere se la Spagna sarà in grado di dare significato politico al risultato. Già il 9 novembre 2014 quando ci fu il processo partecipativo – non un referendum né un processo consultivo, cui hanno preso parte più di due milioni e trecento mila persone – il governo spagnolo ha fatto finta di non vedere. Come popolo dobbiamo cercare un'alternativa. Lo status quo lo conosciamo già: rivendicare la propria identità nazionale in uno Stato che invece non si definisce plurinazionale. O cerchi di progredire all'interno dello stato spagnolo – cosa che il fracasso sullo Statuto d'Autonomia dimostra non essere possibile – o cerchi alternative. Una di queste è il passaggio referendario, per capire se c'è tale volontà, e in caso affermativo dare la risposta politica alla richiesta che viene dalla società.

Come popolo dobbiamo cercare un'alternativa. Lo status quo lo conosciamo già: rivendicare la propria identità nazionale in uno Stato che invece non si definisce plurinazionale.

Dal punto di vista del governo catalano, si tratta di un passaggio molto strategico-politico. Le categorie giuridiche sembrano importare poco: si cerca la strada dell'atto politico senza ammantarla di chissà quale legittimità giuridica – perché ne è sostanzialmente priva.
La legittimità democratica ce l'ha, perché è emanazione del Parlamento della Catalogna, che con le elezioni del 27 settembre 2015 ha avuto un mandato dal popolo catalano in questo senso. Le forze politiche che compongono la maggioranza del parlamento avevano (e hanno ancora oggi) come primo punto della propria azione politica l'indipendenza, ma soprattutto un passaggio che permetta il diritto di decidere al popolo catalano. Sulla legittimità giuridica, ripeto: non tutti gli studiosi di diritto sono concordi, soprattutto quella che è venuta meno è la volontà politica di permetterlo. Nel 2011 il governo Zapatero ha modificato in 24 ore l'articolo 135 della Costituzione, con i voti del Partito Popolare (PP) e del Partito Socialista (PSOE). Se c'è la volontà, la Costituzione si può cambiare.

E perché non c'è stata volontà politica di incontrarsi, tra Madrid e Barcellona, di sedersi attorno a un tavolo e discutere?
Le risposte sono mille. Rispondo come politologo: perché la raccolta di firme del Partito Popolare per emendare lo Statuto d'Autonomia del 2006 aveva uno scopo del tutto politico ed elettoralistico. Ha alimentato un sentimento anti-catalano che gli è servito per aumentare i propri voti in Spagna, fuori dalla Catalogna. In questo momento, qualunque concessione facesse il governo Rajoy, sarebbe la sua morte politica. Perciò dice “non voglio e non posso”. La legge si può modificare, ma elettoralmente sarebbe un suicidio politico. Per questo anche il Partito Socialista non ha fatto nessuna offerta di peso, solida e reale, alternativa alla strategia politica del Partito Popolare. Chi lo sta facendo è Podemos, che sta dicendo “definiamo il diritto di decidere del popolo catalano, vediamo come dare l'opportunità a un referendum negoziato”.

Il PP ha alimentato un sentimento anti-catalano. Qualunque concessione facesse il governo Rajoy, sarebbe la sua morte politica. Perciò dice “non voglio e non posso”.

Le condizioni pare non sussistano: la Spagna non sembra disposta a seguire la via “britannica” che ha consentito il referendum in Scozia (alla stregua del Quebec).
Esempi di democrazie consolidate che hanno risolto questo problema in modo democratico: avviare un confronto politico sulle idee e sui progetti, nel quale si difendono le diverse posizioni, e poi dare l'opportunità ai cittadini di decidere. Questo in Spagna non è mai avvenuto.

Ma è qualcosa cui si punta ancora? Secondo un sondaggio di El Pais, l'82% dei cittadini catalani – ovvero la maggioranza degli elettori di tutti i partiti, compresi PP e PSOE – sarebbe favorevole a un referendum legale negoziato con la Spagna.
Questo dimostra che non è una volontà proveniente soltanto dall'elettorato indipendentista. C'è la volontà di poter decidere persino in quell'elettorato già intenzionato a esprimere un voto contrario.

Questo potrebbe essere il passaggio successivo al primo ottobre, ossia una richiesta da avanzare onde arrivare a un risultato legale e riconosciuto da tutti?
Saremo disposti a negoziare sino all'ultimo minuto con Madrid: una settimana fa, il presidente e il vicepresidente della Generalitat, la presidente del parlamento catalano e la sindaca di Barcellona Ada Colau hanno mandato una lettera al presidente Rajoy e a Re Felipe VI dando proprio questo messaggio. Negoziazione senza alcun freno, su qualunque punto, partendo però – quando si negozia si parte con una prima offerta – con la nostra condizione sine qua non: che il popolo catalano possa decidere pacificamente e democraticamente. A partire da qui, potremo decidere la data, il quorum, la domanda o le domande. Se la Spagna avesse davvero un'offerta per la Catalogna, di carattere confederale, federale accentuato, di riforma della costituzione che blindi l'autonomia della Catalogna. La metta sul tavolo, finalmente, visto che per sette anni non c'è stata. E dia l'opportunità al popolo catalano di decidere fra tutte queste opzioni. Se sono più forti, o possono godere di più sostegno rispetto all'indipendenza, ci si confronta, si va al voto e si accetta il risultato democratico.

Siamo disposti a negoziare su qualunque aspetto e sino all'ultimo minuto con Madrid. Anche sul quorum. E ben venga un'offerta di riforma costituzionale confederale della Spagna.

Una soluzione in un'ottica sudtirolese, dove l'Autonomia è ancora la strada di maggiore successo e consenso – con rapporti bilaterali tra Roma, Bolzano e Vienna.
Porta l'esempio del Trentino-Alto Adige, ma quest'offerta di dialogo dallo Stato, beh... in Catalogna non è mai arrivata. Delle opzioni che ho elencato, nessuna è stata avanzata da Madrid.

Cosa chiede la Catalogna all'Europa, Italia compresa?
Molti partner europei hanno interessi in Catalogna. Nel caso italiano, abbiamo in Catalogna quasi 50mila cittadini italiani residenti permanentemente, di cui 29mila solo a Barcellona. Vi sono 600 imprese; l'80% delle imprese italiane presenti in Spagna sono concentrate in Catalogna. Il debito pubblico spagnolo rappresenta un passivo importante per le banche tedesche. Lo scontro politico Barcellona-Madrid ha implicazioni su tutto lo scacchiere europeo. In politica internazionale si sa che a influire sono gli interessi: essi spingeranno l'Unione Europa, come è accaduto anche in passato, a trovare una soluzione pratica e politica a un problema politico.

Quindi l'Unione europea deve intervenire in Spagna?
Non si può permettere oggi che l'unica soluzione proposta dalla Spagna sia incriminare 14 persone tra gli alti rappresentanti del governo, chiamare a deporre più di 700 sindaci che non hanno commesso alcun reato ma solo come forma di intimidazione, aprire la corrispondenza, bloccare la distribuzione di riviste nonché più di 120 pagine web, tra cui la piattaforma dell'Assemblea nazionale di Catalogna, in una Spagna nella quale invece si tiene aperta e sovvenziona la pagina web della Fondazione “Francisco Franco”. Questo è il dubbio che solleviamo. Lo stato di diritto vale anche per le azioni che compiono determinati Stati. Sarebbe bello se arrivasse da fuori lo stimolo per un tavolo di concertazione che la Spagna non ha mai voluto.

In politica internazionale si sa che a influire sono gli interessi: questi interessi spingono l'Unione Europa, come è accaduto anche in passato.

Teme ci possa essere un'ulteriore escalation del conflitto? Può andare peggio di così?
Dovrebbe chiederlo all'ambasciatore spagnolo. La società catalana è rimasta pacifica: lo abbiamo dimostrato negli anni e anche negli ultimi giorni in cui le provocazioni sono state molte, da parte sia di forze della destra spagnola che della Guardia Civil. Questo è il nostro punto di forza. Da democrazia liberale qual è la Spagna, spero che le misure coercitive siano finite. Posso avere preoccupazioni, ma sarebbe una sconfitta per la democrazia in Spagna – e ovviamente in Europa.

Qual è l'atteggiamento della politica italiana? Se la Sardegna ambisse all'autodeterminazione, forse Roma non reagirebbe diversamente da Madrid...
Prima di tutto vedo molto interesse, volerne sapere di più. Ovvio, la Realpolitik esiste: la Spagna è un partner europeo e internazionale. Ogni volta che mi sono riunito con esponenti politici (Bellizzi ha incontrato anche la SVP, ndr) non vado a chiedere una dichiarazione, un sostegno, un supporto, ma solo per informare. E devo dire che questa richiesta di informazione è spesso arrivata dalle istituzioni italiane. Sino al primo ottobre, la volontà del mondo politico italiano sarà seguire con attenzione.

Molte caratteristiche del processo catalano non sono presenti altrove, dalla trasversalità all'europeismo all'accoglienza. Ciò che stiamo facendo è per la Catalogna, non per altri processi in Europa. E neppure contro la Spagna.

Cosa pensa di quanti, anche in Italia e tutt'al più in Sudtirolo, guardano con simpatia alla Catalogna come a un “esempio”? Non teme questa tendenza a strumentalizzare il caso catalano? Lombardia e Veneto puntano i piedi nonostante l'Italia sia stata a lungo accondiscendente verso le loro pretese federaliste.
Non me la sento di equiparare le due situazioni. Molte caratteristiche del processo catalano non sono presenti in altri movimenti. È proveniente dal basso, dalla società civile. È trasversale e non patrimonio di un unico partito, con un sostegno che va dal centrodestra ai partiti dell'estrema sinistra. È un progetto politico che si dichiara europeista, che vuole restare in Europa, nell'Euro e nell'area Schengen. La società catalana è aperta anche ai rifugiati: si pensi alla manifestazione di febbraio a Barcellona che rivendicava la possibilità di mettere a disposizione luoghi di accoglienza. Questo identifica il nostro processo e lo differenzia dagli altri. Ciò che stiamo facendo è per la Catalogna, non per altri processi in Europa. E neppure contro la Spagna. Più che guardare all'esempio catalano per copiarlo, inviterei a guardare a cosa ha fatto la Spagna: è l'esempio di quello che non dovrebbe mai compiere uno Stato centrale di fronte a una richiesta così forte e persistente, davanti a sette anni di manifestazioni con più di un milione di persone, elezioni continue con maggioranze di partiti che si definiscono “sovranisti”. L'Italia, invece, è stata in grado di capire quando certe richieste arrivavano dal suo territorio.