Gesellschaft | L'intervista

“Le donne guidano il cambiamento”

Violenza di genere, criminalizzazione dell’aborto, femminismo di ieri e oggi: parla Marcella Pirrone. L’avvocata fra le 50 donne italiane 2020 scelte da D di Repubblica.
Marcella Pirrone
Foto: Marcella Pirrone

Che ci vuole, devo solo raggiungere quota 20 milioni di followers come Chiara Ferragni”. Scherza, Marcella Pirrone, ma il sottotesto è chiaro: essere stata inserita fra le 50 donne italiane dell’anno, un riconoscimento per l’impegno sul tema della violenza contro le donne, è già una piccola grande vittoria. L’avvocata bolzanina della rete D.i.Re e presidente di WAVE, Women Against Violence Europe (network che raccoglie 140 organizzazioni di donne che gestiscono centri antiviolenza, case rifugio e progetti per la prevenzione della violenza di genere in 46 Paesi europei), figura - assieme a Dorothea Wierer, altoatesina campionessa del biathlon - tra le 50 protagoniste del mondo della scienza, dell’imprenditoria, dell’attivismo, dello sport, della cultura, e non solo, in corsa per il titolo di donna dell’anno 2020 (oggi, 31 ottobre, è l’ultimo giorno per votare), iniziativa lanciata dal magazine D-La Repubblica delle donne.


salto.bz: avvocata Pirrone, fra le sue priorità dichiarate c’è “l’implementazione della Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere”. Quanto ancora c’è da fare?

Marcella Pirrone: Nel campo del contrasto alla violenza ai danni delle donne la Convenzione di Istanbul è un grande risultato, uno strumento creato a livello europeo, articolato, frutto di un lungo lavoro. Nel nostro Paese formalmente la Convenzione è stata recepita come legge italiana, ma è ancora poco conosciuta e ancora meno applicata. A volte non viene nemmeno presa sul serio da quei professionisti che sono i diretti destinatari della norma, e cioè tutti coloro che, secondo le loro competenze, possono - o dovrebbero - fare qualcosa rispetto al problema della violenza contro le donne, mi riferisco quindi alle professioni dell’ambito giudiziale, sociale, sanitario, educativo, politico, e delle forze dell’ordine. Dobbiamo fare ancora molto lavoro sul fronte della sensibilizzazione e dell’applicazione concreta della norma. Manca molto anche in termini di disponibilità e di cultura nel prenderne atto.

Libertà non vuol dire, come insinua qualcuno manipolandone il significato, che vogliamo vivere secondo canoni di disvalore morale, ma pretendiamo di avere pari possibilità di determinare la nostra vita

E a livello europeo?

A nessuno può sfuggire cosa sta accadendo nei paesi del Gruppo di Visegrád e mi riferisco agli attacchi - politici ma anche culturali - a dei diritti fondamentali come quelli difesi dalla Convenzione di Istanbul. Ci sono Stati che hanno bloccato i processi di ratifica della convenzione e altri che stanno perfino facendo dietrofront, come la Polonia che sta ragionando su meccanismi per ritirare la ratifica.

La stessa Polonia la cui Corte costituzionale ha vietato l’interruzione di gravidanza anche in caso di malattie e malformazioni del feto.

È la stessa faccia, la stessa matrice, la stessa radice di questa azione di contrasto alla Convenzione di Istanbul. È come dire: “Le donne devono stare al posto che diciamo noi”, “noi” inteso come società patriarcale, restauratrice.

In Italia intanto si può seppellire un feto all’insaputa della donna che l’ha abortito. Diverse donne hanno di recente denunciato il fatto che veniva affisso il loro nome e cognome su una croce senza che ne sapessero nulla.

Un fatto gravissimo. Un paese come il nostro non dovrebbe permetterlo e invece accade anche questo. Del resto gli attacchi si sprecano, non dimentichiamoci il Congresso Mondiale delle Famiglie, a Verona, un anno e mezzo fa. Ecco, quella è stata la prova evidente di tutto ciò che da tempo, con la dotazione di strumenti politici ed economici enormi e con il supporto di molte Chiese, dalla cattolica alla ortodossa, si sta muovendo contro l’autodeterminazione e la libertà della donna. Sul piano dell’organizzazione europea dei centri antiviolenza siamo estremamente consapevoli di questi attacchi. Sono quei centri che permettono a una donna di autodeterminarsi, sia quando questa sceglie cosa vuole fare della propria gravidanza, sia quando decide di sottrarsi dall’azione di potere e controllo per essere autonoma e libera. E libertà non vuol dire, come insinua qualcuno manipolandone il significato, che vogliamo vivere secondo canoni di disvalore morale, ma pretendiamo di avere pari possibilità di determinare la nostra vita.

A nessuno può sfuggire cosa sta accadendo nei paesi del Gruppo di Visegrád e mi riferisco agli attacchi - politici ma anche culturali - a dei diritti fondamentali come quelli difesi dalla Convenzione di Istanbul

A proposito dei centri antiviolenza, qual è il loro stato di salute?

Vanno rafforzati, perché sono il luogo di sostegno, sicurezza e accoglienza per quelle donne che hanno bisogno di uscire dalla violenza ma anche di salvarsi la vita, a volte. Queste strutture, caratterizzate da un’estrema professionalità e competenza, sono riconosciute e indicate dalla Convenzione di Istanbul come realtà che devono essere finanziate e potenziate dall’amministrazione politica. E su questo tema l’Italia è sempre stata troppo carente.

L’Alto Adige fa eccezione?

Avendo una legge specifica, dal punto di vista economico è più dotato. Ci sono, sul territorio, centri antiviolenza con caratteristiche diverse, alcuni sono progetti di donne autonomi, altri come quelli di Brunico e Bressanone fanno parte del Servizio sociale. E ci tengo a sottolineare che si è lottato per questo. Siamo una delle poche province in Italia che quantomeno rientra nei parametri europei.

Il Covid-19 però non ha fatto sconti a nessuno.

In tutti i campi, sia privati che pubblici, l’emergenza sta scoprendo molti nervi e questo è inesorabile. Anche in una regione dove tutto sommato il sostegno ordinario è idoneo, davanti allo straordinario le difficoltà emergono.
Durante il periodo del lockdown, come sappiamo, con la condivisione forzata degli spazi domestici insieme a tutte le tensioni che ciò ha portato, sono incrementati i casi di violenza domestica, maltrattamenti, lesioni, che sono sfociati anche nell’omicidio, purtroppo. I posti per accogliere le donne, già insufficienti in tempi normali, possono e dovrebbero aumentare nel contesto emergenziale, e invece non si è potuto dare rifugio alle persone bisognose per non mettere a rischio la salute di chi era già stato soccorso. Per cui si sono dovute inventare le soluzioni più diverse, con le risorse disponibili, non certo adeguate per fronteggiare un momento simile.

Come si è mossa la rete dei centri antiviolenza?

Il messaggio immediatamente lanciato da D.i.Re al governo è stato: attenzione, perché sappiamo cosa può succedere ora nelle case.
Noi comunque ci siamo e continuiamo a esserci. I centri antiviolenza non hanno chiuso un minuto durante l’emergenza, si sono dovuti riadattare rispetto alla struttura abitativa di accoglienza e al colloquio faccia a faccia, ma sono sempre stati presenti e raggiungibili con le modalità più creative. Non avevano nemmeno i dispositivi di protezione e si sono dovuti arrangiare anche economicamente per attrezzarsi. Si sono fatti miracoli rispetto al non tradire la missione di dare sostegno alle donne, in Italia come in tutta Europa. Avvilente vedere invece, in piena crisi, il dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri fare una sorta di gioco delle tre carte: annunciare di aver sbloccato dei fondi extra per l’emergenza sanitaria quando in realtà si trattava dei finanziamenti che i centri attendevano di ricevere dal 2019 e che non erano ancora stati erogati e distribuiti.

Le donne vogliono il cambiamento e lo vogliono per il bene collettivo. Lo hanno dimostrato nell’emergenza Covid portando sulle spalle la necessità di affrontare la crisi. Cosa che non è stata riconosciuta

Un’ultima domanda: a che punto è il femminismo?

Direi che è più vivo e attivo che mai, molto più almeno di 10, 15, 20 anni fa. Conosce nuove generazioni, nuove facce. Parliamo oggi infatti di femminismi, al plurale, e aggiungo per fortuna. C’è stata una fase storica in cui la comunicazione si è un po’, come dire, “inceppata” anche per via del fatto che le donne avevano tratto grandi benefici dai risultati che aveva raggiunto la cosiddetta seconda ondata femminista. Forse non si è avuta subito la consapevolezza di dover lottare per qualcosa - e parlo degli anni ’80-’90 -, perché fondamentalmente si stava godendo di risultati già acquisiti e scontati. Nulla però è mai acquisito e scontato quando si tratta di lavorare sul cambiamento di sistemi e modelli di società e politiche profondamente radicate. Gli agenti del cambiamento sono spesso quelli che non partecipano alla torta del privilegio. Le donne vogliono il cambiamento e lo vogliono per il bene collettivo. Lo hanno dimostrato nell’emergenza Covid portando sulle spalle la necessità di affrontare la crisi. Cosa che non è stata riconosciuta. Basta ricordare che quando il governo ha istituito la task-force, per definire le politiche per la ripresa dopo il lockdown, non è stata inizialmente nominata neppure una donna. A proposito di tutta la strada che c’è ancora da fare.