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“Borgofuturo è ancora un’intuizione”

Nelle Marche, ogni due anni, si svolge Borgofuturo. Conversazione su un festival “glocal”, radicato e sempre in divenire – tra social camp e progetti di vallata.
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Foto: Borgofuturo

Ripe San Ginesio, in provincia di Macerata, ha 851 abitanti e un festival che guarda al mondo. Si chiama Borgofuturo, e da più di dieci anni fa incontrare locale e globale in un territorio spesso considerato periferico – anche da chi vi abita. Partito come progetto di rivitalizzazione del paese, oggi fa parte di una rete che raccoglie esperienze culturali e di attivismo da tutta Europa che si occupano di tematiche ambientali e sociali. Ma, come indicato nel sito, “ogni categoria che si tenta di associargli è spesso solidale, ma sempre riduttiva”. Ne abbiamo parlato con Nicola Miconi, che fa parte del comitato organizzativo.

 

Salto.bz: Sul sito del festival si legge: “Dopo dieci anni, Borgofuturo è ancora un’intuizione, prima ancora che un sistema di pensiero”. Come nasce Borgofuturo e perché proprio a Ripe San Ginesio?

Nicola Miconi: L’idea è nata nel 2010 quando Damiano Giacomelli era assessore alla cultura del comune di Ripe San Ginesio e aveva come pallino quello di portare un festival all’interno di un borgo, in un contesto come quello dell’entroterra maceratese in cui spesso e volentieri non c’è una proposta culturale medio alta che faccia sì che i giovani siano interessati non solo a restare, ma anche a costruire una narrazione del proprio territorio. Già nel nome c’è un chiaro richiamo identitario – la dimensione della vita del borgo e il futuro in termini di rilancio – e fin da subito nasce come festival della sostenibilità a misura di borgo, con tematiche che si sono rivelate in qualche modo premonitrici: si inizia a parlare di sostenibilità prima che diventasse un argomento imprescindibile di qualsiasi evento culturale o programma elettorale. Il tentativo era quello di portare una proposta artistica e culturale di qualità adattandola alla dimensione del borgo, in un contesto in cui spesso questa proposta culturale è carente.

 

 

Dal 2017 al festival vero e proprio si affianca il Social Camp, un campeggio di tre giorni che ospita seminari e workshop su varie tematiche – dall’ambientalismo al fare comunità, dall’economia circolare alla decolonizzazione dell’immaginario collettivo –, spesso con contributi provenienti da altre parti d’Italia e d’Europa. Come mai è stato introdotto all’interno di Borgofuturo?

L’idea del Social Camp è venuta vedendo i grossi social camp che si fanno soprattutto in nord Europa in relazione ai movimenti ambientalisti. L’esigenza di uno spazio di questo tipo era quella di creare una dimensione ulteriore rispetto a quella artistica e culturale, in cui si potessero discutere dei temi che – pur essendo sempre declinati – erano più difficili da inserire nella cornice del festival. Il Social Camp ha permesso di occuparsi di questi temi, includendo delle persone che avevano intenzione di vivere per un certo periodo di tempo un campeggio basato su dei principi e delle logiche un po’ diverse dalla vita quotidiana. Il Social Camp si è evoluto come dinamica totalmente indipendente, infatti è completamente autofinanziato. Nel tempo c’è stato il supporto di vari collettivi europei, da Act for Climate Justice a Kopuntu, creando una rete che ha permesso di fare eventi anche fuori dall’Italia. Per esempio, nel febbraio 2020 – alle soglie del primo lockdown – sono stati fatti a Berlino un laboratorio di mappatura e un workshop di gnocchi, con una piccola mostra fotografica nello spazio Officina Neukölln.

 

 

Macerata è una delle province italiane con la maggiore emigrazione all’estero per motivi di studio e lavoro. La presenza di ospiti internazionali a Borgofuturo è un “contributo di ritorno” di persone del posto che si sono trasferite altrove, oppure c’è un’organizzazione centrale che da Ripe San Ginesio guarda alle realtà fuori dall’Italia?

La maggior parte delle persone che sono dentro Borgofuturo non vive quotidianamente la Val di Fiastra, ma tornandoci sente sempre un sentimento di appartenenza e il desiderio di restituire quanto il territorio negli anni ci ha dato. Essere andati fuori ha consentito di creare dei rapporti che sono entrati poi in dinamiche del festival in alcuni casi e del Social Camp in altri. Spesso i contributi delle persone e delle realtà che vengono al Social Camp sono contatti che vengono da legami. Non sono scelte fatte a tavolino, quanto più legate al fatto che ciascuno di noi – io nella mia vita torinese, qualcuno a Bruxelles, qualcuno a Lipsia - sia entrato in rapporto con una data realtà che potrebbe essere un contributo interessante. In questo modo si è creata una rete che ha consentito di costruire i workshop e gli incontri del Social Camp, dove quasi sempre si cerca di parlare in inglese.

 

 

Come si inserisce un evento di respiro internazionale in un contesto come quello di Ripe San Ginesio?

Fino al 2019 il Social Camp veniva fatto proprio nel borgo e si creava una bella dinamica, in cui da un lato c’erano persone da tutta Europa, e dall’altro lato i componenti del paese – i classici signori che trascorrono le giornate a giocare a briscola al bar. Per i tre/quattro giorni del Social Camp c’era questa armonia disarmante tra persone che non si sarebbero mai incrociate tra loro, le cui vite viaggiano non tanto su binari diversi quanto proprio su mezzi di trasporto diversi. Al tempo stesso si riusciva a creare sia una fiducia dei paesani nei confronti delle persone che venivano, sia una curiosità da parte delle persone verso tutte queste dinamiche di paese. C’era uno scambio, una contaminazione anche in questo senso. 

 

Videoracconto del Social Camp #3 realizzato da Kopuntu

 

Non è così scontato che ci sia un’apertura da parte della cittadinanza, può crearsi la classica dinamica di un progetto che si inserisce in una comunità già consolidata e che appare in qualche modo imposto. Se invece si cerca di far capire che è un tentativo di costruire insieme quella realtà, di cambiarla insieme, di creare uno spazio, è sempre più facile che ci sia disponibilità all’ascolto e anche legittimazione di quello che si fa.

 

Nel 2020 Borgofuturo rientra anche nel programma europeo Youthquake. Si parla sempre di Social Camp o anche di altro?

Con Youthquake nel 2019 sono venuti dei volontari europei che hanno aiutato fisicamente nella logistica del Social Camp, mentre nel 2020 ci sono state due ragazze, Clara e Gabri, che per più di un mese hanno fatto una mappatura dell’anello della val di Fiastra. Nell’estate 2022 dovrebbe partire il progetto della passeggiata dell’anello della val di Fiastra, una passeggiata di 2-3 giorni con varie strutture adibite all’accoglienza, e loro l’hanno percorsa entrando in relazione con varie persone e personaggi del posto, e creando una mappa in maniera artistica inserendo quello che le ha colpite. Logicamente non è una mappatura precisa, ma non era quello l’intento del progetto.

 

 

Partendo dal paese lo sguardo del festival si allarga anche alla vallata?

Una degli obiettivi del festival fin dall’inizio era il tentativo di rigenerazione del territorio, partito nel 2010 con la mappatura e la successiva messa a bando di locali vuoti di proprietà del comune di Ripe San Ginesio. Negli anni molti di questi locali sono stati occupati da diverse attività, ora ci sono tra gli altri il birrificio artigianale Malaripe, la sartoria Ètico e il laboratorio di ceramica. Nel 2020 questo progetto si è rilanciato attraverso i tavoli territoriali. Sono tavoli di progettazione partecipata della Val di Fiastra, nati come esigenza di creare un’identità sotto vari aspetti – dall’aspetto enogastronomico all’aspetto culturale – nella vallata. Per questo motivo nel 2020 il festival si è aperto per la prima volta ai comuni di Loro Piceno, Urbisaglia, Colmurano e Sant’Angelo.

 

Le edizioni 2020 e 2021 infatti si sono chiamate Borgofuturo+ il buon contagio. Era inevitabile che una realtà come quella di Borgofuturo arrivasse a contagiare, appunto, i comuni limitrofi?

Più che inevitabile, un contagio era necessario. Se dei paesi in costante decrescita da un punto di vista demografico e abitativo non fanno una rete – una rete territoriale basata sull’appartenenza allo stesso territorio o su un qualsiasi altro elemento in comune – e non condividono le loro idee progettuali neanche con chi gli sta vicino, rischiano di essere solamente le ombre dei loro progetti.

 

 

Dal 2011 Borgofuturo ha una cadenza biennale. Dopo le edizioni BF+ è il momento di fermarsi fino al 2023?

Di base BF è biennale, anche se nell’anno di mezzo si è sempre fatto “Verso Borgofuturo” dell’anno successivo. Il 2020 sarebbe stato l’anno in cui non ci sarebbe dovuto essere il festival, ma una somma di cose ha fatto sì che si scegliesse di farlo. In primis nel 2020 cadeva il decennale di Borgofuturo, in secondo luogo perché il contesto pandemico in cui ci troviamo tuttora aveva ancor più ridotto l’offerta culturale e artistica dell’entroterra maceratese, e allo stesso tempo aveva aumentato esponenzialmente la domanda. C’erano un sacco di persone che erano state chiuse in casa per più di due mesi e che erano disposte a sorbirsi qualsiasi artista pur di andare a un concerto live, per cui era un po’ un dovere morale offrire un’alternativa alle poche proposte nella zona. Il 2021 è stato la chiusura di un biennio, sia dal punto di vista di festival sia dal punto di vista dei processi di partecipazione che hanno visto ora la pubblicazione del libro (Borgofuturo+ un progetto locale per le aree interne edito da Quodlibet, ndr).

 

Quella di tornare alla dimensione biennale non è tanto una formalità, quanto una necessità. Non c’è nessuno che 365 giorni all’anno pensa al festival e quindi è necessario prendersi il tempo per rilanciarsi artisticamente e nei modi in cui ci si pone. Altrimenti si rischia di appiattire la proposta per il semplice fatto di dover proporre qualcosa.

 

Anche in Sudtirolo ci sono realtà che pensano al rilancio del territorio e alla creazione di una narrazione diversa. Un esempio è il comune di Schluderns/Sluderno, che a novembre ha promosso un processo partecipativo per la riqualificazione dei centri storici, aprendo il paese ai visitatori e creando dei tavoli di discussione.

Di realtà molto simili in Italia ce ne sono, da nord a sud – mi viene in mente Franco Arminio con la paesologia, o il Rural Commons Festival in Trentino – ognuna con i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza. C’è un’Italia – intesa come un insieme di persone – che si mette in moto per cambiare la tendenza degli ultimi 30 anni dell’evadere da luoghi visti come di alienazione. Il rischio è che questi fenomeni trasformino quelli che erano luoghi da cui evadere per i giovani, in luoghi turistici in cui tornare nei giorni di festival. Questa è una delle dinamiche che Borgofuturo ha sempre voluto affrontare, cercando di avere un approccio lucido nei confronti del discorso politico sul turismo. Si deve parlare di un turismo consapevole, non di un turismo di massa che trova l’ennesima valvola di sfogo nei piccoli paesi dell’entroterra dell’Appennino. Non c’è bisogno di un turismo che crei paesini a misura di turista, con più case su Airbnb che in affitto, ma è necessario che i paesi diventino a misura di persona, luoghi in cui si può vivere bene sia una persona anziana che trova la sua serenità nel paese, sia una o un sedicenne che cerca qualcosa di più, o qualcosa comunque di diverso rispetto a ciò che in genere offre un paese. Il movimento si crea quando si cerca di costruire uno spazio in cui si possa viver bene.