Giancarlo Bolognini
Foto: Comune di Bolzano
Politik | Avvenne domani

Sindaco dei tempi difficili

La morte di Giancarlo Bolognini.

Si sono dette molte cose, in questi ultimi giorni, in morte di Giancarlo Bolognini. Di volta in volta l'accento è stato messo sulla figura di politico, legato strettamente a quel gruppo di cattolici democratici che, all'inizio degli anni 60, si caricò sulle spalle il non facile compito di traghettare la comunità italiana dell'Alto Adige verso un progetto di nuova autonomia che comportava il passaggio del potere nelle mani della Suedtiroler Volkspartei, o su quella dell'amministratore della cosa pubblica o, infine, su quella dell'appassionato sportivo.

Resta lo spazio, a parere di chi scrive, per illuminare un po' più da vicino un passaggio fondamentale nella carriera e nel percorso umano di Giancarlo Bolognini: quello che lo vide assumere, nel luglio del 1968, la carica di sindaco di Bolzano. Era, si disse allora e non vi è motivo per dubitarne, il più giovane primo cittadino di una città italiana sopra i centomila abitanti. Quando cinse per la prima volta la fascia tricolore, prendendo il posto dell'amico fraterno, collega di partito e di corrente, Giorgio Pasquali, non aveva ancora compiuto i trent'anni. Pasquali si era dimesso  quell'estate, ancor prima di decidere se candidare per la Provincia nelle elezioni fissate per l'autunno di quell'anno. Bolognini che era entrato in consiglio comunale appena tre anni prima, aveva assunto da poco l'incarico di segretario provinciale di una Democrazia Cristiana tutt'altro che pacificata al suo interno. Nel partito una robusta corrente di minoranza contestava più o meno apertamente la linea del gruppo maggioritario facente capo ad Alcide Berloffa che, in stretto collegamento con Aldo Moro, puntava a chiudere quanto prima l'interminabile trattativa per il nuovo Statuto di autonomia.

Il passaggio di testimone tra Pasquali e Bolognini fu tutt'altro che indolore. La candidatura quest'ultimo alla guida della città fu osteggiata apertamente proprio da coloro che, dentro e fuori la Dc, speravano ancora di poter infilare robusti pali tra le ruote dell'intesa che ormai si andava profilando e che sarebbe stata conclusa nel giro di qualche mese.

Il giovane sindaco era pienamente conscio, tuttavia, che i grandi problemi di ordine generale e di assetto autonomistico non erano che il quadro nel quale andava iscriversi una situazione del capoluogo altoatesino che diveniva sempre più preoccupante di giorno in giorno.

A costo di smentire i nostalgici dei bei tempi andati, secondo i quali Bolzano era un'oasi di gioia e di serenità e ci si ammalava solo di raffreddore a causa delle correnti d'aria provocate dal fatto che si dormiva con porte e finestre aperte, va detto che proprio in quegli anni la città attraversò uno dei periodi più cupi e difficili della sua storia. Uno dei pochi motivi di sollievo derivava dal fatto che finalmente parevano quietarsi gli  allarmi notturni per le bombe che esplodevano a volte a poca distanza dalle case. Restava la tensione etnica, ancora altissima, e cresceva a dismisura il malcontento sociale. La crisi politica scoppiata un decennio prima aveva avuto come effetto immediato quello di paralizzare la crescita di una città che, secondo le previsioni avrebbe dovuto toccare ben presto i centocinquantamila abitanti. Una paralisi che riguardava il settore della casa, ma anche e soprattutto i servizi. Solo con estrema lentezza e fatica si aprivano nuove scuole nei quartieri popolari. I doppi turni erano la regola in molti istituti e, ad ogni inizio di anno scolastico, sulle autorità, primo tra tutti il sindaco, si riversava la rabbia dei genitori che scoprivano che i loro figli avrebbero dovuto studiare un altro anno in locali malsani, rimediati alla meglio. Nel vecchio ospedale, situato nel centro storico, si veniva ricoverati ancora nei cameroni collettivi che ricordavano i romanzi ottocenteschi. La città non aveva sale teatrali degne di tal nome e proprio in pieno centro storico, alle spalle del Duomo, si apriva una sorta di deserto polveroso, effetto non sanato degli sgomberi seguiti ai bombardamenti della guerra.

Questo il patrimonio che Giancarlo Bolognini si trovò ad ereditare, ma assieme ad esso gli capitò si dover gestire anche un malcontento e una protesta sociale che diventavano di giorno in giorno più pesanti. Non c'era solo il latente conflitto etnico, con la comunità italiana che accusava la SVP di voler strangolare la città per costringere i suoi abitanti a percorrere a ritroso la strada che li aveva portati in Alto Adige. Furono anche gli anni della grande protesta operaia, delle rivendicazioni che non si fermavano entro il recinto delle fabbriche ma che coinvolgevano l'intero assetto sociale. I sindacati chiedevano misure di contenimento dei prezzi, tariffe più vicine alle possibilità delle classi più disagiate. Particolarmente agguerriti i comitati degli inquilini delle case popolari.

E poi c'erano i quartieri. Il cosiddetto decentramento amministrativo, sul quale oggi a Bolzano si discute animatamente, allora non esisteva. Nonostante questo, o forse proprio per questo, le difficili condizioni di molte zone della città stimolarono la nascita di aggregazioni spontanee, sulle quali l'influsso dei partiti di opposizione era assai meno diretto di quanto non si possa immaginare. Erano i cittadini che si auto organizzavano, si tassavano per stampare al ciclostile i volantini e gli inviti per le riunioni che, in mancanza di sale civiche, si svolgevano negli oratori, nelle sale dei bar, dove capitava.

Un fervore civico tenuto assieme da una carica di protesta e di insoddisfazione per come andavano le cose.

Questa è la città che Giancarlo Bolognini si trovò dunque a dover amministrare, a partire da quel luglio del 1968, alla guida di maggioranze politiche mai troppo salde, sempre travagliate da incertezze e dissidi che vedevano gli alleati socialisti e laici  staccarsi periodicamente dall'accoppiata DC-SVP, che costituiva il nocciolo duro del governo comunale.

Sono gli anni nei quali, in un dialogo a volte aspro con il nuovo potere provinciale enormemente rafforzato con l'entrata in vigore del secondo Statuto, sui tavoli del municipio vengono stese le carte di un nuovo piano regolatore, che deve disegnare in qualche modo la città del futuro. Nella primavera del 1974, su questi temi la giunta comunale che Bolognini guida ormai da qualche anno va al confronto con la popolazione. Una serie di incontri ai quali, oltre al sindaco che già sa di doversi giocare, l'anno successivo, il rinnovo dell'incarico, partecipano gli altri assessori competenti. Un altro "cavallo di razza", il socialista Claudio Emeri, copre la delicatissima competenza dell'urbanistica. Sono soprattutto lui e Bolognini ad affrontare il mare in tempesta dei comitati di quartiere e dalla rabbia popolare. Quelle serate, che si prolungavano spesso fino a notte inoltrata, furono tra i primi avvenimenti che un giovanissimo cronista, colui che sta scrivendo queste righe, fu mandato a "coprire". Furono una lezione impareggiabile, un'occasione per conoscere da vicino i problemi della città visti da coloro che la abitavano e da coloro che si trovavano a doverla amministrare. Fu però anche l'occasione per pesare sul campo l'uomo Giancarlo Bolognini.

Se non uscì travolto da quelle contestazioni come dalle molte altre che si trovava a dover subire quasi quotidianamente anche nei suoi uffici, fu perché in realtà egli apparteneva a quella gente. Parlava lo stesso linguaggio, era cresciuto negli stessi cortili e sugli stessi campi sportivi. Sapeva cosa pensavano e cosa volevano, anche se a volte era drammaticamente conscio di non poter soddisfare quelle richieste. Le case, le scuole, i servizi, l'ospedale, il teatro sarebbero arrivati l'uno dopo l'altro, ma a distanza di anni, a volte di decenni. E ci sarebbero stati momenti di una durezza implacabile, come quando fu necessario sgombrare le vecchie casette Semirurali, già abbandonate dagli inquilini originari ed occupate da una turba di disperati che non sapevano come fare ad avere un tetto sotto il quale passare la notte. Come quando le istanze di altri occupanti, giovani contestatori interetnici che avevano creato una sorta di centro sociale "ante litteram" tra le rovine del vecchio Monopolio Tabacchi di via Dante, furono sgombrate dalle ruspe mandate proprio dal Sindaco. Oggi al posto delle Semirurali ci sono interi quartieri di edilizia sociale, parchi, asili, scuole. Al posto del Monopolio le vetrate avveniristiche di un Museion che forse si porta addosso, come un'atavica maledizione, l'anatema dei contestatori che furono cacciati. Di quelle decisioni Bolognini, che guardava dalla finestra di casa i sovversivi all'opera, non si pentì mai. Aveva fatto il sindaco in tempi molto duri, prendendo decisioni impopolari, ma guardando in faccia coloro che gliele rinfacciavano, urlandogli  insulti, per poi ritrovarseli magari accanto, il sabato sera sulle tribune del palaghiaccio di via Roma, o la domenica pomeriggio su quelle dello stadio Druso. Per gridare assieme "forza Bolzano". Che è il nome di una squadra ma anche di una città.